XXI

Michele lesse il nome sul grande cancello d'ingresso.
Gli era così familiare che anche chiudendo gli occhi poteva dire esattamente il numero dei cardini, dei ghirigori e delle punte che erano state create su quel cancello.
Aveva il cuore in gola, le mani gli sudavano e tremavano leggermente. Era seriamente indeciso se suonare o meno.
Il viaggio da Milano a Trapani era stato apparentemente lungo e silenzioso, ma dentro di lui Michele sentiva brusio, urla e caos.
Era tornato a casa, l'unica casa che avesse mai conosciuto, una settimana dopo aver ricevuto la lettera di Stefano.
In gran parte sapeva perché era lì, anche se non voleva accettare il vero motivo della sua visita. Piuttosto avrebbe mascherato tutto e avrebbe lasciato che il corso degli eventi scorresse tranquillo, senza casini inutili.
Chiunque lo conoscesse lo considerava un tipo fumantino, facilmente irritabile. Stare accanto a Stefano, con la verità che ora aveva nel cuore, lo avrebbe sicuramente fatto infuriare.
"Ehy, Ma sei Michele!"
Sabrina, la donna delle pulizie, lo scorse dietro al cancello, mentre il ragazzo era ancora preda delle sue elucubrazioni mentali.
Quella donna, insieme a tutto il personale, l'aveva praticamente visto crescere, era impossibile passare inosservato.
Il ragazzo si fece strada attraverso il giardino della tenuta, riassaporando vecchi ricordi e profumi che aveva sentito solo lì.
Sabrina lo accompagnò all'ufficio della preside, guardandolo di tanto in tanto di sottecchi.
Era una donna di quarant'anni, ne aveva viste di cotte e di crude nella sua vita e riusciva a riconoscere una persona tormentata quando la vedeva. Decise comunque di non impicciarsi, anche se Michele aveva un posto nel suo cuore. Da piccolo avrebbe tanto voluto adottarlo, ma non poteva permetterselo con il suo stipendio da inserviente, così si era accontentata di vederlo crescere da lontano, di stargli vicino nei momenti bui e di lasciarlo vivere quelli felici in tranquillità.
Non aveva mai potuto avere figli, per cui Michele era la persona più vicina a un figlio che avesse mai avuto.
"Grazie per avermi accompagnato, ma sai che conosco questo posto meglio di te"
Sorrisero entrambi, la donna gli diede uno scappellotto dietro la nuca e poi tornò alle sue faccende, voltandosi per non far notare a Michele una lacrima solitaria che le era scivolata via dagli occhi.

🔸

"Sono felice di rivederti, pensavo che non saresti mai più tornato qui"
La preside abbracciò Michele, che sembrò molto imbarazzato dal gesto.
In tanti anni non aveva mai visto uno slancio affettivo da parte di quella donna.
"Come vanno le cose qui?" Non sapeva nemmeno lui come arrivare al punto, non voleva sembrare troppo interessato a Stefano, ma era l'unico motivo per il quale aveva preso quell'aereo.
"Dipende dai punti di vista. Alcune cose sono sempre le stesse, lezioni, studio, docenti arrabbiati, ma per altre... beh, sapevo che prima o poi sarebbe successo"
Scrollò le spalle, con fare malinconico.
Nella sua voce Michele aveva percepito del dolore, riscoprendo una donna sensibile sotto l'abito austero e i modi distaccati.
Tornare in quell'istituto dopo tanto tempo gli fece capire che molte delle cose che aveva visto erano pure illusioni.
"Perché dice così, posso aiutarla?"
La donna lo guardò attentamente, sorridendo a quel ragazzo apparentemente rude, ma che possedeva un cuore fuori dal comune.
"Avrei voluto più ragazzi come te, qui dentro. Tu non hai mai avuto nulla, ma non ti ho visto nemmeno un giorno lamentarti per la tua sventura, oggi invece i ragazzi hanno tutto, ma non gli basta."
Michele annuí con la testa. Effettivamente aveva conosciuto molti ragazzi a Milano, cresciuti con tutti gli agi e l'amore, gettare via la propria vita tra alcool, droga e donne, sperperando i soldi dei genitori senza problemi.
Aveva anche conosciuto tipi che non avevano mai messo il naso fuori dal proprio mondo, ma che si credevano i padroni dell'universo.
"Capisco perfettamente." Disse poi, dopo un lungo silenzio.
"Dei ragazzi che conoscevi è rimasto qualcuno?" Gli chiese la preside.
Michele rifletté sulla possibile menzogna da propinarle, ma in fine si decise per la verità.
"Solo Stefano. Stefano Manetti"
Lo disse con nonchalance, come se non gli facesse nessuno strano effetto il suo nome.
"Capisco. Devo dirti che non so se quel ragazzo può ricevere visite al momento"
La donna sospirò, sembrava molto nervosa.
Michele cominciò a sentire una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come un brutto presagio.
"Che significa, che gli è successo?"
La donna non rispose, ma si alzò da dietro la scrivania, prendendo le mani di Michele tra le sue, sudate e fredde.
"Ha ricevuto un aggressione, la settimana scorsa, non ha voluto dirci nulla su chi gli avesse mosso violenza, ma da quel momento non è mai uscito dalla sua stanza"
La voce della donna si incrinò, perché aveva due figli e il solo pensare a come era ridotto quel ragazzo una settimana prima la distruggeva. La sua corazza di donna severa si sgretolava come un castello di carte spostato dal vento.
Michele scattò in piedi, in preda al panico.
"Devo vederlo" disse soltanto, prima di uscire dall'ufficio della donna.

🔸

Dei pugni contro la porta impedirono a Stefano di riprendere sonno.
Era in stato confusionale, colpa della bottiglia di rum che era riuscito a procurarsi, nel corridoio dell'ala ovest. Aveva fatto un patto con due ragazzi della sua classe e in cambio dell'alcool avrebbe completato i loro test di fine semestre, che per lui erano di facile risoluzione. Da allora non era più uscito dalla sua stanza, che aveva lasciato immersa nel buio, alternava gli antidolorifici che gli aveva dato l'infermiera al rum, qualche volta prendendoli contemporaneamente.

La testa gli faceva un male cane, le orecchie gli fischiavano e quei pugni alla porta gli rimbombavano nel cervello come martelli.
D'un tratto sentì la porta cigolare e si rese conto che l'avrebbero buttata giù a forza se non avesse aperto immediatamente.
Così si decise ad alzarsi dal letto e barcollante raggiunse la maniglia.
"Che cazzo..."
Quella voce sembrava provenire dal profondo della sua anima, mai nella vita avrebbe potuto dimenticare quel suono, profondo e roco, quel mezzo accento siciliano.
Stefano sentì cedere le gambe, così si appoggiò al piccolo comodino accanto al letto.
Michele era tornato.

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