Capitolo ottavo
Quando quella sera si distese sul letto, James si sentì completo. Era come se dopo tanto tempo una piccola fiamma i fosse riaccesa dentro di lui. Per ora era solo un fiammifero ma c'era tempo. La conversazione con Scorpius l'aveva lasciato scosso, e allo stesso tempo un poco rivitalizzato. Ma tutto questo non durò a lungo, già la mattina successiva, quando la sveglia iniziò a vibrare sotto il suo cuscino, era tornato il James di sempre. Mentre si buttava dell'acqua gelida sulla faccia e si vestiva per il suo allenamento privato, stava già indossando l'armatura per la sua guerra. Il pomeriggio precedente era stato talmente facile togliersela e poggiarla su una sedia mentre chiacchierava con Scorpius, che quasi non se ne era reso conto. Ma serviva più pratica per non rindossarla con la stessa velocità con cui ce ne si era liberati. Era una mattina serena quanto meno. Serena e per questo gelida. Il cielo era ancora buio, ma lui non se curò più di tanto. Fece il solito riscaldamento a terra e poi finalmente salì sulla scopa. Ma fin dalla prima spinta da terra, sentì che c'era qualcosa che non andava. Fece qualche giro di campo senza acquistare troppa velocità, ma quella sensazione persisteva. Era come se non sentisse la scopa sotto di lui. Questo si ripercuoteva terribilmente sul suo volo che risultava totalmente inconsistente. Probabilmente se avesse aumentato un poco il ritmo sarebbe caduto.
"Fanculo James" ringhiò a se stesso "Tu ora voli e provi quei dannati tuffi e scarti senza tante storie. Che non ci crede nessuno che non ti senti a tuo agio su un manico di scopa" sputò di lato per il disprezzo, la rabbia scorreva nelle sue vene "Vola e sta zitto, coglione che non sei altro"
Fece qualche respiro profondo e annuì un paio di volte. Non era abituato a provare quelle sensazioni mentre volava. Aveva sempre pensato che quello sport fosse ciò in cui riusciva meglio, e accettare di non poter essere al 100% tutte le volte, era difficile. Lui, James, voleva essere perfetto Sempre. Si diede una forte spinta da terra e volava già alto. Due, cinque, dieci metri da terra. Iniziò a puntare sempre più in alto mentre cambiava direzione di colpo, prima di tuffarsi giù fino a un paio di metri dal terreno ancora fangoso per la pioggia del giorno prima. Le sensazioni erano sempre le stesse, ma questa volta non permise che lo sfiorassero. Prima di liberare il boccino per quella che era la parte conclusiva del suo allenamento, si decise ad affrontare quella serie che aveva volutamente saltato fino a quel momento. Si trattava di ripetere gli stessi esercizi di prima, quindi inversioni a u, tuffi e cambi di ritmo e di altitudine, con una mano sola e l'altra stesa in avanti. Era la simulazione dei momenti in cui bisogna staccare la mano dal manico per prendere il boccino. Da un paio di anni quell'esercizio era stato il suo asso nella manica. Non lo faceva nessun'altro perché pensavano fosse troppo pericoloso a quelle altezze. A lui invece aveva procurato quel volo solido e vincente che lo contraddistingueva. Ma quella mattina non sentiva di avere l'equilibrio e il controllo della scopa necessario per farlo. Se ne fregò. Acquisì ancora quota prima di staccare il braccio destro e tenderlo in avanti. Fin da subito le cose si misero male. La scopa vibrava leggermente e lui sopra. Ma in un moto di rabbia invece di stringere maggiormente la presa della mano sinistra, serrò la destra come se fosse lei quella che conduceva il manico. L'aria gelida gli sferzava in faccia. Sotto di lui la scopa tremava sempre più violentemente, quasi fuori dal suo controllo. Lui, che era nato su un manico di scopa, sembrava un novellino alla sua prima lezione di volo. Ogni volta che cambiava direzione era come ricevere uno schiaffo. Faceva male. Faceva male la mano troppo serrata, il freddo che gli mangiava la pelle e le lacrime sulle guance. Come un ragazzino che viene picchiato