Capitolo XIV: Ghosts
11 Novembre.
Il brutto tempo si stava riversando - libero da ogni freno - sul terreno, l'asfalto e il metallo chiaro del furgone. Le gocce battevano pesanti sul parabrezza e - mentre questo veniva ritmicamente ripulito - i fanali del mezzo aprivano una strada tra le ombre della notte.
Era da poco scoccato un nuovo giorno, il motore lavorava ormai da almeno quattro ore e non si sarebbe spento molto presto.
Appena saputo della provenienza dei ragazzi Samuel li aveva soccorsi al meglio delle sue capacità. Nonostante la preoccupazione, non era riuscito a tacere. Li aveva sistemati nello spazio dietro al suo sedile - tra i suoi strumenti che, in quel momento, sobbalzavano ad ogni buca - continuando a chiedere loro cosa fosse successo, da dove fossero arrivati e accennando - qualche volta - alla sua famiglia.
Questi non avevano risposto.
Si erano guardati un po' complici, ma nulla era stato detto, come se avessero perduto la parola.
Tremavano e deglutivano - forse - perché volevano liberarsi del macigno che erano le loro conoscenze.
Tuttavia - anche se fosse stato così - nessuno confessò. Nessuno guardò l'uomo direttamente negli occhi. Lui non riuscì a sapere neppure i loro nomi.
Samuel si ritrovò quindi costretto ad arrendersi e ad anticipare la sua partenza.
Mise in moto in direzione di Beauvais. Là lo aspettava una spesa consistente per far passare tutti regolarmente e senza sospetti. Strinse i denti e le mani attorno al volante pensando alla folla che avrebbero incontrato all'aeroporto e a quanto scossi sarebbero stati i giovani.
Sarebbe stato difficile abituarsi a un luogo tanto vasto.
Sapeva che non avessero documenti.
Lui stesso si era trovato in quella situazione: solo, in un mondo sconosciuto e complicato.
Da subito aveva imparato una lezione importante: una delle poche cose che accomunavano la realtà a Fidnemid erano gli errori. Bastava un piccolo sbaglio per mettere a repentaglio la propria immagine.
Dopodiché era come essere stretto da delle catene fatte di burocrazia e ingiustizia alimentata dai pregiudizi.
Il mezzo si lasciò alle spalle le luci di un'altra città. Era questione di resistere. Samuel non poteva cedere al sonno.
Premette sull'acceleratore sfiorando i limiti di velocità e scivolando sullo strato d'acqua presente in curva.
Era tutto un cigolare di metallo e uno stridere di pneumatici. Le poche auto che incontrava le vedeva scemare rapidamente, come se stessero immobili, parcheggiate ai margini della carreggiata.
Prima portava i ragazzi al sicuro, prima avrebbe ottenuto le informazioni per raggiungere Fidnemid.
Lui non sapeva che al posto della tanto ricercata casa avrebbe trovato un deserto di fuoco e distruzione.
Non poteva lontanamente immaginarlo.
Azionò la freccia per uscire dall'autostrada e guardò il gruppo di sconosciuti attraverso gli specchi.
Fu una rapida occhiata, utile a capire se questi dormissero o meno.
In seguito sospirò mentre la testa gli dondolava lievemente, seguendo i difetti della sua guida. Le ragazze parevano crollate in un abbraccio - dormivano - ma non abbastanza rilassate.
Tuttavia l'unico che lo preoccupava se ne stava vigile, seduto davanti alle assopite. Pareva una guardia dallo sguardo severo che lo trapassava con una certa insistenza. In quel momento ricordò la ferocia con lui era stato assalito.
— Non ti fidi di me, vero?
Chiese l'uomo, sussurrando. Le sue labbra si piegavano in un sorriso storto.
Come poteva biasimarlo?
Strinse nuovamente il volante tra le sue mani osservando rapido il cellulare gettato sul sedile di fianco.
Doveva fare più di una chiamata importante.
— Ti capisco, anch'io ho provato la stessa cosa. — continuò cauto, allungando una mano e prendendo l'apparecchio elettronico. — Sei fortunato a non essere solo. Tranquillo vi porterò in un posto sicuro e solo dopo che sarete a vostro agio, faremo una lunga chiacchierata.
Sorrise di nuovo, sforzandosi di apparire naturale. Successivamente si apprestò a digitare un vecchio numero. Aveva bisogno di un aggancio, lo stesso che lo aveva aiutato anni orsono.
