11-1 i mostri esistono

«Sei sicura di stare bene?»

No, niente affatto. Sono sicura di tutto il contrario, ma ovviamente mento. «Sto bene.»

«Continui a ripeterlo, ma dopo quello che è successo...»

Fidati, non hai la minima idea di quello che è successo, ma mi stringo nelle spalle.

«Ho fatto un ruzzolone nella pineta. Niente di più.»

Becca mi guarda, ancora dubbiosa. Io mi stendo sull'asciugamano e mi volto dall'altra parte per non dover sostenere oltre il suo sguardo indagatore. Metto gli occhiali da sole e guardo i nostri vicini di ombrellone: una chiassosa famigliola piena di marmocchi. Un ruzzolone nella pineta, è così che ho spiegato a Becca e agli altri i graffi sulle braccia e sulle gambe. Cos'altro potevo dirgli? Anche volendo non resta altra prova di quello che è successo, della tenebra e del bosco che cercavano di prendermi, di Dentigialli che si è portato via lui. Mi avrebbero presa per pazza. Dall'ombrellone della famigliola, la bambinetta più piccola mi guarda, mi sorride impertinente: le manca un incisivo. L'ho riconosciuto, Dentigialli, il mostro nella pineta. L'avevo già visto nel riflesso della vetrina ed è anche venuto a cercarmi in sogno. Mi ha detto qualcosa? Non ricordo. Dentigialli. Perché lo chiamo così? La bambinetta corre verso il bagnasciuga ridendo, inseguita dalla mamma. La seguo con lo sguardo. Quando ero una bambina ci credevo a cose tipo i mostri e l'uomo nero, ma mio padre mi ha sempre detto che non esistevano. Si sbagliava.

«Dove vai?» mi domanda Becca, vedendomi alzare.

«A fare due passi» dico assorta. Non è vero, non so perché mi sono alzata. So solo che vorrei correre via come ha appena fatto la bambinetta dell'ombrellone accanto. Correre lontano.

«Vengo con te» dice Becca e mi affianca. Camminiamo.


Quando torno presente è quasi sera. Mi ritrovo a fissare Simo che mi prende lo zaino dalle mani per stiparlo assieme a un'altra montagna di bagagli nel baule della sua auto. Mi sorride, lo guardo. Non si è accorto di niente, ovviamente.

«Sei sicura che ti va di fermarti?» mi ha appena domandato.

«Sì, certo» dico in automatico anche se non so di che si parla. Siamo di nuovo nel campeggio, nella piazzola della roulotte di Massi e io ho solo una vaga idea di come ci sono tornata. Ero sulla spiaggia, camminavo con Becca e poi? Ricordo di aver fatto il sentiero nella pineta con Simo per tornare qui, un altro sentiero, non quello di stamani. Ma prima? Mi guardo attorno in cerca degli altri. Becca sta parlando con Massi, Teresa siede sui gradini del camper, Diana e Tommi sono al cellulare. Per un attimo, un breve attimo, di fronte a tutta quella normalità provo l'impulso di mettermi a urlare e far uscire tutta l'angoscia che mi riempie lo stomaco. Poi l'attimo passa e torno a guardare Simo che prova a chiudere il portello del bagagliaio dopo che la prima volta non ci è riuscito, a causa del cumulo di scatole e borsoni.

«Allora andate?» domanda Becca affiancandosi a me.

Annuisco a malapena. Sì, andiamo anche se non so dove.

«Sì, io domani ho lezione: diritto commerciale. Due coglioni ma, ehi, me la sono voluta, no? E poi Genni lavora, turno di mattina. Alzataccia in vista!»

Simo mi guarda. Forse si aspetta che aggiunga qualcosa al suo minestrone di parole, ma mi astengo. Non credevo fosse capace di imbarazzarsi o di essere messo in soggezione da qualcuno, ma a quanto pare la minuscola Becca lo terrorizza. La cosa mi suona così assurda che mi viene una gran voglia di ridere. Ma non c'è niente di divertente; in questo momento oscillo tra il terrore e l'isteria mentre lotto per sembrare normale. Dov'è stata la mia mente per tutto il pomeriggio? Dove? E poi c'è un mostro nella pineta che si è portato via il mio "amico" immaginario. C'è un cazzo di mostro e non posso dirlo a nessuno! Non devo ridere. Cerco di trattenermi, ma nonostante gli sforzi sento montare una risata isterica e priva di controllo.

«Sì, capisco» dice Becca, ma il tono delle sue parole dice: «Che idiota ti sei trovata?!»

La cosa peggiora la mia crisi di riso. Sto per scoppiare quando sento la mano di Becca che sfiora la mia. Niente più che un tocco, ma basta a farmi sentire la sua vicinanza. Non ho più voglia di ridere, né di urlare. Non mi sento più così spaventosamente sola.

Saluto e salgo in macchina con Simo. Mi è appena tornato in mente dove si vuole fermare e non ne ho nessuna voglia. Chiudo fuori dallo sportello la pineta e le sue ombre, accendo la musica, alzo il volume e faccio finta che sia tutto finito. Lo so che non è così, ma non voglio pensarci.


