Capitolo 2

La cosa più difficile della mia vita? Semplice. Fingere di essere una persona normale, quando in realtà so perfettamente che non è così.

Se mi mostrassi veramente per quella che sono, probabilmente verrei ritenuta la più strana della scuola e la cosa divertente è che già tutti qui pensano di me esattamente questo. Io sono quella strana ed è una cosa che mi piace o, meglio, posso accettarla, in fondo viviamo in una società in cui tutto ciò che è diverso da noi, è strano.

Io sono quella che va in giro la notte, sono la stessa che non spiaccica la più che piccola parola, sono l'unica a non avere un amico.

Eppure, lo vorrei tanto, un amico, qualcuno a cui poter confidare il mare che vive in me. Qualcuno che non mi giudichi per come mi mostro, ma che mi voglia bene per quella che sono. Ma ogni volta che mi guardo intorno, purtroppo mi convinco sempre di più dell'impossibilità per me di avere qualcuno da poter chiamare amico. Eppure, non mi sembra di chiedere tanto, vorrei solo trovare qualcuno a cui poter donare tutto il bene che ho dentro.

Diamine, sono una ragazza di diciassette anni, vorrei poter avere una vita normale, vorrei che la mia adolescenza non fosse questa. Vorrei poter avere qualcuno con cui andare nei locali, qualcuno con cui potermi divertire, qualcuno che mi capisca con un solo sguardo, oppure semplicemente qualcuno che mi voglia bene.

Invece sono qui, in una classe composta da persone che neanche sanno della mia esistenza, persone superficiali che non sanno andare le apparenze, perché richiede troppo impegno, troppa fatica.

Tutti troppo egoisti per pensare a qualcuno che non sia loro stessi, i in parte li capisco anche, insomma, ognuno ha i propri problemi, chi mai vorrebbe prendersi cura anche di quelli degli altri?

Mi viene spontaneo dire che io sarei in grado di farlo, ma se mi guardo dentro, forse mi viene il dubbio che sarei capace di farcela. Ma, in fondo, so che sarei capace, forse perché conosco le sensazioni che si provano quando si è convinti di non avere nessuno con cui parlare. Forse, perché le ho proave su me stessa. Quel senso di inadeguatezza, quella paura di parlare e portare problemi, oppure la voglia di parlare, ma la consapevolezza di non avere qualcuno con cui farlo.

Ecco perché vorrei tanto un amico, perché sarei capace di donargli tutta me stessa senza chiedere nulla in cambio. È una cosa sbagliata e lo so, perché un rapporto si costruisce in due, si deve volere da entrambi le parti, ma io bramo talmente tanto qualcosa che anche solo assomiglia all'amicizia, che sono pronta a fare di tutto.

Ma ogni volta che ci ho provato non era mai abbastanza, io non ero mai abbastanza. Sbagliavo sempre qualcosa, mi dimenticavo un compleanno, davo per scontate cose che non lo erano, ferivo senza rendermene conto, allontanavo quelle poche persone che cercavano di volermi bene.

Ogni volta mi disperavo, urlavo che non lo avevo fatto apposta, che sapevo essere anche una brava amica, ma non importava quanto io mi impegnassi, c'era sempre qualcosa che non andava bene.

Ero solo una bambina, volevo soltanto qualcuno con cui giocare con le bambole. Volevo che qualcuno, qualsiasi persona, si rendesse conto che quei pianti non erano solo i capricci di una bambina che non poteva prendere il suo gioco preferito, io che viziata non sono mai stata. Quelle lacrime che ogni giorno bagnavano il mio viso, i lineamenti di una semplice bambina che certe parole non avrebbe neanche dovuto immaginarle, erano vere e proprie grida d'aiuto. Volevo che qualcuno mi aiutasse a scacciare tutto quel dolore, ma nessuno mai se ne rese conto e io venni condannata a crescere così, tra lacrime e cose non dette.