Il telefono squillò una decina di volte poi la segreteria colmò il silenzio.
Era normale che nessuno gli rispondesse, quella era un'ora da disperati.
Samuel serrò i denti superando un camion dei trasporti e scegliendo la corsia di preselezione. I cartelli stradali rifletterono la luce del mezzo in corsa: mancavano cinquanta chilometri a Beauvais.
— Posso chiederti quanti anni avete?
Allungò un poco il collo volendo parlare direttamente con il ragazzo.
Lo infastidita non poterlo vedere.
— Noi diciassette, — sentì pronunciare poco dopo. — la bambina invece tredici.
Samuel tornò a fissare lo specchio retrovisore centrale. I suoi occhi vi si rifletterono perfettamente mentre controllava le sagome tra gli strumenti di localizzazione. Compì quell'azione una quarta volta, poi gli fu impossibile non soffermarsi a pensare.
Poteva sembrare molto tranquillo, rassicurare quelli come Alexander che lo erano ancor meno di lui, ma era pur sempre di fronte ad un fantasma.
Il suo stesso spettro.
Riconosceva la speranza negli occhi, simile a quella di quando - con tenacia e stupidità - era scappato. Il peso di quanto promesso quarant'anni prima gli spezzò il respiro.
— Come avete fatto a superare il confine?
Domandò, certo che a Fidnemid lo credessero morto. Un esempio del pericolo che rappresentava la foresta.
— Non credo di essere quello più adatto per spiegarlo.
— Daccordo, comunque sai che dovrete raccontarmi molte cose. — perseverò il suo tentativo di gioire della situazione. — Vi darò tutto il tempo di cui necessitate, non importa che mi diciate le cose adesso, potrete parlami anche quando saremo arrivati a Cork.
— Perché dobbiamo andare in Irlanda?
Samuel inchiodò. Le ruote stridettero sull'asfalto ruvido e molti oggetti caddero dalle loro postazioni. Questi rotolarono e colpirono le ragazze, le quali si risvegliarono immediatamente, sussultando.
— Come conosci il nome di quel posto? — Samuel non tardò a interrogare il giovane. — Sì, insomma... — era stato troppo impetuoso. — A Fidnemid esiste lo studio e il culto della sua stessa storia. Tutto è ridotto a poche decine di chilometri. È forse cambiata?
— No, per quello non era cambiata molto...
Alex rimase impassibile, con una durezza inconsueta sul volto.
Era difficile per lui ragionare lucidamente mentre attraversava i luoghi delle sue debolezze, con ancora i resti della lotta per la sopravvivenza che gli inumidivano gli abiti. La civiltà e la tecnologia avevano mutato il paesaggio, ma non avrebbero mai potuto radere al suolo le sue memorie. Per un breve secondo non gli interessò nient'altro che fuggire nuovamente. Non importava dove, bastava fosse ben distante da quelle piane coltivate e quei pochi alberi che racchiudevano secoli di segreti e passioni nei loro tronchi. Dopodiché si ravvide e inspirò profondamente, poggiando il capo su delle giacche appese all'intelaiatura del veicolo.
Improvvisamente si udì un brusco tremolio, infine il motore ripartì.
Nel mentre il furgone impegnava un incrocio il silenzio cadde nell'abitacolo e la confusione calò sui volti delle ragazze. Persino la pioggia scendeva con meno irruenza.
— Siamo quasi arrivati.
Annunciò Samuel assottigliando infastidito la bocca. Doveva conoscere gli sviluppi; doveva soddisfare i perché che la sua mente produceva, altrimenti sentiva che sarebbe impazzito. Stettero tutti quanti zitti per un'altra mezz'ora. Nulla che fosse più di un colpo di tosse o il fruscio degli abiti si mosse.
Era tutto immobile.
In cielo il sorgere del sole era lontano, così come le nubi nere che brontolavano sommessamente, troppo distanti per bagnare con il proprio pianto.
Un'ultima svolta a sinistra e il furgone parcheggiò precipitosamente, tanto che i freni fischiarono e i passeggeri vennero catapultati in avanti. L'imbarazzo scese come una coltre oppressiva, macchiando la condensa dei respiri. Le chiavi tintinnarono in mano a Samuel. Dopodiché questo aprì la portiera, uscendo sotto alla sottile rugiada che l'etere mandava. Fece il giro dell'intero mezzo, prendendo egli stesso un po' di tempo. Successivamente spalancò gli sportelli in fondo al veicolo.
