Infermeria

Un cambiamento può portare a una serie di reazioni del corpo totalmente imprevedibili.

•••

Quando raggiunsi il satiro in fondo alla collina avevo ormai il fiato corto per la fatica: trascinare le mie stanche membra senza cadere non era stato affatto facile.

Mentre il mio battito tornava regolare, affiancai Mick, che si era fermato e aveva puntato lo sguardo verso un albero a poco più di un metro da lui. Sembrava totalmente perso nei ricordi e, per la prima volta, potei scorgere un barlume di tristezza sul suo volto.

Volevo parlargli, ma dopo averlo visto in quelle condizioni mi bloccai. Decisi di dargli un po' di tempo. Conoscevo quell'espressione di tristezza: l'avevo già vista negli occhi di parecchi ragazzi dell'orfanotrofio. Tristezza e ricordi, ecco il significato.

Mi guardai intorno. A poca distanza da dove ci trovavamo c'era una specie di fattoria, completamente circondata da campi di fragole e, lì vicino, quella che sembrava una rete. Ancora più in lontananza si vedeva il mare. Immaginai che fosse la baia di Long Island. Eppure non riuscivo a vedere nessuno. Nessuna persona, solo qualche cavallo sparso qua e là.

Mick mi distolse dai miei pensieri.
«Gabriel.»
Mi voltai verso di lui. Non aveva più lo sguardo perso nel vuoto, ma la sua espressione era rimasta seria..
«Non vorrei farti perdere tempo, ma penso che questa storia debba essere raccontata. Questo albero un tempo era una ragazza di nome Talia. Era una mezzosangue, proprio come te. Figlia di Zeus.»
Quella ragazza era la figlia del re degli dei. Immaginai che dovesse essere molto potente.

«Fu proprio quello il problema. Non sarebbe dovuta essere la figlia di uno dei Tre Pezzi Grossi. Vedi, Gabriel, i tre dei maggiori - Zeus, Poseidone e Ade - hanno stabilito un patto in seguito alla Seconda Guerra Mondiale: di non avere più figli.»

Ogni volta che il satiro aveva pronunciato il nome di uno degli dei si era sentito un tuono in lontananza. Mick, però, sembrò far finta di nulla, concentrato nel racconto.

«Il dio del cielo, però, generò Talia, che, una volta cresciuta, si mise in viaggio con altri semidei per raggiungere il Campo.»
Fece una pausa per voltarsi verso la fattoria.
«Come te, vennero inseguiti dai mostri. Erano tre, con un satiro. Raggiunsero a fatica questa collina, braccati come bestie dai cacciatori.»

Fece un'altra pausa, come a cercare di raccogliere le idee. Poi respirò profondamente e riprese.
«Talia si sacrificò per gli altri. Fu un gesto eroico, e i compagni riuscirono a mettersi in salvo, ma lei, purtroppo, non ebbe scampo. Per pietà, o forse per rimorso, non saprei, Zeus la trasformò in questo albero, e da allora il Campo Mezzosangue ha la sua barriera difensiva contro i mostri. Talia continua a proteggerci.»

Rimasi in silenzio ad assimilare le informazioni che avevo appena ricevuto. Pregai vivamente di non essere il figlio di uno dei Tre Pezzi Grossi. In ogni caso, il fatto che il Campo Mezzosangue fosse impenetrabile per i mostri era stata la prima vera gioia della giornata. Dopo la modalità Bruce Lee di Mick.

Fu il mio simpatico amico a interrompere quella scena di depressione che stava diventando fin troppo lunga.
«Beh, Gabriel, a questo punto raggiungiamo il Campo» disse, indicando la fattoria con una mano.
«Ehm... Mick, il Campo sarebbe una fattoria? E poi, perché non si vede nessuno in giro?»
Gli occhi scintillanti e il largo sorriso del ragazzo tornarono totalmente.
«Guarda meglio.»

Mi concentrai di nuovo sulla fattoria e sulla rete, aggrottando la fronte in cerca di qualcosa che non avevo notato.

Poi ci fu come un attimo di blocco.

Chiusi gli occhi e, quando li riaprii, al posto della fattoria e della rete si potevano distinguere una grande casa e un campo da pallavolo che riconobbi all'istante: ancora una volta, erano gli stessi del sogno.

Mi voltai con un'espressione stupita verso il satiro. Lui continuò a sorridere.
«Foschia» disse semplicemente, per poi cominciare a dirigersi verso quello che sembrava una specie di varco di ingresso.
Il varco di ingresso era effettivamente un varco di ingresso, con tanto di arco con su scritto "Campo Mezzosangue".

Entrammo e, per prima cosa, Mick mi condusse fino al portico, dove trovammo due uomini intenti a giocare una partita a carte. Li riconobbi entrambi: uno, quello che stava su una sedia a rotelle, era Chirone, di cui mi aveva parlato il mio compagno. L'altro era l'uomo del messaggio-iride.

Chirone ci salutò immediatamente.
«Benvenuto al Campo, Gabriel, e bentornato, Mick.»
Poi si rivolse direttamente a me.
«Ora sei al sicuro, ragazzo.»

Ancora oggi, non capisco bene il perché, forse fu per la strana sensazione ricevuta o per il sovraccarico di ansia e paura degli ultimi giorni, ma svenni all'improvviso.
Sentii il corpo debole e le gambe non ressero il mio peso. Prima di chiudere gli occhi, vidi la sagoma sfocata di Chirone alzarsi dalla sedia a rotelle e le braccia di Mick afferrarmi, impedendomi di collassare contro il pavimento del portico.
«Gracilino» commentò il Signor D.
Poi, il mondo si fece scuro e silenzioso come una notte senza luna né stelle.

