9. Rabbia e rancori



La rabbia e il rancore ti possono sbarrare la strada... Bruciano l'aria che respiri, la vita, ti divorano, ti soffocano ma la rabbia è reale. E persino quando non lo è ti può cambiare. Ti modella, ti trasforma in quello che non sei. L'unico aspetto positivo è la persona che diventerai dopo. Se tutto va bene, un giorno ci si sveglia... e si scopre di non avere paura di affrontare il viaggio. La verità è, nella migliore delle ipotesi, una storia raccontata a metà. E la rabbia, come la crescita arriva a scatti e a strappi... e al risveglio offre un nuovo giorno alla comprensione... e una promessa di quiete.

-citazione.

***

Erano ormai dieci giorni che dormivo a casa da sola anche se da quando avevo trovato mia madre in un mare di sangue, Nathan non mi aveva lasciata nemmeno per un secondo. Quando non lavorava restava tutto il tempo con me e andava via la sera molto tardi. Aspettava che mi addormentassi, mentre insieme guardavamo la TV e chiacchieravamo. Molly si sdraiava tra noi. Anche lei sentiva la mancanza della sua padrona, tanto che pareva stare lì in attesa del suo ritorno.

Le videocamere erano state installate nel palazzo. C'era da dire che comunque non assicuravano l'incolumità dei condomini che ormai vivevano letteralmente come se non ci fosse un domani. Per una volta, però, avevo visto la solidarietà all'opera. Questo mostrava come mia madre fosse amata. Infatti tutti, tranne Regina e suo nipote Sal, suo degno erede, avevano partecipato a sistemare la camera da letto: sostituire il materasso intriso di sangue, come pure lenzuola e piumone, tutto a loro spese perché conoscevano bene la condizione in cui versavamo. Inoltre avevano dato, chi più e chi meno, una parte di soldi per aiutarmi a fronteggiare quei giorni difficili.

Sapevo che presto avrei dovuto fare qualcosa di più concreto. Dovevo cercare un posto, un lavoro che potesse assicurarmi un'entrata. Ormai non potevo più contare su mia madre.

C'era un'altra cosa che avrei dovuto necessariamente fare, e mi pesava. Chiamare... mio padre. Lui non sapeva ancora cos'era successo alla mamma. Dovevo farmi coraggio e dirglielo. Non volevo il suo aiuto. E non volevo di certo sentirlo e rivederlo ma doveva sapere, doveva conoscere quello che era accaduto.
Desideravo che ne fosse al corrente, forse anche per suscitare una reazione in lui, un senso di colpa. Era come se volessi dirgli: "Dov'eri tu in quel momento? Dov'eri mentre la tua famiglia e tua moglie, avevano bisogno di te?! Perché non l'hai protetta come avresti dovuto fare?!" Il mio era un modo per colpirlo, per fargli del male, e sarebbe stato facile pronunciare alcune semplici parole per innescare una profonda angoscia in quell'uomo.

Ma poi sarebbe stato davvero così? Molto probabilmente la cosa non l'avrebbe scosso più di tanto... Volevo comunque provarci. Speravo solo che il suo numero fosse sempre lo stesso perché erano ormai anni che non lo sentivo.

Avevo già il telefono in mano mentre tentavo di trovare le parole giuste, quando, puntualmente, mi ritrovai Nathan alla porta.

-Che fai? -notò la tensione dipinta sulla mia faccia che ormai era, a tutti gli effetti, quella di un cadavere.

-Chiamo mio... -mi fermai restando senza parole. Quell'uomo non era mio padre. Era una persona. Forse. Quella persona che biologicamente mi aveva dato la vita, niente di più. -Chiamo un mio parente... penso che debba sapere quello che è successo alla mamma.

-Tuo padre? -capì immediatamente lui.

-Sì.

-Vuoi che lo faccia io?

