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Kurt si rendeva conto essere diverso.

Era diverso per svariati motivi, ma in quel preciso periodo c'era qualcosa che non funzionava in lui. Mentre tutti chiamavano quella cosa vita, per lui era diventato un laconico susseguirsi di gesti meccanici, compiuti senza riflettere. C'era stato un momento in cui era vivo, doveva esserci stato. Ma in quel momento non riusciva a richiamarlo alla mente. Ma avvertiva che qualcosa dentro di lui era profondamente cambiato, o era andato perso. Un vuoto si dilagava nel suo corpo. Un vuoto... vuoto, non uno di quelli tristi, o malvagi. Uno di quelli apatici, che non portano niente, ma si limitano a risucchiare, con una potenza sovrumana, ogni cosa all'interno di una persona.

Aveva tentato di attribuirlo ad un malessere fisico, e c'era riuscito. Ogni volta che mangiava qualcosa, o solo l'idea di cucinare, portare degli alimenti alla bocca, di digerirlo, gli era diventata insostenibile. Appena sentiva odore di cibo il suo stomaco si contorceva, inondandolo di un senso di nausea, così eliminò il problema alla radice: smise di mangiare quel che non era indispensabile. Si era abituato ai mal di stomaco, ma quello era troppo per qualunque umano. E per quanto venisse idolatrato, era uno di loro, forse il più stupido e codardo. Così le ossa divennero sempre più sporgenti, la pelle sempre più moscia e le occhiaie sempre più profonde. Ma era l'unico che poteva accorgersene. Perché per i media, per quella generazione, era sempre Kurt Cobain, che passava direttamente dall'essere la reincarnazione di Cristo al pirla perennemente fatto. Salire su un palco, le grida, non trasmettevano nulla. Come un film muto, vedeva ragazzi matti, ribelli, o solo commerciali che si protendevano verso di loro, illuminati da luci stroboscopiche e bloccati da agenti di sicurezza. Ma non era più lui l'oggetto di quell'interesse, era solo quello che avevano detto, avevano fatto della persona che era. Era diventata una normalissima routine, alzarsi, non mangiare, fumare, pensare quel poco che il suo cervello riusciva a produrre, poi rimettersi a dormire. A pomeriggio inoltrato tirare su la testa dal posto in cui era crollato, tirare su il culo, e mettersi in tiro per qualche concerto. Non era più l'eccitazione del palco, la vittoria di aver trovato qualcuno che lo lasciasse suonare. Lui era solo l'oggetto, sballottato tra fans, interviste, libri e musica. Ed erano sempre meno le cose che riuscivano a salvarlo.

Poi si era reso conto che era un male che proveniva da lui, dal suo essere. Aveva sorriso, ricordando le notti della sua infanzia passate alla finestra, speranzoso, immaginandosi due alieni che lo salutavano dal cortile. Li aveva immaginati simili a lui: non aveva fatto fantasie su antenne, pelle verde e voce assurda; ma sperava in persone giuste, buone e riservate. Kurt sapeva di non essere sempre giusto e buono, l'aveva sempre saputo. Da piccolo pensava che fosse perché i suoi veri genitori non avevano potuto dargli una buona educazione –lui, che l'aveva sempre disprezzata-, mentre poi crescendo si era reso conto del fatto che si trovava in quella situazione dato il suo semplice essere umano.

Così, con quei pensieri repressi, il vuoto divorava la sua anima, lacerandolo, non in modo doloroso. Forse, nel modo peggiore possibile.






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Vi aspettavate qualcosa di allegro? HA! No. Questi sono gli ultimi mesi della vita di Cobain, quindi i più "destabilizzanti", in un certo senso. O almeno, nel mio immaginario. Quell'uomo non lo capirò mai! 

PS: per chi stesse leggendo anche "20 profumi, 20 rockstars", ho intenzione di aggiornare il giorno di Natale, ma non prometto nulla!
#Zoe


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