22

Sto per morire. A quanto pare sono in coma e ci sono poche speranze che io mi svegli. Sono già più morta che viva. Ma allora perché sono così tranquilla?

Ogni tanto, mentre parlo con Leo mi sembra di sentire ancora qualcosa che proviene dal mondo dei vivi. La voce di Viola, la voce di Becca, la voce di Ilari, altre voci (Nina, Dado, Diana) e purtroppo non manca la voce di Sergio. Ogni tanto mi sembra di sentire qualcuno che mi tocca la mano, che mi sfiora il volto. Quanto tempo è passato?

Qui, nel reame della follia – lo chiamo così perché chiamarlo mondo dei morti mi fa troppa paura – stiamo per affrontare Dentigialli con un piano che prevede qualcosa che non ho nemmeno del tutto capito. Eppure sono tranquilla. Perché? Sono rassegnata? È rassegnazione la mia?

Leo è convinto che io sia speciale e che abbia una sorta di superpotere. Io non mi sono mai sentita speciale, anzi, per tutta la mia vita adulta mi sono sentita quasi sempre fuori posto, spesso a mala pena adeguata. Mi sono sentita rifiutata, sopraffatta, spesso impreparata, ma speciale proprio no. Che cos'avrebbe la mia mente di tanto speciale? A scuola non avevo voti eccezionali nonostante abbia sempre studiato; facevo fatica in matematica, non spiccavo nelle discipline umanistiche e neanche in campo artistico. Mai eccelso nemmeno nelle discipline sportive.

Secondo Leo, la mia mente è capace di creare crepe nel manicomio di Dentigialli. Che cazzo significa creare crepe? Sarebbe un superpotere? Leo me lo ha spiegato, come sia riuscita ad aiutarlo nella sua prima fuga e anche nella seconda, ma io non ci ho capito niente. Non ho capito bene nemmeno tutta la cosa di come Dentigialli abbia creato un luogo immaginario che fa da prigione per quelli come Leo. L'unica cosa di cui sono certa è che dobbiamo fare qualcosa, almeno provarci, o siamo fottuti. Se Dentigialli riesce a prendermi non potrò più scappare e la stessa fine toccherà anche a Leo.

Perché allora sono così tranquilla mentre stringo la mano a Leo? Perché accetto tutto quello che mi ha detto senza dubitare? E perché accetto il suo piano? Il suo piano fa schifo e lo so che non ne ha un altro.

La risposta è così semplice che non mi stupisce quando la trovo negli occhi di Leo. Siamo arrivati, non so come, nel suo appartamento –nonostante sia stata io a portarci qui, a quanto dice Leo – e ora torneremo nel manicomio da cui siamo fuggiti. Prima di farlo ho preso la mano a Leo senza pensarci e lui ora mi guarda e mi sorride mentre prova a mentirmi per farmi stare tranquilla. Nei suoi occhi c'è la promessa che farà tutto il possibile e anche l'impossibile per proteggermi. Leo è tornato per salvarmi e continuerà a farlo, ma soprattutto, Leo crede in me più di quanto ci creda io stessa. Per questo sono così tranquilla.

Fanculo, facciamolo!

Improvviso il vento freddo ci investe con un fruscio di foglie e si allontana alle nostre spalle, lungo una strada senza fine. Siamo di nuovo davanti al cancello. È ancora aperto. L'essere riuscita a portarci in questo incubo dovrebbe farmi sentire bene?

«Sei pronta?» mi domanda Leo, stringendomi la mano più forte.

«Posso dire di no?» replico nervosa. Leo sei davvero sicuro che funzionerà?

«Puoi dire tutto quello che vuoi, ma dobbiamo entrare» dice Leo e si muove tirando anche me. «E comunque sì, funzionerà.» Non è del tutto sicuro, ma ci vuole credere.

«Perché siamo vestiti così, adesso?» domando guardando lui che indossa il pigiama da paziente, anche se senza camicia di forza, mentre io ho di nuovo le chiappe al vento nel mio camice.