-Faresti questa cosa per me? -chiesi sorpresa. Ormai non avrei più dovuto esserlo con Nathan, visto che da dieci giorni era incollato a me e quasi non mi lasciava respiro. Sapevo che lo faceva perché gli dispiaceva ma iniziavo a preferirlo com'era prima. Un po' più freddo, distaccato...

-Faresti questo per me? -ripetei dopo averlo visto annuire. Lui mi venne vicino e mi prese le mani. Il suo tocco era leggero. Sentii però forte energia trasfondere da quella stretta.

-Io farei qualunque cosa per te... -sussurrò con voce ferma.

Gli tolsi le mani e mi allontanai dandogli le spalle. Ancora una volta i miei occhi si riempirono di lacrime.

-Scusami. È una cosa che devo fare io. -gli riferii. La voce risultò tremante, instabile. Odiavo mostrarmi debole. Non volevo che mi vedesse in faccia eppure tornò di fronte a me.

-Karin... dimmelo se sono seccante. Se vuoi vado via immediatamente. -fu comprensivo.

-È una situazione difficile. -riuscii a bisbigliare. -Mia madre è in un letto di ospedale e ancora oggi non si sa se ce la farà. Ed io sono qui che penso a come fargliela pagare a quell'essere che dovrebbe rappresentare mio padre.

-Non so quanto possano contare le mie parole. Anche perché non so cosa sia accaduto tra di voi... -disse lui facendomi sedere. Si mise poi dietro di me massaggiandomi lievemente le spalle e il collo che erano tesi e dolenti. -...Ma credimi: la tua reazione è più che normale. Provi rancore... E tua madre... è ovvio che non riesca nemmeno a vederla. Hai paura... ma non puoi continuare a reprimere le tue emozioni... la tua rabbia.

Si abbassò fino a che la sua guancia fu vicino alla mia. Con le braccia mi circondò stringendomi così forte che mi sembrava un'altra persona. Il ragazzo freddo, senza sentimenti, lontano e irraggiungibile, in quel breve istante sparì e mi travolse al punto che le mie soffocanti emozioni non mi permisero più di respirare.

Lì non riuscii più a trattenermi. Scoppiai in un pianto incessante. I singhiozzi mi facevano sobbalzare, mentre Nathan tenendomi stretta continuava a sussurrarmi che così andava bene, che dovevo tirare tutto fuori e lasciar andare via i sensi di colpa, il risentimento e la rabbia repressa. Non pensai più a nulla... solo a piangere e versar lacrime. E quando mi resi conto che il groppo in gola si era sciolto, notai che Nathan era ancora dietro di me, che mi circondava con il suo abbraccio possente e mi asciugava il viso che ormai doveva essere rosso per lo sforzo.

Pian piano mi calmai. I singhiozzi diventarono sempre più leggeri e ripresi a respirare in modo tranquillo. Quando lui sciolse l'abbraccio, solo in quel momento, mi resi conto di quanto fosse stato stretto. Mi sembrava di volare. La sensazione era assurda.

Mi coprii il volto e per un attimo lo lasciai solo per andare a rinfrescarmi. Il desiderio di vedere mia madre fu irrefrenabile e tornando da Nathan gli dissi che volevo andare in ospedale. Il corpo contundente che l'aveva trafitta per nove volte, aveva compromesso alcuni dei suoi organi e danneggiato gravemente un polmone eppure lei continuava a lottare. Sola, senza avere vicino nemmeno la sua unica figlia. Nathan era andato ogni giorno a trovarla e aveva ascoltato e riportato a me le parole dei dottori che l'assistevano.

-Possiamo entrare a mezzogiorno... preparati ok? Io scendo a prendere qualcosa al negozio, così al ritorno pranziamo.

Quando finii di vestirmi, scesi da Nathan. La porta era socchiusa leggermente e così provai a chiamarlo. Non ero mai entrata in casa sua, e mi chiedevo come potesse essere l'appartamento di un ragazzo che viveva da solo.

