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Sveglia. Dove sono? Un attimo di vuoto poi lo ricordo. Capita a volte negli ultimi tempi che mi svegli senza ricordare; a volte fatico a distinguere tra residui di sogno e realtà. Forse dovrei smetterla con i sonniferi, ma altrimenti non riesco a dormire. Mi giro tra le lenzuola aggrovigliate e prendo il telefono posato sul pavimento. Sono le otto e trentasette del quattro di settembre. Tra poco comincia la scuola. È il solito pensiero cretino che faccio in questo periodo, anche se a scuola non ci vado più da qualche anno. Quel vago senso di malessere e ansia che ha sempre accompagnato l'inizio dell'anno scolastico è presente più che mai in questi giorni. Sarà che in effetti qualcosa lo devo iniziare, sarà che prima o poi mi dovrò decidere a scoppiare la bolla di sapone in cui vivo.
Mi alzo a sedere sul futon, mi stiracchio e do un'occhiata distratta ai messaggi. Ce ne sono quattro nuovi, li scorro senza aprirli mentre cerco di definire cosa dovrei fare. Stato attuale: senza lavoro, in fuga, imbarcata in qualcosa a cui non so dare un nome.
Senza lavoro. Più o meno due settimane fa sono stata licenziata, anzi buttata fuori da Anatoliy, il tizio russo del bar, amico di Sergio. Numero di messaggi lasciati da Sergio e non letti, trentasette. Ho provato come commessa in un negozio di abbigliamento, ma non mi hanno nemmeno fatto finire la settimana di prova. Numero di messaggi lasciati dalla titolare per lamentarsi dei miei continui ritardi o per chiedermi dove fossi, dodici, tutti letti. Domani è lunedì e ho un nuovo colloquio di lavoro come segretaria in uno studio legale, non sia mai che il mio diploma stiracchiato alla fine serva a qualcosa. Numero di messaggi lasciati dalla tizia che dovrei sostituire, uno solo, per darmi conferma di ora e luogo del colloquio.
In fuga. Non vedo e non parlo con Becca e con tutti gli altri dal giorno al mare; numero di messaggi lasciati da Becca e letti dandole risposte vaghe o senza darle alcuna risposta, molto elevato; l'ultimo con scritto "chiamami quando vuoi" non l'ho ancora aperto. Numero di messaggi lasciati da Diana dodici, è sempre stata una tipa pragmatica e poco incline a insistere. Numero di messaggi degli altri, in numero variabile dai tre di Massi agli otto di Teresa. Quanto a Simone non l'ho nemmeno mollato, non gli ho detto niente, mi sono chiusa la porta di casa sua alle spalle e, semplicemente, sono uscita dalla sua vita. Numero di messaggi lasciati e non letti cinque, numero di chiamate di Simo, tre. Un numero piuttosto misero, direi.
Non sono nemmeno tornata a casa nell'ultima settimana. Numero di messaggi lasciati da Dado e Nina, cinque, tutti letti. Sanno dove sono, o per lo meno credono di saperlo, ho detto loro che me ne andavo a stare da una mia amica per qualche tempo. Di sicuro Nina ha avvisato Becca, ma per ora nessuno ha capito che non sono dove ho detto di essere.
Per quanto riguarda la cosa in cui mi sono imbarcata e a cui non so dare un nome, mi giro verso l'altro lato del futon e guardo Viola dormire.
Da quando le ho telefonato la prima volta non abbiamo più smesso di cercarci. Inutile dire che sono stata alla mostra di foto con le sue amiche. Ci siamo divertite. Il giorno dopo l'ho chiamata per sapere se le andava di uscire per un sushi, io non ne vado matta ma lei lo adora. Siamo andate a cena assieme e poi, due giorni dopo, in un cinema all'aperto e, ancora, a fare due passi lungo l'Arno al calar del sole.