— Scendete, vi porto in camera. — si affrettò a dichiarare. — Là potrete darvi una pulita, avete l'intera giornata per riposarvi. Se tutto va bene domani ripartiamo.
Afferrò una piccola valigia, una di quelle fatte per gli uffici, niente che si intonasse con il suo aspetto trasandato. In seguito guardò contrariato le impronte di fango. Avrebbe dovuto pagare un supplemento per quel disastro. Tuttavia sperava che ne sarebbe valsa la pena.
— Coraggio, fate attenzione che si scivola.
Li incitò nuovamente, aiutando Nathalie e Cassandra a reggersi in piedi. Loro - più degli altri - mostravano di non avere sufficiente forza. I loro fisici era fragili come foglie al vento.
Una volta che il gruppo si fu riunito all'aperto, Samuel sbatté gli sportelli per sigillarli e chiuse definitivamente il furgone. Come degli automi si mossero assieme verso delle scalinate, rigorosamente in cemento. Il resto che si mostrò loro davanti fu un'enorme struttura cubica, dai colori freddi e simili ad un carcere. Una gigantesca cella poco curata dall'insegna "Bed & Breakfast".
— Devo farvi delle foto, segnare il vostro nome e cognome. — iniziò a elencare nel mentre si avvicinava ad una porta numerata. Due targhette - un otto e un uno - erano pendenti e storte. — Vi servono per i documenti, sapete all'incirca quanto siete alti? — cercò di nuovo in tasca, constatando quanto gli altri fossero confusi. — Non le faccio io le regole, ma questo mondo.
I documenti vi servono per passare inosservati, come se foste dei comuni cittadini français.
La sua lingua scivolò elegante verso un altro idioma e - al contempo - roteò gli occhi. Dopo poco passò una tessera nella serratura della porta e - non appena ebbe digitato un codice - questa scattò, aprendosi.
— Prego.
Samuel fece entrare rapidamente tutti i ragazzi, controllando che nessun altro li stesse osservando. Era meglio prevenire i pregiudizi della gente.
Infine si chiuse anch'egli al riparo.
La stanza era minuscola, munita di un un solo letto affiancato da un comodino e una scrivania con sopra un piccolo televisore. Dall'altro lato della camera invece - grazie ad una porta scheggiata - si accedeva al bagno.
La moquette puzzava ed era macchiata ovunque, le erano pareti umide e la luce insufficiente.
— Non è il massimo, — si apprestò a commentare Samuel, un po' per rompere il mutismo degli altri. — ma non mi pagano abbastanza per le mie ricerche. — aprì la sua ventiquattrore di cuoio nero e ne estrasse un computer, carico e già acceso. — Se non vi avessi trovato probabilmente avrei campato solo altri tre mesi! — i ragazzi lo videro digitare qualcosa nel mentre insisteva con il suo monologo. — Ah! Quei disgraziati del College, non hanno voluto credermi. Secondo loro starei vaneggiando dopo anni passati fra scritti privi di fondamenta.
Il bello sapete qual è? È che quei manoscritti li tengono ben sotto chiave, che ipocriti!
Cassandra si lasciò andare sul letto cigolante. Socchiuse gli occhi avvertendo la schiena rilassarsi grazie al materasso morbido. Non le interessava l'odore emanato dal pavimento né ciò che stava dicendo Samuel.
Nathalie lo ignorò in una maniera simile. Corse in bagno a lavarsi il viso. Non ne poteva più di ascoltare quell'uomo apparentemente odioso.
Lo sentì battere le dita sulla tastiera del computer svariate volte prima di fermarsi e rivolgersi direttamente a loro.
— Come vi chiamate?
La ragazza si affacciò alla porta, premendo i palmi sullo stipite.
Alex, Nat e Cassandra risposero uno dopo l'altro, dopodiché Samuel posò l'attenzione su Abegail, l'unica che ancora esitava a parlargli.
— Tu?
Improvvisamente Alexander schioccò la lingua scattando verso l'ingresso.
Osservò oltre le tende - accuratamente sistemate per celare l'affollamento nella camera - ripose la sua spada e con un cenno del capo divise il gruppo.