•••

Aprendo gli occhi, incontrai un soffitto chiaro, che faticai a mettere a fuoco. Mi trovavo disteso su un morbido materasso, con il capo appoggiato su un cuscino altrettanto morbido. Dalla finestra in alto, alla mia destra, entrava una brezza leggera, che mi solleticava il viso.

Mi resi conto di essere quasi totalmente fasciato, dalla base della schiena in su. Mi sentivo pulito, segno dovevano avermi lavato.

Quando riuscii a recuperare l'olfatto, un odore pungente di disinfettate mi rivelò che dovevo trovarmi in un'infermeria.

Sentii l'inconfondibile rumore di un rubinetto aperto, con l'acqua che andava verso il basso, e girai leggermente la testa di lato, appoggiando la parte sinistra del viso sul cuscino.

Un ragazzo con un camice bianco si stava sciacquando le mani. Si voltò verso di me mentre le asciugava con un panno marrone.
«Ti sei svegliato, piccolo.» L'appellativo non era fuori luogo: doveva avere circa 17 anni. Sorrise e si avvicinò.

Nel frattempo, risuonarono passi leggeri, e una ragazzina, di un paio d'anni al massimo più grande di me, entrò nella stanza. Anche lei portava un camice bianco, da dottore.
«Ciao, Lyn» la salutò il ragazzo.
La ragazzina rispose con un cenno e si avvicinò a sua volta. Il medico mi posò una mano sulla fronte, e il camice gli si alzò, rivelando un polso bordato da un braccialetto bianco, con un bastone in cui era avvolto un serpente disegnato.

«Niente febbre» annunciò «ti sei ripreso bene. Mick aveva detto di averti dato un po' di ambrosia, ma non sembrava aver fatto effetto.»
«Dove?» cercai di dire, con voce impastata.
«Sei nell'infermeria del Campo, e hai dormito per un giorno intero» rispose Lyn, per poi allontanarsi per prendere un bicchiere pieno di un liquido che somigliava a succo di mela.
«Io sono Mark» si presentò il ragazzo.
«E lei è Lyn.»
Feci un cenno col capo, non potendo parlare. La ragazzina mi porse il bicchiere, nel quale aveva messo una cannuccia a strisce bianche e blu.

Mi sollevai dal letto un poco, e bevvi il liquido tutto d'un fiato. Era buonissimo, e sapeva di torta al cioccolato, la stessa che le suore ci facevano mangiare ogni domenica, e che io e Michael rubavamo sempre dalla cucina, per mangiarla in camera. Associavamo il settimo comandamento, "non rubare", a cose ben peggiori, per cui non ci preoccupavamo di una fetta di torta presa dalla dispensa. I ricordi esplosero in bocca, insieme alla dolcezza dello zucchero.

Le forze mi tornarono immediatamente, insieme all'uso della parola.
«Wow, buonissima!»
Entrambi i ragazzi mi sorrisero. Avevano lo stesso identico sorriso e la stessa abbronzatura da surfisti. Portavano una collana con delle perle al collo. Il ragazzo ne aveva tre, mentre la ragazzina una.
«Chirone ha detto che vuole parlarti, appena ti sarai rimesso» mi informò Mark.
Annuii. Se Chirone voleva vedermi, non era certo il caso di farlo aspettare.

«Siete mezzosangue?» domandai.
«Altrimenti non saremmo al Campo» rispose la ragazzina.
«Fratelli, immagino.»
«Figli dello stesso dio» confermò Mark.
«Asclepio?»
I due ragazzi mi guardorono stupiti.
«Il simbolo che hai sul braccialetto. È il suo bastone» mi difesi.
«Sei il primo che non lo confonde con il caduceo di Ermes» commentò sorpreso il ragazzo, fischiando piano.
Scrollai le spalle.
«Sono simboli diversi.»
«Non per molti. Comunque no, non siamo figli di Asclepio, anche se lui è nostro fratello.»
Mi illuminai, capendo chi fosse il loro genitore.
«Apollo.»
«Bingo. Anzi, centro, visto che siamo figli del dio del tiro con l'arco» rise Mark.

Mi alzai dal letto. Le gambe ressero il mio peso. Provavo poco dolore, anche se mi sentivo rigido a causa delle fasciature.
«Dove trovo Chirone?»
«È sul portico a giocare a scacchi con il Signor D» rispose Lyn. «Esci e vai a destra.»
La ringraziai e feci per andarmene. Poi, mi ricordai che mancava qualcosa.
«Il mio anello dov'è?» chiesi, aggrottando la fronte.
«Ah, ce l'ha Beckendorf, un figlio di Efesto. Chirone ha chiesto che venisse controllato dalla sua casa, visto che nessuno aveva mai visto una cosa simile.»

Annuii, anche se con riluttanza: avrei preferito avere l'anello con me.

«Grazie di tutto. Un'ultima cosa: c'era qualcosa tipo Gatorade in quella bevanda?»
Il due ridacchiarono.
«Gatorade degli dei. Quello era nettare, Gabriel.»
«Oh» commentai, alzando le sopracciglia «La bevanda degli dei. È magica?»
«Tutta la medicina è intrisa di magia.»

Stavo per varcare la porta, quando Mark mi fermò.
«Potresti essere figlio di Apollo»
«Forse» gli risposi.
Mark si indicò i capelli sorridendo. «Il colore dei capelli ce l'hai, e poi sei abbastanza carino.»

Guardai i capelli dei figli di Apollo: erano del colore dell'oro.
Risi per la battuta, poi li salutai e mi diressi di nuovo verso il portico della grande casa azzurra.

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