La osservo, scomposta tra le lenzuola, abbracciata al cuscino, con indosso solo la maglia di Hello! Spank e la bocca leggermente dischiusa. Ho provato a fermarmi? Forse l'ho fatto, ma quando ho provato a ritrarmi, spaventata dalla sua capacità di perdono, è stata lei a cercarmi. Così un martedì che non aveva da lavorare mi ha chiamata e mi ha chiesto se ero libera. Erano tre giorni che non la cercavo, che non ci sentivamo – nemmeno un messaggio – e avevo una paura folle che avesse deciso di lasciarmi perdere. Così le ho detto di sì, anche se in realtà dovevo fare il turno al bar, perché avevo paura che un no l'avrebbe allontanata per sempre, ma anche perché l'idea di andare via con lei mi piaceva e non mi sembrava vero che volesse passare una giornata intera assieme. Così siamo montate sulla sua macchina e siamo salite fino al lago di Bilancino. Non gliel'ho detto, ma è proprio per non essermi presentata al lavoro quel giorno che Anatoliy mi ha cacciata. Forse un giorno glielo confesserò e ci rideremo sopra assieme. Quella sera, ubriache di sole e stanche di mangiarci con gli occhi ci siamo baciate e poi abbiamo fatto sesso nel parcheggio, strette sul sedile dietro della sua vecchia Micra.
Da qualche giorno mi sono accampata da lei. Non è una prova di convivenza, sono stata chiara con Viola anche se non esplicita, ma il nostro secondo tentativo è solo agli inizi e sono certa che anche lei voglia andarci piano. Per questo non ci sono miei vestiti nei cassetti o negli armadi, tengo solo un borsone buttato in un angolo e un po' di cose sparpagliate nei dintorni. Le ho detto anche che ho avuto un periodo di merda e che ora la mia vita è un casino. Sono stata chiara anche se non sono scesa nei particolari sul genere di problemi che ho avuto. Sono quasi sicura che Viola mi starebbe vicina, che proverebbe a capire senza volermi imporre niente, ma la verità è che ho paura anche solo a parlarne nonostante siano passate settimane dall'ultimo episodio. Continuo a rimandare e a ripetermi che devo solo schiarirmi le idee ancora un po'. Sto per farle male di nuovo? Spero proprio di no.
Le scosto i capelli dal viso, le do un bacio e mi alzo per andare a farmi una doccia.
Un'ora più tardi sono fuori casa. Stasera Viola sarà con le sue amiche a una mostra d'arte ed è riuscita a trovare un biglietto anche per me nonostante l'evento fosse sold out da un bel po'. È stato un gesto molto bello da parte sua darsi così tanto da fare per portarmi con lei.
Non so niente d'arte, ma mi piace vedere Viola nel suo centro, parlare di questo o quell'artista con la sicurezza data dalla conoscenza; mi piace vederla così a suo agio. Dopo la mostra fotografica, la nostra prima uscita assieme, siamo state ad altri due eventi con le sue amiche. Sono simpatiche, almeno con Viola, mentre io non credo di piacergli troppo. Forse sanno cosa è successo tra noi due, forse mi credono solo un po' troppo semplice – eufemismo cortese di stupida – per stare con lei. Non mi interessa la loro approvazione, se non sono di loro gradimento se ne faranno una ragione, l'unica a cui mi importa di piacere è Viola. Per questo, stasera, dopo settimane di abbigliamento stile sfollata, ho intenzione di farmi bella per lei e pur non volendo far schiattare d'invidia nessuno – ci mancherebbe – ho intenzione di mettermi in tiro e far vedere quanto possa fare la mia porca figura truccata e infilata in un bel vestito.