«Siamo di nuovo nel suo manicomio e lui ci immagina così in questo luogo.»

«Non mi piace» non mi piace essere mezza nuda e non mi piace che Dentigialli abbia questo potere.

«Non piace nemmeno a me» dice Leo.

Oltre gli alberi il manicomio si staglia sinistro contro un cielo color del latte. La porta d'ingresso è aperta. Lui ci sta aspettando?

«Non credo se lo aspetti» risponde Leo al mio pensiero. Solo ora mi rendo conto che ha risposto anche prima sia a quello che ho detto che a quello che ho pensato.

Buongiorno! Sogghigna il pensiero di Leo.

«Ehi!» protesto piccata. Fanculo!

Lo vedo sorridere e nonostante le circostanze e il luogo, viene da ridere anche a me. Mi fa bene allo spirito. Ce la faremo, mi dico. Ci vogliamo credere entrambi.

«Adesso viene la parte più difficile» dobbiamo entrare e attirare Dentigialli dentro il poster del mio luna park.

«Sicuro che funzionerà?» non sono troppo convinta di riuscire a fare quello che mi hai chiesto. E se ci prende?

Non abbiamo scelta. «Deve funzionare. Dobbiamo riuscirci.» È lì che dovremo portarlo se vogliamo che il piano funzioni.

L'ingresso oltre la porta è deserto. Lo varchiamo guardandoci attorno. Il cuore mi batte così forte che mi sembra che possano sentirlo anche dal piano di sopra. Noto che qualcuno ha rimesso a posto il telefono e che ci sono delle sedie sulla parete opposta rispetto al bancone, come una specie di saletta di attesa. Non le avevo notate quando sono stata qui. C'erano anche l'ultima volta?

«Non è detto. Questo posto cambia continuamente» dice Leo, o forse lo pensa. Lo guardo, la sua bocca è chiusa, ma sento ancora la sua voce. Per lo più cambiano piccole cose, dettagli nell'arredo o nell'edificio, ma ci sono ognidì in cui porte scompaiono e corridoi diventano più lunghi.

Si volta a guardarmi – come se comunicare col pensiero fosse la cosa più normale del mondo – e mi fa cenno di seguirlo. Vuole raggiungere la porta sul fondo, quella oltre la quale c'è l'accesso al giuperlescale e ai piani superiori. L'ultima volta quella porta non era a vetri, me lo ricordo bene.

Un tremendo schianto mi strappa quasi un urlo. Mi ci vuole un lunghissimo secondo per capire cosa è successo e quando lo scopro mi sento persa. Siamo fregati. Alle nostre spalle le due ante del portone d'ingresso si sono chiuse violentemente. Dentigialli sa che siamo qui.

La porta a vetri sul fondo della sala si apre e irrompono Silenzio e Proceda, seguiti da Golfino che porta due camicie di forza. Guardo verso Leo e scopro dalla sua faccia che il nostro bel piano del cavolo sta già andando a rotoli. Non si aspettava di essere scoperto così in fretta. DAVVERO!? Gli urlo nella testa, più incazzata che atterrita. Il terrore arriva il secondo successivo, quando realizzo che stanno per prenderci e che niente potrà salvarci. Faccio un passo indietro afferrando la mano di Leo per tirarlo con me, il più lontano possibile dagli aiutanti di Dentigialli. I miei piedi urtano contro le sedie della saletta d'attesa. Mi volto per realizzare che non c'è altro che la parete alle nostre spalle e l'occhio mi cade su un basso tavolino tra le sedie e sulle riviste sparse su di esso. Non le degnerei d'attenzione in un momento simile se non fossi attratta da un particolare. Le copertine sono tutte sbiadite, come fossero lì da cent'anni, ma non è questo che ha destato la mia attenzione. Su una di esse c'è la foto – no, forse è una specie di disegno – di un bagno che conosco. Che ci fa il bagno di casa mia sulla copertina di una rivista?