da una banda di bulli, chiuse gli occhi come per scacciare via la realtà. Bastò un attimo, la mano sinistra scivolò troppo in avanti sul manico facendolo inclinare verso il basso e si ritrovò a scivolare nell'aria in posizione quasi verticale. Spalancò gli occhi e per la prima volta da quando a un anno era salito sulla sua prima scopa ebbe paura di cadere. Il terreno si avvicinava sempre di più e lui non capiva, non capiva come fosse potuto succedere. La mano stesa avanti ora sembra più che altro una muta richiesta d'aiuto. Spalancò la bocca come per urlare, ma non lo fece. Era totalmente fuori controllo. Non voleva vedere. Chiuse di nuovo gli occhi. Andava veloce, lo sentiva dall'aria che sfrecciava di fianco alle sue orecchie. Non riusciva a fare nulla, era bloccato in trance. Si aggrappò disperatamente alla scopa con la mano sinistra. E pregò. Forse fu il suo istinto o l'abitudine a raddrizzare un poco la scopa a un paio di metri dal suolo. Cadde su un fianco rotolando poi per qualche metro prima di fermarsi. Solo allora James aprì gli occhi e guardò l'alba che faceva capolino da dietro le tribune. La spalla su cui era atterrato vibrava di dolore. E James pianse. Pianse e urlò fino a non avere più lacrime ne voce. Allora si tirò in ginocchio e iniziò a tirare pugni al terreno e a tirarsi i capelli, sporcandoli di fango. Grosse lacrime gli solcavano le guance e nel petto un peso sembrava impedirgli anche di respirare. I suoi occhi non vedevano il sangue, che andava a sporcare la brina sottile, né riusciva a metabolizzare il dolore che si stava provocando. Per la prima volta in vita sua aveva perso il controllo della scopa ed era caduto. Lui, il dorato ragazzo volante, promessa del Quidditch britannico, era caduto. Davanti a questo, tutto il resto passava in secondo piano. I suoi occhi vedevano dei colori, rosso, marrone, rosa e azzurro, senza riuscire però a mettere a fuoco le immagine. Ormai le sue ginocchia avevano scavato profonde buche nel terreno e il fango sgusciava tra le dita della mano sinistra, quella su cui si reggeva. Ma il suo dolore e la sua delusione rabbiosa sembravano senza fondo, e conseguentemente anche la sua lotta contro il suolo del campo da Quidditch lo era. Solo quando perse completamente la sensibilità nella mano, ricadde in dietro a sedere, e guardo nuovamente in su. Un'ultima lacrima scivolò sulla sua guancia. La sua scopa era sospesa in aria a un paio di metri da lui, pronta per essere cavalcata di nuovo. La rimase a guardare, chiedendosi perché proprio il suo corpo l'aveva tradito. Ma sotto il rosa e l'azzurro dell'alba non trovò risposta.
Dopo quelli che avrebbero potuto essere secoli si alzò e afferrò nuovamente la sua scopa. Avrebbe voluto lasciarla lì, non vederla più, questo sembrava suggerirgli il rigetto che provava nei suoi confronti in quel momento, ma una sorta di necessità inconscia e innata lo obbligò a trascinarsela dietro fino a gli spogliatoi, dove la gettò su una panca. Con una lentezza esasperante si tolse i vestiti infangati e camminò verso le docce. Ne aprì una a caso, senza curarsi che fosse quella che lui usava sempre. Il getto bollente trascinò via dalla pelle il fango e il sangue. Quando provò a tirare su la mano destra per passarsela tra i capelli e pulirli una fitta di dolore così forte da fargli tremare le gambe, lo obbligò a guardarla. Anche se non aveva gli occhiali, era una vista raccapricciante. Sangue continuava a cadere a terra, ma non capiva dove fosse la ferita. Non riusciva a spiegare come, ma la sua mano era diversa. Come se ci fossero delle ossa dove non avrebbero dovuto essere. Si poggiò al muro e riversò la testa all'indietro. Poi lentamente scivolò a terra mentre qualche nuova lacrima si confondeva con l'acqua della doccia. Il suo corpo era un fottuto disertore della battaglia che avrebbero dovuto combattere insieme.
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