Salgo sull'autobus mezzo vuoto, mi trovo un angolo per fare le mie quattro fermate e metto le cuffie con una playlist di Viola. Le piacciono cose vecchie, tipo gli Aerosmith e i Guns and Roses, ma anche meno rock come i Queen. Ho scoperto che i Queen non sono malaccio, anzi mi piacciono. Alcune canzoni le avevo già sentite, ma non mi avevano colpito particolarmente, ora invece mi ritrovo spesso a canticchiarne le parole. Alla mia fermata scendo e attraverso, diretta verso casa. Non ho nessuna voglia di tornare, ma ho bisogno di prendere alcuni trucchi, un cambio d'abito e il mio vestito di Desigual. La domenica mattina è la mia migliore chance di trovare la casa vuota. Non ne ho la certezza, ma Dado dovrebbe essere a giro con la sua bici, e Nina a casa dai suoi. Posso entrare e uscire senza dover vedere nessuno, senza dover rispondere a domande scomode e dover dire altre bugie, accampare altre scuse. Salgo le scale veloce, mi fermo alla porta e ascolto prima di mettere la chiave nella toppa e aprire. L'appartamento è silenzioso e in buona parte immerso nella penombra. Trovarlo così mi fa una certa impressione, sembra disabitato, ma scaccio subito quel pensiero assurdo e la brutta sensazione che sento crescere dentro. È solo Dado che non ha aperto le persiane prima di uscire con la bici; non è la prima volta che succede. Attraverso il corridoio, entro in camera mia e apro l'armadio per prendere quello che mi serve. Metto nel borsone altra biancheria, altri vestiti, l'abito che voglio mettere stasera, una scatola a metà di sonniferi – di quelli forti – prendo anche il mio astuccio degli smalti per sistemare le unghie e il romanzo che ho a metà sul comodino da prima dell'estate.
Le ultime cose entrano un po' a fatica, lotto con la cerniera, riesco a chiuderla e poi tiro il fiato. Ho fatto tutto di corsa come se stessi rubando, ma ora che ho finito non me la sento di andare via. Siedo sul letto e guardo la mia stanza, le foto attaccate, le cose che ho messo sulle mensole. Mi viene da piangere per tanti motivi diversi e per nessuno in particolare, così mi alzo ed esco fuori. Non me ne sto andando per sempre, mi dico, e al tempo stesso una parte di me non ci crede, sepolto nel profondo c'è qualcosa che mi dice che non tornerò più qui. Il cellulare prende a vibrare, lo ignoro e mi asciugo le lacrime. Non voglio piangere. Esco dall'appartamento, chiudo e scendo le scale col borsone a tracolla.
Una volta in strada il rumore della città mi avvolge e caccia i pensieri che si agitano e sussurrano spaventosi nel silenzio. Mi incammino verso il tabacchi per comprare un biglietto per l'autobus, prendo il telefono per rimettere la musica e vedo chi mi ha chiamata. È di nuovo Becca. L'idea di richiamarla mi tenta, mi manca da star male, ma la paura mi paralizza.
Vorrei tanto prendermi una bella sfuriata e poi fare pace, ma non so che dirle e non voglio che mi faccia domande. Non sono pronta, ma neanche così forte da fare a meno di lei. Il pollice danza sui comandi della rubrica richiamando il numero di Becca, ma arrivato al punto di avviare la chiamata resta sospeso sopra lo schermo. Annullo e ripeto cercando di forzarmi ad andare avanti, ma non ci riesco. Lo faccio di nuovo, ma è come se fossi paralizzata; alla fine mi arrendo, blocco il cellulare e lo rimetto a posto. Magari la chiamo dopo, mento a me stessa.
Quando passo accanto a una campanelliera e sento il citofono frusciare non ci faccio troppo caso. Qualcuno non lo ha messo bene a posto, mi viene da pensare: cose che succedono. Subito dopo vedo il portone e mi arresto. È il portone della casa di lui. Come ci sono arrivata? Ero sull'altro lato della strada fino a poco fa. Quand'è che ho attraversato la strada? Mi giro indietro come se servisse a capire cosa è successo. Probabilmente l'ho fatto sovrappensiero, ma trovarmi qui "per caso" non mi piace.