Quel dolore non scomparve, anzi, crebbe con me, ad ogni mio compleanno anche lui festeggiava gli anni, diventando sempre più grande e sempre più invisibile. Perché ormai anche io stessa avevo smesso di chiedere aiuto. Perché anche volendo con chi avrei potuto parlarne? Con un padre assente che l'unica cosa che riusciva a fare era piangere? O forse con una zia troppo indaffarata per anche solo ricordarsi di me, tranne quelle rare volte in cui mi portava al parco, di quella bambina indifesa che era stata lasciata a una realtà troppo crudele. La stessa bambina che ogni notte piangeva nel suo letto, da sola, abbracciata all'unico ricordo di sua madre, un orsacchiotto che le aveva regalato appena nata e che da quel giorno sul tetto divenne la sua unica ragione per sorridere.

Ancora oggi quell'orsacchiotto è l'unica cosa che mi rimane di un passato troppo lontano per esser ricordato. Quel passato che posso vedere solo in foto, dove ancora tutto andava bene e dove la morte era solo un'idea, è stato sostituito da dei ricordi che fanno male come dei coltelli affilati.

La campanella suona, l'ennesima giornata scolastica è finita, l'ennesimo giorno in cui neanche un fantasma si è reso conto della mia presenza.

Dovrei esserci abituata, eppure fa sempre così male la consapevolezza di non essere nessuno.

****

Come tutte le notti da molti, troppi, anni, mi sono svegliata madida di sudore, dopo aver fatto l'ennesimo incubo, e consapevole che non riuscirò ad addormentarmi di nuovo.

A volte penso, anzi lo faccio tutte le notti, ma in particolare ci sono momenti in cui provo a cercare la motivazione per cui la vita abbia deciso di farmi provare tutto questo dolore, non penso di essere stata una così cattiva persona nella vita mia precedente. Vorrei tanto sapere cos'ho fatto di male, non credo di aver mai ucciso qualcuno e se fosse così, chiederei mille volte scusa, farei qualsiasi cosa che possa servire per non dover vivere così, bloccata in un dolore lacerante che occupa e affoga tutta la mia anima. Un dolore che ormai ha messo le radici nella mia anima e l'ha infettata fino a non lasciare un solo squarcio sano.

Un dolore che non mi lascia dormire la notte e che è legato a tutti i miei ricordi.

Dovrei ricordare quanto era bello andare al parco, invece ricordo di un padre che giorno dopo giorno ha perso la luce che aveva nello sguardo, ricordo le sue lacrime nella notte, quand'era convinto che io stessi dormendo profondamente ed invece ero proprio dietro la porta. Lo sentivo singhiozzare e cercare di fare silenzio per non svegliarmi, non sapendo che anch'io come lui non riuscivo a chiudere occhio a causa dei troppi ricordi. Ero lì e l'unica cosa che volevo fare era entrare e dimostrare a mio padre che non era solo, che ero con lui, ma la paura di sentirmi dire che era colpa mia mi bloccava sempre, così finivo per tornare nella mia cameretta ad aspettare che la notte passasse.

Poi, alla mattina lui fingeva di aver dormito e facevo lo stesso, anche se sapevo che in realtà voleva solo rinchiudersi in camera.

Ad oggi, gli anni sono passati, eppure lui continua a faticare ad andare avanti, sempre più spesso lo trovo a vedere le vecchie foto, inoltre ha sempre più occhiaie, probabilmente anche in questo momento, mentre io guardo le stelle, lui è in camera sua a riguardare le loro foto, per l'ennesima volta.

Perché noi ormai siamo questo. Una famiglia troppo distrutta e lacerata dal dolore per poter tornare a quella che solitamente viene considerata normalità.

Questa è la nostra routine, sembriamo a malapena due sconosciuti, ma lui è mio padre, dovrebbe essere una delle persone a cui io dovrei volere più bene, dovrebbe preoccuparsi per me. Invece, a malapena si ricorda della mia esistenza.

A volte penso che lui mi odi, che faccia di tutto per dimenticarsi di me, che mi reputi l'assassina del suo unico vero amore, ma poi i nostri sguardi di incrociano e io so che nonostante tutto il dolore che potremo mai provare, lui rimarrà mio padre e io sua figlia, la sua unica ancora, l'unico ricordo che ha di lei.