-Nathan...! -ripetei bussando e aspettando che rispondesse. Spinsi un po' la porta per sbirciare dentro e lui apparve all'improvviso. Indietreggiai quando velocemente scivolò fuori infilandosi nello spazio ristretto che aveva dischiuso. Mi parve come se volesse nascondere qualcosa che c'era dentro. Il viso imbarazzato rivelò che forse avevo visto bene. Mi sorrise appena e si apprestò a chiudere a chiave.

-Andiamo?

-Sì...

In macchina telefonai all'uomo che aveva rovinato la mia vita e poi ci aveva abbandonato.

-Sono Karin. -dissi pacatamente anche se ribollivo dall'interno. -La mamma è in ospedale e non si sa se ce la farà... qualcuno è entrato in casa e ha tentato di ucciderla.

Fui troppo diretta e senza un minimo di tatto mentre pronunciavo quelle parole in modo distaccato. Sembrava che non stessi parlando della mamma, della mia mamma! Dall'altro lato il silenzio. Attesi ancora per un po', poi mentre prendevo fiato per aggredirlo verbalmente, sentì che sbottò in un pianto silenzioso.

Lo ascoltai per capire se avessi sentito bene. In effetti stava singhiozzando.

-Cosa è accaduto...? Perché...?! -continuò lui dall'altro lato. Nathan rivolse lo sguardo verso di me accigliato. Sicuramente si chiedeva che stesse succedendo e tentava di capire cosa dicesse mio padre.

In un attimo la mia mente si ritrovò a fare strani pensieri. Chiusi la chiamata dicendogli in quale ospedale fosse ricoverata mia madre. Doveva decidere lui se affrontare un viaggio di cinquecento chilometri per venire a trovarla oppure far finta di niente come aveva sempre fatto.

Nathan continuò ad alternare il suo sguardo alla strada e a me. Attendeva ansioso di sapere.

-E se fosse stato lui? -chiesi come se avesse seguito il ragionamento mentale che mi ero appena fatta. Mi spiegai meglio. -Se fosse lui l'assassino?

-Tuo padre?

-Odiava il palazzo Palme. Voleva andare via da quel posto ma la mamma no. Ed era uno dei motivi per cui spesso litigavano.

-Sì ma da qui ad ammazzarne gli inquilini, ne passa, non credi? Avrebbe fatto anche del male a tua madre... e a te?

-A me ne ha già fatto... anche abbastanza.

-Sì Karin... ma qui si parla di uccidere...

-E tu cosa vuoi saperne?! -urlai infuriata. -Fammi scendere!

-Karin...

-Ho detto fammi scendere! Ferma questa macchina!

Sbattei lo sportello e corsi come una matta verso l'ospedale, mentre tentavo di trattenere per l'ennesima volta l'esplosione che avrebbe altrimenti travolto tutto.

Entrata in reparto chiesi dove fosse Grace Frisan. Mi indicarono la camera di terapia intensiva. Respirai profondamente e mi diressi verso quel posto che mi spaventava non poco. Mi affacciai e in piedi, vicino ad una vetrata che non si poteva oltrepassare, c'era Nathan. Mi sfiorò appena con lo sguardo e subito andò via. Restai sola, immobile, a guardare quella donna che mi aveva dato la vita, non una, ma ben due volte. La mia mamma era lì, che combatteva per non lasciarmi. Per non lasciare me... ed io l'avevo abbandonata.

-Ora non ti lascerò più mamma... -dissi come se potesse essere raggiunta da quel messaggio. Rimasi per tutta la mezz'ora in cui era concesso di stare lì, a fissarla. A seguire il movimento del respiratore a cui era attaccata a guardare quelle sacche che drenavano i liquidi interni. A sperare che quegli occhi serrati si aprissero... Mi fecero uscire ed ero quasi certa che non avrei trovato Nathan fuori ad aspettarmi. Era nel parcheggio invece. Appoggiato alla sua macchina, con le mani in tasca e con il mento e la bocca sprofondati nel collo del giubbotto. Mi aprì lo sportello e fui sollevata da quel gesto.

Gli dovevo delle scuse però e forse, ancora meglio, una spiegazione.

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