Dovrei solo andarmene, invece guardo la campanelliera che ancora gracchia e fruscia. Il mio sguardo senza volere corre alle targhette del terzo piano, ma il cognome di lui non c'è. Ovvio che non ci sia, mi dico, non c'era nemmeno l'ultima volta che sei stata qui, ma al tempo stesso rileggo i cognomi.
Qualcuno si dev'essere accorto che il citofono non è messo bene perché improvvisamente il fruscio scompare. Subito dopo lo scatto del portone che si apre mi strappa un sussulto. Devo andarmene, mi ripeto, e dovrei farlo subito: girarmi e mettere più strada possibile tra me e questo maledetto portone. Non ho nessuna voglia di entrare. Allora perché cazzo le mie mani si posano sul legno e spingono?
L'interno è fresco e luminoso; un vano scale come tanti altri, con un vecchio impianto d'ascensore protetto da un grigliato. Mi ripeto che dovrei proprio lasciar perdere mentre entro e mi guardo attorno. Non so se il fatto che sia tutto così normale mi dia sollievo o delusione. Che mi aspettavo? La casa dei fantasmi?
Le cassette della posta sono sulla sinistra. Il cognome di lui potrebbe essere stato tolto dalla campanelliera, ma essere ancora su una di quelle targhette. Qui ci sono molte etichette adesive applicate frettolosamente a coprire i precedenti inquilini. Mi avvicino mentre mi domando perché mai lo voglia scoprire. Non credo che indagare faccia bene al mio tentativo di dimenticare tutta questa storia. Vero, ma è anche vero che potrei scoprire di non essere pazza, che lui è reale come è stato reale quello che è successo nella pineta. Mi viene da sorridere, un sorriso preoccupante. Se non sono pazza allora un uomo morto è vissuto nel mio corpo e un cazzo di fottuto mostro se lo è portato via.
Osservo la doppia fila di cassette fino a trovare quella che mi interessa. L'etichetta adesiva non ne vuole sapere di venire via, ma per fortuna ce n'è una più vecchia sottostante che sembra più collaborativa.
Sono quasi riuscita ad averne ragione quando il portone scatta e si apre. Io smetto di grattare e fingo di scorrere i nomi sulle cassette.
«Buongiorno» mi sorride educata una signora anziana con dei vivaci occhiali rossi.
«Buongiorno» mi sento finta come il sorriso che esibisco.
«Cerca qualcuno?» anziché muoversi verso l'ascensore si ferma a guardarmi. Non mi resta che domandare quello per cui sono venuta.
«La signora Mugnaini abita qui? Non riesco a trovarla» non so cosa sperare che mi risponda.
La signora si aggiusta gli occhiali sul naso, adesso mi guarda con una certa curiosità. «Non credevo ci fosse qualcuno ancora interessato a quella vecchia storia» dice studiandomi, «però non sembri una giornalista. Sei una... come si dice... una boggher? Una influensed? Una di quelle che scrivono cose sui cellulari?»
La cosa mi spiazza, non era quello che mi aspettavo, ma sto al gioco.
«Esatto» sorrido come se mi avesse smascherato.
«Be', la signorina Mugnaini non sta più qui. Si trasferì subito dopo il fatto» mi dice la signora come se io sapessi di che parla. Mi dà una lunga occhiata d'intesa con cui mi vuol far intendere che lei sa tutto e lo sa anche bene. Io annuisco come se condividessimo lo stesso segreto mentre cerco di fare i conti col fatto che una signorina Mugnaini è vissuta davvero qui. Quindi anche lui era reale? O c'è una qualsiasi altra cazzo di ragione plausibile per cui io potessi saperlo?
«Tutto bene, cara?» mi domanda l'anziana, la sua voce sembra venire da lontano. «Ti sei fatta bianca come un cencio.»
Scuoto la testa come a minimizzare la cosa, ma sono costretta ad appoggiarmi al muro.
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