Un getto rovente mi investe e stavolta urlo. Leo mi finisce addosso, io sbatto contro il muro, lui urla e si dibatte. Sono piastrelle quelle contro la mia schiena ed è acqua calda quella che ci cade addosso. Siamo nella doccia del mio appartamento.

«Cazzo!» impreca Leo, arrivando alla mia stessa scoperta e subito dopo si sposta da me. Siamo nudi, così come lo eravamo l'ultima volta che siamo stati qui dentro assieme. Solo che l'ultima volta lui era dentro di me.

«Come siamo finiti qui?» domanda Leo dandomi le spalle e cercando di non guardare nello specchio quello che ha già visto più volte.

«C'era una rivista sul tavolino e sulla copertina ho riconosciuto il mio bagno» dico io.

«Subito dopo siamo finiti qui.»

«Siamo nel ricordo del bagno dell'appartamento di Nina» annuisce Leo, come se la cosa avesse un qualche senso.

Non sento più i suoi pensieri, ma non ci vuole molto a capire che, situazione assurda a parte, è imbarazzato. Forse un po' si vergogna perché anche lui sta ripensando alle nostre docce assieme. Io al contrario, non provo nessun pudore a guardarlo nudo. Per essere un quarantenne ha un bel fisico, me ne era già resa conto. Ora noto le spalle larghe, i muscoli delle braccia, le linee eleganti della schiena e il bel sedere. Complimenti signor Landi, mi viene da pensare e un sorriso mi increspa le labbra.

«Trovi la cosa buffa?» domanda lui sulla difensiva, fraintendendo il mio sorriso. Cosa che mi ricorda che, no, non è buffa affatto, e che il suo schifoso piano sta già andando a rotoli.

Chiudo l'acqua e lo prendo per un braccio, per farlo voltare verso di me. Voglio vederlo bene in faccia mentre ammette che siamo fregati e che il piano non può funzionare.

«Si può sapere cosa avevi pensato quando hai ideato il tuo piano del cavolo?»

«Non pensavo che ci avrebbe trovati subito. Non ci era riuscito la volta scorsa quando siamo arrivati dal corridoio dell'ospedale.»

Leo mi oppone resistenza fino a quando non si rende conto che è stupido vergognarsi. È stupido almeno quanto il fatto che io gli rinfacci il suo piano assurdo. Non ho in mente niente di meglio e a questo punto non ci sono alternative. Perdo ogni voglia di discutere e sento la paura che monta.

Leo si volta a guardarmi e deve intuire quello che mi agita. «Ci hai salvati, no?» dice con un tono che dovrebbe rassicurarmi. «Ci hai portati via e non è riuscito a prenderci.»

Ora sono io che sfuggo al suo sguardo. Ho paura, una gran voglia di piangere e non voglio che veda che sto perdendo le speranze.

«Genni, dobbiamo provare ancora.»

«E funzionerà?» non è una domanda, solo la mia disperazione che parla, ma Leo mi risponde comunque.

«Non lo so, ma dobbiamo arrivare a Dentigialli.»

Mi sfugge un singhiozzo. Arrivare a Dentigialli doveva essere la parte più facile del piano e adesso non siamo più nemmeno sicuri di riuscirci.

Alzo la testa e ci guardo riflessi nello specchio.

«Pensi di riuscire a portarci direttamente nell'ufficio di Dentigialli?» mi sta domandando Leo, ma io gli indico lo specchio.

Non siamo più nello stesso bagno.

Non siamo più in una doccia, ma in una vecchia vasca scrostata, lo specchio è più piccolo, butterato di macchie nere e il rivestimento alle pareti è a fiori marroni.

«Dove siamo?» domanda Leo.

Scuoto la testa «Non lo so.»