— Nathalie, Cassandra, usciamo un attimo...
La porta si chiuse lentamente e Samuel non comprese perché fossero usciti. Aggrottò le sopracciglia battendo le mani sulle cosce e si voltò completamente verso Abby.
Lei stava rigida - quasi fosse terrorizzata - con le dita che stringevano gli spallacci del suo zaino.
— Almeno tu mi vuoi dire cosa sta succedendo?
A quel punto la ragazza cedette. Sospirò, optando per mostrare la prova di quanto non riusciva a spiegare.
Fece per aprire la zip dello borsa, ma questa era infangata e rotta: difficile da aprire con l'insistente tremolio delle sue mani.
— Aspetta, — vedendola in difficoltà Samuel le si avvicinò. — ti aiuto io. Ragazza mia, devi parlare altrimenti come posso aiutarti? — non ottenne niente di quanto sperato. Le sue spalle si curvarono rassegnate. — Vi sembrerà tutto molto assurdo, ma siete stati fortunati. Sono l'unico che può comprendere il vostro disagio.
Un ultimo strattone e riuscirono ad aprire lo zaino. Un fioco scintillio attrasse poi l'uomo portando i suoi occhi tra i capelli della giovane che le scendevano sul collo. Lì si sentì crollare. Vide la collana che questa indossava e stava per pronunciare qualche sillaba sconnessa, quando Abegail lo interruppe.
Aveva trovato ciò che le serviva.
— Mi hai chiesto come mi chiamassi, — enunciò porgendo all'uomo una foto. — il mio nome è Abegail Knight e credo che tu sia mio zio. — dopodiché indicò il fratello di suo padre ritratto nella fotografia. Aveva fatto bene a conservarla. — Questo sei tu?
— Buon cielo!
Samuel rimase impietrito.
Spalancò la bocca lasciando che le gambe lo abbandonassero sul bordo del letto. Subito dopo si tormentò la barba, fissando esterrefatto prima Abby, poi nuovamente il pezzo di carta ingiallito.
— Tua nonna e tuo padre, come...
Voleva sapere come stessero, come i quarant'anni che li avevano separati li avessero cambiati.
Tuttavia fu un disastro. Balbettò esanime scordandosi ogni altra priorità.
Di fronte a sé aveva sua nipote, un'altra Knight dagli occhi maledetti.
Non passò molto tempo perché Abegail rincarasse la dose di informazioni.
L'uomo voleva sapere e lei lo accontentò. D'altronde era suo diritto compiangere la famiglia.
— Samuel, loro sono morti anni fa. — la gola le si inarridì talmente tanto da darle fastidio. — Fino a ieri ho vissuto con la famiglia di Cristal, te la ricordi?
Cassandra è una delle sue figlie.
— Non ho dimenticato nessuno di loro.
Rispose l'altro, captando qualcosa nella voce della giovane che non gli piaceva affatto.
Solo successivamente comprese l'intero scenario e il cuore gli cadde sotto terra.
— Fidnemid non esiste più. — Abby fu ancora diretta. Non le andava di descrivere, non adesso che il fatto era così vicino, tanto che sentiva ancora l'odore della carne bruciata penetrarle fin dentro le ossa. — È stata distrutta, non puoi tornare a casa. Nessuno di noi può. — il suo respiro nascose malamente il pianto. — Quel posto non era altro che una maledizione!
Quella notizia aveva reso Samuel stesso una vittima del massacro.
Si accorse di aver sprecato anni a inseguire un'utopia, ritrovandosi simile ad uno spirito smarrito. Uno dei tanti fantasmi di Fidnemid. I suoi occhi e la sua mente non erano un dono come sua madre gli ripeteva in sogno, bensì una maledizione che si era appropriata della sua vita.
Maledetta Aida!
Angolo autrice:
Scusate di nuovo il mega ritardo...
Chi è un maturando capirà che fino a Luglio sarà una tirata estrema...
Io proverò a scrivere a tenermi aggiornata sulle vostre storie, ma devo anche finire quest'anno al meglio.
Detto questo, che ne pesate?
È un capitolo un po' di passaggio...
Dal prossimo dovremo tornare nel pieno della narrazione.
Aspettatemi eh, ahahah.
Intanto vi lascio il titolo alquanto insolito: "Capitolo XV: Teaghlaigh".
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