****

Ora, eccomi qui, a scuola, durante l'ora di letteratura. Forse l'unica materia che io veramente non sopporto, non perché sia brutta, ma semplicemente perché la professoressa che la insegna non è capace di insegnarla. Rende noiosa anche la più bella poesia, rende banale anche il più profondo concetto.

Non dà alla materia la giusta importanza, non trasmette neanche un briciolo di passione e il risultato si vede. Nessuno la ascolta davvero.

Si sente una risatina nel silenzio e mi viene spontaneo sorridere.

«Ragazzi io proprio non capisco, la letteratura è così bella, com'è possibile che a nessuno interessi veramente? Perché nessuno si appassiona a questa materia così affascinante? È molto frustrante per me fare lezione in una classe in cui nessuno mi ascolta o mi dà la sua attenzione. Perché io sono comunque pagata anche se voi non lavorate, ma a me dispiace, perché mi interessa di voi. Perché questo non è il motivo per cui ho scelto questo lavoro. Io ho voluto dedicare la mia vita a quelle che per voi sono solo vecchie poesie perché ho sempre pensato che la letteratura sia bellissima e degna di essere spiegata come merita.

Per questi motivi io non voglio che voi sappiate soltanto due informazioni, imparate a memoria, su un qualsiasi autore.

Io vorrei che voi sentiste la passione che ci vuole per comporre quelle vecchie poesie un po' impolverate. Io vorrei che sentiste le emozioni che vi trasmette ascoltare queste opere, che poi siano o meno quelle che voleva trasmettere l'autore, quello non è importante.

Perché il bello della letteratura è proprio questo, il suo significato cambia da persona a persona, quello che trasmette non è universale.

Perché la letteratura è una continua scoperta, di emozioni e di vite belle o brutte che siano.»

Silenzio tombale.

«Penso che il problema sia che la sua passione, quella che ha appena raccontato con enfasi, a noi non arriva. Sono d'accordo con lei, la letteratura è davvero bella e non si ferma alla vita di qualche autore. Però, tutto questo quando lei spiega, noi non lo sentiamo. Se mettesse anche solo la metà della passione che ci ha messo per fare questo discorso, tante delle persone qui dentro non vedrebbero l'ora di entrare in questa classe. Perché siamo adolescenti e siamo alla continua scoperta del mondo o di qualcosa che ci affascini. Abbiamo bisogno di qualcosa che ci colpisca, perché cerchiamo questo tutto il tempo.

La sua materia ha questo potere, ma quando la spiega lei, a noi non arriva. Con questo non voglio dire che lei non sia una brava insegnante, ma solo che forse se ci mettesse un po' di sentimento in più, tutto andrebbe meglio.»

Finalmente ho detto quello che volevo dirle da mesi, mi sono tolta un peso.

«Sono felice che qualcuno abbia avuto il coraggio di dirmi che effettivamente c'è qualcosa che non va nelle mie lezioni. Ovviamente mi dispiace che a voi arrivi questo e farò di tutto per trasmettervi, questa volta seriamente, la passione con cui sono cresciuta, nonché la stessa che mi ha tenuto compagnia nei momenti peggiori della mia vita.

A voi auguro con tutto il mio cuore di trovare qualcosa o qualcuno che vi faccia vivere quello che ho vissuto io con la letteratura.»

Mi sono sbagliata. Ho sempre pensato che fosse una donna totalmente disinteressata a noi e ai nostri sentimenti, invece, semplicemente, non riusciva a dimostrare quanto in realtà ci tenesse, o almeno tiene al fatto di farci apprezzare la sua materia.

****

La campanella suona e l'ora finisce. È stata intensa, anche se a livello didattico non abbiamo fatto nulla, perché abbiamo preferito discutere su come si potrebbero migliorare le lezioni.

Sono rimasta stupita dalla disponibilità della professoressa ad ascoltarci e capirci. Se penso che fino a poco più di un'ora fa ero convinta che fosse totalmente diversa. Perché non importa quanto gentili le persone possano essere, alla fine ci basiamo tutti sulle apparenze ed è brutto da ammettere. Io ho sempre cercato di non cascarci, di non giudicare il libro dalla copertina, ma alla fine ci sono cascata anch'io.