Ore più tardi sono stesa nel letto di Simo. Lui mi dorme a fianco. La luce del lampione in strada entra dalla serranda e disegna fori di luce sul soffitto della stanza. Non riesco a fare a meno di fissarli. Non ho fatto praticamente altro da quando ci siamo stesi; anche mezz'ora fa mentre Simo mi scopava io continuavo a guardarli, a contarli.

Poco dopo aver lasciato la pineta ho provato a fargli capire che non ero dell'umore, ma lui non ha colto i segnali. Non ho insistito, non ne avevo le forze. Una volta a casa sua abbiamo bevuto. Non ricordo se è stato lui a tirare fuori la bottiglia o se sono stata io a chiedere. In ogni caso non mi sono trattenuta. Quanti bicchieri? Poi Simo si è dato alla pazza gioia mentre io offrivo il minimo di partecipazione necessaria. Lui non si è accorto di quanto fossi distante, non ha fatto caso a niente mentre mi spogliava, mi baciava e mi spingeva sul letto. Io non riuscivo a reagire. Non ero del tutto contraria alla cosa, ma nemmeno così trepidante. I miei pensieri continuavano a girare a vuoto.

Anche adesso faccio fatica a concentrarmi sul presente. La mia mente torna continuamente indietro, coglie un dettaglio e si ritrae atterrita da ciò che ricorda. La camicia arancione sotto il camice celeste di Dentigialli; un ciuffo dei capelli, simili a vernice appena stesa, che sfugge dalla brillantina; la faccia spaesata di lui, il Signor Landi, che mi fissa. È atterrito? Rassegnato? L'ho visto davvero? E cos'altro? Cos'altro mi sfugge? Cinquantotto. Sono quasi sicura che i fori di luce sul soffitto siano cinquantotto. Sto per tornare a contarli quando Simo fa un verso con la bocca, una specie di grugnito strozzato. Mi giro a guardarlo: dorme con un'espressione idiota sulla faccia. Credo che tra noi due sia finita.

Meglio andare. Esco dalle coperte, raccolgo le mie cose ed esco.

Che ore sono? Non lo so, ma in strada la città è silenziosa e fresca dopo la calura asfissiante del giorno. Oltre i tetti dei palazzi il cielo notturno già sfuma verso la luce del nuovo giorno. Devono essere le quattro o giù di lì. Tra tre ore entro a lavoro.

Mi incammino. La strada fino a casa, a piedi, è lunga, ma mi farà bene fare due passi, mi aiuterà a schiarirmi le idee. Poco più avanti, sul marciapiede, una bicicletta incatenata a un lampione e parcheggiata di traverso mi sbarra la strada. La guardo mentre devio ed entro in strada oltre le poche macchine parcheggiate: è da uomo, vecchia, di un acceso color verde bottiglia. Lungo la carreggiata, sotto i miei piedi, l'asfalto è più regolare che sul marciapiede, e così nero che sembra bagnato anche se non è piovuto. Guardo l'asfalto, la striscia bianca che corre al mio fianco, la luce dei lampioni che, mentre cammino, fa girare la mia ombra attorno. Guardo di nuovo i miei piedi, porto le infradito che avevo nella pineta e vestiti che non ho memoria di aver indossato. Mi sento improvvisamente sola e sperduta. Mi viene una gran voglia di piangere, ma non cedo. Continuo a camminare.

Il sole sta per sorgere quando svolto nella strada di casa. Nella via praticamente deserta c'è una macchina che si allontana lenta e il camion della spazzatura che vibra e sbuffa mentre solleva un cassonetto. Sul lato opposto un uomo cammina da solo lungo il marciapiede. Affretto il passo, desiderosa di arrivare a casa, salire le scale e buttarmi nel letto, anche solo per venti minuti.

Passo davanti alle serrande chiuse dei negozi all'angolo, supero il camion della spazzatura che sta afferrando l'ultimo cassonetto della fila e poi mi fermo.

Sono caduta di bici proprio qui nel sogno. Ero convinta di avere la bici di Dado, ma adesso ricordo distintamente una vecchia bici da uomo verde bottiglia, no è azzurra, è nuova e brilla nel sole. Sì, è azzurra, con un logo sulla canna e il sellino bianco. Perché adesso la ricordo così bene?

Guardo la strada vuota e poi il grande portone da cui, nel sogno, stavo uscendo. La casa dove lui viveva con Corinna.

Faccio un passo verso la campanelliera: è vecchia, di ottone, incassata nella pietra della facciata. Ci sono otto campanelli; scorro i cognomi, cerco Landi e Mugnaini. Lui mi ha detto che Corinna Mugnaini era la sua compagna.

Non ci sono. Un po' me lo aspettavo, ma non so come la cosa mi faccia sentire. Sollevata? Delusa? Spaventata?

Abbasso il dito con cui scorrevo le targhette. Meglio andare a casa.

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