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«Che ne pensi?» mi domanda Viola.

«Penso che ci penserò ancora un po'» dico fissando la tela davanti a cui stazioniamo. In realtà non ci sto pensando affatto, ai miei occhi è solo un pasticcio di pennellate azzurre e gialle. La mia mente è ancora sul divano: io e Viola nude a parlare di niente, abbracciate a ridere per delle sciocchezze. Quanto ci siamo rimaste? Più o meno due ore prima di renderci conto di avere fame. Guardo la tela, ma rivivo tutti i dettagli del nostro pomeriggio; vedo ancora il corpo di Viola, i suoi occhi pieni di passione, sento il suo corpo contro il mio, respiro il profumo della sua pelle.

«Io lo guardo, ma non riesco a pensare ad altro che a questo pomeriggio» dice Viola e mi prende la mano. Due menti un solo pensiero. Sorrido come una scema, aggrappandomi alle sue belle dita. Cavolo, sono proprio cotta!

«Penso a noi due su quel divano e anche a quello che indossi sotto il vestito» aggiunge, avvicinando la bocca al mio orecchio. Il suo fiato caldo mi provoca un brivido che mi scende lungo la schiena fino al perizoma di pizzo nero che mi ha regalato. Le stringo la mano più forte per trattenere la voglia di baciarla.

«Viola che ne pensi di questo?» irrompe nel nostro universo Livia, l'amica di Viola che meno sopporto. «Non credi che la tensione delle pennellate sottenda a bla, bla, bla...» tanti paroloni e tutto quello che vuole è solo rompere le palle «bla, bla bla... sono una stronza arrogante e snob e voglio far sentire la tua ragazza una perfetta idiota... bla, bla, bla...» le parole non sono queste, ma è proprio quello che intende.

Mi sfilo da una conversazione in cui non avrei alcuna parte e mi sposto un po' più in là. Livia mi sorride, acida come un limone, e continua a parlare con Viola. Io la ignoro e girato l'angolo guardo svogliata altri quadri che non riesco ad apprezzare.

La mia mente vaga tra linee, macchie e la stronzaggine di Livia. Sono così su di giri che non me ne frega un cazzo dei suoi giochetti. Non sono pazza e ora rischio di essere anche felice. È una gran bella sensazione e ho bisogno di condividerla.

Prendo il cellulare e trovo il numero di Becca. L'ho fatta aspettare anche troppo. Mentre il segnale di libero si protrae mi sposto in un corridoio di servizio allontanandomi dall'esposizione. Non voglio disturbare nel silenzio della sala.

«Finalmente!» risponde Becca, tra l'incazzatura e il sollievo.

«Hai ragione, scusa» dico io e poi lascio che mi faccia le domande che vuole. Sono pronta e non ho più così tanta paura delle risposte che dovrò darle. Parliamo di dove sono stata in questi ultimi tempi, di come mai ho mollato Simo e del perché del mio mezzo trasloco. Quando le dico di Viola lei si dimostra prudente, sa quanto mi abbia fatto male lasciarla e non sa cosa aspettarsi da un nostro riavvicinamento, ma sento che è felice per me. Le parlo un po' di lei, di come va, e mi appoggio al muro del corridoio. Mentre parlo guardo in alto; sopra di me, la luce che ha preso a baluginare, noto che il vetro è pieni di insetti morti. Che schifo.

Becca mi fa qualche altra domanda, ma entrambe sentiamo la tensione crescere. Il momento in cui dovremo parlare della mia fuga si avvicina. Traccheggio un altro po' raccontandole di quanto siano antipatiche le amiche di Viola mentre osservo distratta la vernice verde salvia scrostata sulle pareti e le piastrelle scheggiate del pavimento.

«Ma perché sei scomparsa di punto in bianco?» si decide infine Becca dopo una pausa di silenzio. «Cos'è successo?»

«Storia complicata» dico muovendo qualche altro passo lungo il corridoio. Non sono pazza, ma ho visto un mostro nella pineta e un morto è vissuto nella mia testa. Glielo dico? E se glielo dico, come cazzo glielo spiego?

«Immagino» mi concede Becca. «Vuoi provare a raccontare?»

Io scavalco un naspo antincendio srotolato, sparso sul pavimento mentre la luce alle mie spalle balugina sempre di più.

«Magari ci vediamo al solito posto? Ho bisogno di spiegarti delle cose, ma non per telefono, voglio che tu sia con me.»

Alla parete c'è una locandina ingiallita di un "fantastico spettacolo di magia". Sembra una pubblicità di cinquant'anni fa. Ma quanto è lungo questo corridoio? Mi volto indietro per vedere quanto ho camminato. Ci sono delle porte che prima non avevo notato. Tante porte, tutte numerate.

«Va bene» sta dicendo Becca. «Ci sentiamo domani pomeriggio, e fissiamo.»

«Aspetta!» la interrompo mentre affretto il passo per tornare indietro sui miei passi. All'improvviso questo maledetto corridoio mi ha messo addosso una paura dannata e non voglio restare sola.

«Che succede... che c... ...uccede?» domanda Becca, non la sento più bene.

«Becca! Pronto!» la chiamo mentre guardo il corridoio davanti a me. La fine sembra così lontana.

«P...to! G.....i!» sento Becca provare a chiamarmi ancora.

«Pronto! Non ti sento! Non attaccare!» le dico quasi isterica.

Mancano solo due porte e poi sono arrivata. Porta numero 312 e poi 313; come la targa di Paperino. Chissà perché mi viene questo pensiero, non me lo ricordavo proprio. Non sono neppure certa di averlo mai saputo. La voce di Becca viene fuori dal cellulare come un fruscio incomprensibile.

«Becca aspetta, non attaccare!» quasi la supplico. Non me lo so spiegare, ma sono convinta che se restassi sola non riuscirei a uscirne. È assurdo, mi ripeto, ma sono terrorizzata.

«Genni, mi senti?» torna finalmente il segnale quando irrompo nella sala espositiva.

«Sì, ti sento» dico cercando di controllare l'affanno mentre mi infilo tra i quadri della mostra.

Un tipo mi guarda malissimo, facendo cenno di mettere via il cellulare. Ho fatto la figura della cafona, ma in questo momento non me ne frega un cazzo.

«Va benissimo per domani. Ciao.»

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