Il brutto è che siamo talmente tanto abituati a farlo, giudicare, che ormai non ce ne rendiamo neanche conto ed è una cosa molto triste.

****

Torno a casa e trovo mio padre seduto sulla sua poltrona a guardare il vuoto. A volte mi chiedo se sia ancora capace di pensare, è da quando è morta lei, che passa tutte le sue giornate lì. Quand'ero piccola ci pensava la migliore amica di mamma, che per me è come una zia, a portarmi al parco, a non farmi pesare la sua morte. Mio padre da quel giorno sembra su un altro pianeta. In molti mi hanno detto di farlo ricoverare da qualche parte, ma è pur sempre l'unico vero parente che mi rimane, il pensiero di dover andare a trovarlo in ospedale mi terrorizza. Fin quando, sarà capace di viver da solo, senza abbandonarsi del tutto, lui rimarrà qui.

«Ehi papà, com'è andata la giornata? Spero bene. Io mi sono annoiata molto ma è anche successa una cosa che non mi aspettavo. Sai quella professoressa che ti ho sempre detto di odiare, l'unica che non ho mai sopportato, ecco oggi abbiamo avuto una specie di dibattito, nulla di grave, ed ho scoperto che lei ama veramente tanto il suo lavoro, ma non riusciva a dimostrarlo ed io ho conosciuto una parte di lei che non credevo esistesse.»

«Questa notte sei uscita ancora vero?»

«In realtà no, sono rimasta ad osservare la vecchia quercia in giardino e ho contato le stelle.»

«Anche lei faceva così, non capivo cosa ci trovasse in quelle stelle, per me erano solo banali lucine, invece tua madre pensava che dietro ad ognuna di esse ci fosse un'anima o, meglio, pensava che ci fosse l'anima di qualcuno che, morendo, aveva dimenticato qualcosa in sospeso. Così, poteva osservare dall'alto tutte le persone che aveva lasciato.

Mi diceva sempre che, se fosse morta prima lei, io avrei dovuto cercarla nelle stelle, ma io ho non ci davo molto peso, davo per scontato che lei non sarebbe morta prima di me, semplicemente perché non riuscivo ad immaginare il mondo senza di lei, senza la sua risata.

Per i primi giorni dopo la sua morte, non ho realizzato quello che era successo. Cercavo la sua faccia, speravo di sentire la sua risata o di vederla comparire da qualche parte, facendomi capire che era tutto uno scherzo.

Poi, un mese dopo la sua morte tu arrivasti da me e mi feci una domanda a cui non detti risposta. Mi chiedesti quale fosse il mio più gran rimpianto.

Non capii come fosse possibile che una bambina di soli cinque anni riuscisse a farmi una domanda così complicata, così introspettiva.

Non mi resi conto di quanto male ti avesse fatto la sua morte, o di come ti avesse costretta ad entrare in un mondo che non avrebbe dovuto essere il tuo.

Non potevo capirlo, perché io per primo non l'avevo realizzato, eppure tu l'avevi fatto. Eri solo una bambina ma avevi già capito tutto, fu quel giorno quello in cui capii che era uno scherzo, lei non sarebbe mai tornata.

Ti avevo guardata negli occhi e ci avevo trovato dentro la consapevolezza che quella era la realtà, non un sogno.»

Finito di parlare, torna ad osservare il muro.

Ogni giorno dentro di me cresce un'altra consapevolezza.

Mia madre l'ha distrutto, non tornerà più il mio eroe che mi faceva giocare. Il dolore per la sua morte l'ha lacerato dall'interno ed ormai della persona che conoscevo non esite più nulla.

L'ha amata come mai nessun altro prima d'ora, lei gli ha fatto toccare il cielo con le dita, ma poi l'ha anche fatto precipitare nelle tenebre più buie.

Nonostante lei fosse mia madre, a volte mi trovo a pensare che sarebbe stato meglio se loro non si fossero conosciuti ed amati.

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