Scacco Matto

I sorrisi più belli sono quelli delle persone che hanno sofferto: sono puri e magnifici, di una sincerità disarmante. Parlano di dolore, ma soprattutto di felicità, senza vetri a coprirli. Sono meravigliosi, perché chiunque abbia sofferto merita di sorridere, e un merito non può che essere bello, come l'arcobaleno che esce dopo una giornata di pioggia.

•••

Nel giro di due o tre minuti, raggiunsi il portico, dove la fresca brezza mi avvolse.

Alcuni ragazzi giocavano nel campetto da pallavolo. Erano tutti semidei, esattamente come me. Mi sembrava ancora assurdo, se ci pensavo per più di pochi minuti di seguito. Io, Gabriel, un orfano parzialmente dislessico e iperattivo, avevo il sangue di uno degli dei dell'Olimpo dentro di me. Continuare a ripeterlo lo faceva sembrare solo più strano, più impossibile. Eppure, tutto quello che il mio amico Mick mi aveva raccontato, per quanto poco fosse, doveva essere vero. Lo sentivo, dentro di me. Lo sentivo chiaramente, ero finalmente nel posto giusto.

Da lontano, scorsi le capanne che avevo visto nel mio sogno. Le contai, erano dodici. Aggrottai la fronte, perplesso: c'era qualcosa che non tornava. Era una strana sensazione, sapevo esattamente che qualcosa non tornava, ma non riuscivo a capire cosa. Presi mentalmente l'appunto di chiedere spiegazioni a Chirone non appena avessi potuto.

A poca distanza da me, Chirone e il Signor D erano nuovamente immersi in una partita, solo che, quella volta, era di scacchi. Con un gesto della mano, Chirone mi invitò ad avvicinarmi, cosa che feci immediatamente.
«Come ti senti?»
«Molto meglio, grazie» risposi, studiando la situazione sulla scacchiera.

Chirone cominciò a parlare.
«Benvenuto al Campo Mezzosangue, Gabriel. Sono felice che tu sia giunto fin qui sano e salvo.»
«Beh, non immagina quanto sia felice io di essere ancora vivo, signore.» Gli sorrisi un po' stancamente. Mi sembrava che fossero passati secoli da quando avevo lasciato San Francisco.
«Non serve che tu mi chiami signore, Gabriel. Comunque, immagino che tu abbia un sacco di domande da farmi.»
Annuii energicamente.
«Per cui,» continuò «coraggio, inizia pure.»

Stavo per dare inizio all'interrogatorio più lungo di sempre, ma fui interrotto dall'altro uomo.
«Fermi, voi due. Se avete intenzione di cominciare una di quelle interminabili discussioni sulle divinità e su altre scempiaggini sui semidei, io me ne vado. L'ho sentite così tante volte che potrei farlo io il discorso d'ingresso. Arrivederci e grazie.»

Ringraziai il cielo. Mi era tornato in mente il commento che aveva fatto mentre svenivo, nonché la conversazione avuta nel messaggio-iride.

L'uomo si alzò dalla sedia. Anche i suoi gesti mi irritavano.
Mi rivolsi a Chirone e indicai con il pollice l'uomo, che si era spostato alle mie spalle.
«La mia prima domanda... lui chi è?»

Mi parve di scorgere un lampo di divertimento negli occhi del mio interlocutore, mischiato ad un'occhiata di avvertimento. Sentii l'altro irrigidirsi.
«Porta rispetto, piccolo mortale. Per rispondere alla tua sciocca domanda, io sono un dio. Uno dei dodici.»

Mi vennero in mente un sacco di risposte a tono, tra le quali "dio degli idioti" e "dio dell'acidità", ma il mio istinto razionale mi trattenne dal pronunciarle, considerando che quello che avevo davanti con molta probabilità era veramente un dio, e che non conoscevo la portata dei suoi poteri. Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto ridurmi in polvere in mezzo secondo.

«Dioniso?» chiesi invece, dopo averci riflettuto un istante.
Il dio finse un'espressione stupita.
«Oh, a quanto pare c'è almeno un neurone funzionante in quella tua piccola testa mortale, ragazzino. Da cosa hai capito che non sono Artemide, piccolo genio?»

Dallo sguardo, immagino.

Per fortuna, il mio istinto razionale mi salvò un'altra volta.
«Sono andato a senso, signore.»
Mi stupii profondamente di quanto fossi riuscito a contenere il veleno nella mia voce.

A lui sembrò andar bene quello che avevo detto, oppure non aveva più voglia di stare a sentire un ragazzino come me, e se ne andò. Aveva percorso una ventina di passi quando mi balenò un pensiero in testa.
«Signor Dioniso!» lo chiamai «Posso finire io la partita?»
Immaginai di averlo fatto irritare abbastanza. Non si voltò nemmeno.

Decisi di interpretarlo con un sì.
Mi sedetti davanti a Chirone e osservai la situazione sulla scacchiera.
«Sono messo abbastanza male» commentai, facendo una smorfia.

Chirone continuava a guardarmi, incoraggiandomi con gli occhi, che avevano assunto uno sguardo divertito.
Sospirai. «Adesso, mi potrebbe spiegare tutta questa storia? Dal principio, se possibile. E, soprattutto, vorrei capire cosa c'entro io, con tutto questo.»

E così, mentre i nostri eserciti si scontravano sul territorio a quadri bianchi e neri, Chirone mi parlò di tutto quello che c'era da sapere e, in modo particolare, di tutto quello che io volevo sapere. E finalmente ebbi delle risposte, che, per quanto strane, erano comunque qualcosa a cui potevo aggrapparmi.