Leo esce dalla vasca, prende due asciugamani appesi, uno lo porge a me, l'altro se lo passa attorno alla vita. Sono piuttosto striminziti, il mio ha un odore sgradevole, tanto che esito a usarlo. La poca luce nella stanza, viene da una piccola finestra, le nostre figure nello specchio sembrano stranamente distorte. Leo si muove verso la porta, impreca e fa un salto indietro quando due grossi scarafaggi attraversano il pavimento, io soffoco uno strillo e poi inizio a imprecare per lo schifo e per la paura che mi sono presa. Tra il restare nuda e avvolgermi nell'asciugamano ho scelto una via dimezzo: lo tengo premuto contro il seno cercando di non pensare all'olezzo che emana.

Quando Leo prova ad aprire la porta, quella si dischiude con uno scricchiolio. Leo si ferma, prova ad aprirla più lentamente, ma la porta cigola . Tratteniamo il respiro, preoccupati che quel sinistro lamento possa attirare qualcuno o qualcosa, ma non succede niente. Oltre c'è un angusto corridoio con una carta da parati giallastra, immerso nella penombra.

Leo esce dal bagno e io mi affretto a seguirlo, non voglio restare sola con gli scarafaggi. Ho la terribile idea che da un momento all'altro ne usciranno altri, a decine, centinaia, da ogni buco, dai tubi discarico, e invaderanno la stanza. Nel corridoio ci sono tre porte, oltre quella del bagno e il portone di ingresso. Il pavimento è freddo e polveroso sotto i piedi scalzi. Noto la quantità assurda di chiavistelli e catenacci sul portone d'ingresso e anche i poster alle pareti. Sono vecchie locandine di film, un poster di una certa Bettie Boop e vecchie pubblicità. Anche Leo li ha notati e ora avanza lento verso l'unica porta socchiusa.

«Dove vai?» bisbiglio, prendendogli la mano. C'è qualcosa oltre quella porta. Non so come lo so, ma non vorrei proprio vederlo.

«Dobbiamo uscire da qui e l'unica via è quella» dice Leo indicandomi le porte chiuse. Non hanno maniglie. Non possono essere aperte come non possiamo uscire dal portone d'ingresso: non ci sono chiavi per aprire tutte quelle serrature. Il ticchettio di centinaia di zampe che scorrazzano nelle ombre mi fa capire che non possiamo nemmeno tornare nel bagno.

La porta della camera – perché so che è una camera – si apre senza un suono e la luce intensa del giorno ci abbaglia, illuminando anche il corridoio.

La prima cosa che vedo è che c'è qualcuno (qualcosa?) nel letto, un bozzo informe sotto le coperte. Leo impreca come se sapesse chi si nasconde lì sotto. Io non lo voglio sapere e distolgo subito lo sguardo verso la finestra. Si affaccia su uno studio medico.

Noi siamo in uno studio medico.

«È l'ufficio dell'esimio dottor Dentigialli» dice atono Leo, poi sembra riscuotersi. «Ci hai portati da lui, Genni!»

Io mi guardo attorno notando lo studio anonimo e i poster alle pareti. Ce n'è uno di Parigi, uno di una bicicletta che sembra un occhio e il terribile poster di Dentigialli con uno spropositato sorriso che mostra una piccola cella imbottita, come fosse una camera dell'Hilton. Leo ha di nuovo il suo pigiama, io il mio camice. Mi giro, e alle mie spalle vedo la foto della camera in cui eravamo un attimo prima. La coperta è tirata giù, il letto è pieno di vermi e c'è una scritta che accusa: "mi avete dimenticato". Eravamo nel ricordo della casa di Dentigialli e quella era la sua camera.

«È così che è morto?» domando.

«Sì, penso di sì.»

So che dovrei provare qualcosa, orrore, forse anche un minimo di pena – è orribile l'idea di morire solo e senza che qualcuno si accorga della tua mancanza, nessuno che si ricordi di te – ma in questo momento non sento niente.

«Che facciamo adesso?» lo domando solo per non restare zitta. In realtà conosco la risposta. Adesso dovremo aspettare che Dentigialli arrivi.

«Proprio così» dice Leo. A quanto pare abbiamo ripreso a condividere i pensieri.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top