Kamikaze

C'è una bomba davanti la porta.

Tic, tac, tic, tac.

Mi guardi e qualcosa dentro di me smette di funzionare. Un corto circuito, un arresto del sistema. Black out. Perdo un battito o forse due o forse dieci. La mia morte e la mia rinascita contemporaneamente, al sapore di cliché.

Non ho mai davvero vissuto, ora lo so, non fino a che non sono entrata nei tuoi occhi e tu non sei entrato nei miei. Ho deliberatamente sancito così la mia fine, perfettamente consapevole che non sarò mai più capace di guardare il mondo allo stesso modo, perché in tutto quello su cui poserei lo sguardo, prima di ogni cosa, io vedrei te.

«Come ci riesci?»

«A fare cosa?»

«A guardarmi come mi stai guardando adesso.»

C'è una bomba davanti la porta.

Tic, tac, tic, tac.

La raccolgo, la porto all'orecchio come fosse una conchiglia in cui rannicchiarmi, fossile che canta la canzone del mare.

«Il kamikaze.» penso, dico, ansimo. Deglutisco, spingo più giù la scintilla che risale lungo la trachea, pigiandola nello stomaco tra un White Lady e succhi gastrici, poi mi fermo a sentirmi la vita tra le dita. «Vieni a fare il kamikaze da me, vieni a farti esplodere.»

Sorridi, Amaro Tormento, premi ancora di più l'ordigno contro il mio timpano. Brividi ardenti, tremiti caldi; ti stringi forte a me, hai l'aria di chi è pronto a immolare ogni stilla di lucidità rimasta, come piccoli agnelli sacrificali su un altare immorale.

Dimmi di no.
Negalo, fino alla fine.
Urlalo, che è un gioco folle.

Ma, invece, tu la fai detonare.

Mayday, mayday.

Latte e vino rosso esplodono.
Schizzano dappertutto e non si riesce a separarli, non si riesce a distinguerli perché ormai sono uno dentro l'altro, come noi che spingiamo e ansimiamo e non abbiamo più un contorno. Non abbiamo più i bordi.

Diventiamo coriandoli, cuori ustionati, una crepa sul polmone sinistro e tu sei di un bello isterico. Le mie vene sono abituate a riconoscerti ancor prima che possa farlo il cervello, come se avessero il tuo sangue dentro, uno zero positivo che stride col mio gruppo sanguigno e mi scortica dall'interno mentre entrambi sono in circolo nel mio organismo. Si mischiano, si fondono, scopano.

Boom.

E poi mi sorridi, così, dal nulla, dal tutto, come se il sole non fosse abbastanza per oggi. Sento il brusio incessante delle loro voci, quelle degli altri, degli etero-composti estratti suburbani. Le sento intorno a me e non riesco a strappare loro il giudizio, a lasciarle cadere nel silenzio dei tuoi respiri. Quelli in cui potrei davvero riconoscermi, quelli per cui potrei abbandonare questo equilibrio che consuma, che prima ti maschera e poi vuole anche che tu rida.

Sai che sentirsi diverso è una condanna per chi, alla fine, si scopre uguale a tutti gli altri. E tu, che l'hai capito da ogni cosa che ti è mancata, hai sempre guardato il cielo per dispetto; sulle ali degli aerei ci lanciavi sopra sogni che sentivi di non meritare. Dici "perché spesso rovino le cose", ma non posso credere che non lo sai che hai gli occhi di chi ha visto le sette meraviglie del mondo e ora in ogni sguardo nasconde il vaso di Pandora.

«Sei sotto la mia pelle.» dico, confesso, tremo.

Riduttivo, perché in realtà ti sento nell'aorta, nella colonna vertebrale, sotto la scatola cranica, algebrico. Mi sento le ossa far violenza sulla mia forza di volontà per raggiungerti, per ritrovarti, per tenerti.

Non lo faccio ancora, però.
Poi c'è il vuoto.

E l'insicurezza e la paura.
Deluderti, forse l'unica cosa peggiore di perderti.

Cos'è una bomba lasciata davanti la porta, al confronto?

Quando mi parli, spesso, mi fermo a sentirmi la vita fra le dita. I polpastrelli bruciano, vanno a fuoco, il respiro prende forma, ciglia si fanno neve.

«Ma se non c'è nient'altro al mondo che ti dà quell'emozione,» chiedo, urlo, mi spezzo, «allora che si fa? Che si fa?»

Mi baci i palmi, mi annaffi di buoni propositi e pessime intenzioni. Dipingi di rosso i garofani emaciati, ormai appassiti, nel mio ventre, rinnovi la loro fragranza, ne crei una tutta nuova, tutta tua, fresca e viva e palpitante. Come piace a te.

Voglio sentirtelo addosso quell'odore. Voglio inebriarmene col naso affondato tra il tuo collo e la spalla, lì, un posto di due centimetri cubi, unico in tutto il mondo. L'emozione del primo uomo sulla luna impallidirà al confronto della mia a tenerti davanti al viso, a respirarti.

Sei un campo minato, e lo so che ora sorridi, che sei sempre tu quello che si è sentito a passeggio tra mine inesplose. Lo so, lo sento. Ennesima contraddizione che ci compone. Ma tu sei un campo minato che voglio mappare, scoprire quali passi fare per continuare a sentirti adrenalina senza trovarmi il cervello a insudiciare l'asfalto.

O forse sì. Anche sì.
Ne varrebbe comunque la pena.

Qui tutto sembra un paradosso e io gioco sempre a salta fosso...

Torno indietro a salutarti, polvere da sparo sul palato, ingoio. Bacio quel pezzo enorme di me che ho lasciato fra i tuoi denti, sulla tua lingua, sotto le gengive. Labbra più cancerogene della sigaretta che mi infilo in bocca e tu lo sai, lo sappiamo entrambi, ma va bene così.

Siamo a sessantanove millimetri da una mina non esplosa. Tu ci credi nella numerologia, amore?

Fra sessantanove millimetri saltiamo in aria e tu stiri un sorriso dei tuoi e mi chiedi quanto ci costerà questo bacio.

«Non lo so.» rispondo, boccheggio, ti provoco. «Ma tu mi metti sete.»

Abbassi lo sguardo svelando un mezzo sorriso carico di insicurezza, strappo di luce, argento vivo tornato al suo antico splendore. E allora capisco: proprio come il metallo prezioso, che è stabile nell'aria pura ma scurisce quando è esposto all'ozono, anche tu finisci sempre con il confonderti tra le cose vissute, in un tempo che è riuscito a cambiarti, ad avvolgerti tra le ombre di esperienze che fanno male e lasciano il segno, a nasconderti persino da te stesso, come un cielo cinereo che, per proteggere il sole gli volta le spalle, piovendo in solitudine tutta la sua malinconia.

E, si sa, una pelle d'argento può tornare a brillare solo tra mani che non hanno paura di macchiarsi dei resti di un passato che aspetta solo di essere lavato via.

«Ti porto a ubriacarti, allora.»

Nulla è più erotico di chi sa mettere le mani nei tuoi pensieri.

Mi fermo un attimo a sentirmi la vita fra le dita.

Poi ti seguo.

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