Poi gli raccontai del mio viaggio, di ciò che mi era successo. Gli chiesi degli Inferi, della loro esistenza, ma lui, capendo i miei veri pensieri e precedendo la mia domanda seguente, mi disse che non si potevano riportare indietro le persone dal regno dei morti.
Gli parlai del fatto che mi cercassero praticamente in tutto il paese, ma lui mi rassicurò dicendo che avrebbe pensato a tutto la Foschia.

A circa metà della conversazione, arrivò un ragazzo afroamericano enorme, che dal viso non poteva dimostrare più dodici anni.
«L'ho analizzato, ma non riesco a capirne né la provenienza né chi sia l'artefice. So solo che è di bronzo celeste e che ha la capacità di bruciare i mostri al contatto» disse, appena si fu avvicinato.
Spalancai leggermente la bocca, stupito.
«Io ti ho sognato.»
Il ragazzo muscoloso si girò verso di me, con il viso confuso. Così, gli raccontai tutta la storia del sogno.

Dopo aver ascoltato, tirò fuori dalla tasca il mio anello. Chirone fece un cenno verso di me, e Beckendorf mi diede il piccolo oggetto.
Immediatamente, lo misi al dito. Mi sentii subito più calmo, come se una parte di me si fosse rilassata, o fosse tornata al suo posto.
Il ragazzo salutò, per poi andarsene.
Io e Chirone rimprendemmo a parlare, e i nostri eserciti tornarono a battersi sul campo di battaglia.

Alla fine della conversazione, probabilmente avrei dovuto sentire la testa che mi scoppiava, che vorticava senza fermarsi, ma non fu così. Sentivo nella mente una specie di tranquillità, che proveniva dal fatto che tutti i pezzi del puzzle fossero andati a posto, combaciando tra loro alla perfezione.
Una perfezione divina.
Non c'era più confusione, regnava l'ordine.

«Chirone, non ho idea del motivo, ma mi sembra che ci sia qualcosa di strano nelle dodici capanne, anche se non capisco cosa...»
Ma in quel momento capii.
«Ecco cos'è che non mi torna! Le capanne sono dodici, non tredici!» esclamai.
Ripensai alle capanne che avevo visto nel sogno, comparando le loro caratteristiche agli dei dell'Olimpo. Alla fine della rassegna, ne rimase fuori uno.
«Manca Ade, giusto?»
Un tuono risuonò in lontananza, e Chirone si agitò sulla sedia a rotelle, a disagio.
«I nomi sono potenti, ricordalo. Il signore dell'oltretomba non è... come dire... tenuto in grande considerazione dagli altri dodici dei, per cui non ha una sua capanna qui al campo.»

Dopo qualche secondo riprese.
«A proposito di capanne, per ora ti metteremo nella 11, quella di Ermes, fino a quando non verrai riconosciuto.» Lo aveva detto come se non fosse un evento sicuro. Probabilmente non lo era. Io annuii: l'importante era avere un posto dove dormire.

«Osservazione acuta quella delle capanne. Sei un ragazzo intelligente, Gabriel.»
«Grazie.» Gli sorrisi e feci quella che, probabilmente, sarebbe stata la mossa che avrebbe determinato la partita.
Avevo a poco a poco recuperato lo svantaggio, a volte con giocate audaci e improvvise, altre volte con mosse particolarmente lente. Chirone era stato davvero un avversario tosto, ma io ero bravo con gli scacchi, lo ero sempre stato. Era tutta una questione di strategia. Era come combattere una vera battaglia.

Il mio avversario osservò per un po' la scacchiera, indeciso sul da farsi. Poi chiuse gli occhi e sospirò, la bocca prese una piega molto vicina al sorriso.
Quando venne il mio turno, con il mio pezzo andai a rovesciare il re di Chirone.

«Scacco Matto.»
Partita vinta.
Battaglia vinta.

Il centauro - avevo scoperto che lui era il centauro Chirone dei miti durante la conversazione - sembrò guardarmi come per dire qualcosa, ma la sua espressione mutò di colpo.
Lo stupore gli balenò sul viso e aggrottò le sopracciglia, rimanendo quasi a bocca aperta. Mi accigliai anche io, come ad esprimere una muta domanda, che Chirone parve capire.

«I tuoi occhi...»
In quell'istante, il suo viso si illuminò di una luce argentea, un bagliore chiaro ma al tempo stesso deciso che gettava ombre suggestive sul suo volto.
Mi accorsi che i suoi occhi non erano più incastonati nei miei, ma puntavano al di sopra di essi.

Lentamente, con una strana sensazione nel petto, gettai indietro la testa per vedere sopra di me.
Un luminoso uccello argenteo brillava sospeso in aria. Lo riconobbi non appena lo vidi.
Una civetta.

Con gli occhi ancora fissi sul quel meraviglioso prodigio, trovai nella mia mente un solo pensiero di senso compiuto.
«Atena...» dissi, la voce pari ad un sussurro.

Chirone si alzò dalla sedia a rotelle, rivelando il suo corpo equino, per poi inginocchiarsi davanti a me.

Solenni furono le parole che pronunciò.

«Immagino che dovremo aspettarci importanti cose da te. Ave, Gabriel, progenie della civetta, figlio della dea della sapienza.»

Il mio volto si aprì in un sorriso luminoso come il sole di giorno e la luna di notte, scintillante come i bagliori del mare e il ferro rovente, brillante come una folgore e come il verde delle foglie bagnate dalla rugiada.

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