Insegnami cose di me che non so.

«Ci sono tante cose che non sai di te. Mi piacerebbe insegnartele.»

Quieta e ubbidiente come non lo sono con nessun altro - nessuna finzione, non con te - mi rannicchio sulla poltrona e mi accendo una sigaretta con il timore che, tornata a casa, si possa sentire l'odore di fumo e di te sui miei vestiti, sui capelli, sulla pelle.

Il timore mi avvolge come uno scialle, ma io mi sono fatta una vita a misura di timore. La mia intera persona è un patchwork di vari tipi diversi di timore, alcuni piccoli, altri grandi, colorati, fantasia, tinta unita. Scarti di paure pregresse e scampoli di ansie future.

Quando sono con te sento che tutto ciò è stupido. Tu lo dipingi così.

Non sminuisci nulla, però, non mi dici che è tutto immotivato. Semplicemente mi fai notare in silenzio quanto poco le cose stupide c'entrino con me. Con noi.

Guardi i miei timori come fossero insignificanti, ma non li deridi, né li disprezzi. Li guardi con curiosità o con compassione, a seconda di come ti va la giornata forse, ma sempre, sempre assumi quell'aria di chi è disposto a prendersi carico di complicatissimi ingranaggi inceppati e aggiustare il meccanismo.

Ed è questa la sfumatura che assumono i tuoi occhi adesso che incontrano i miei attraverso lo specchio.

Ti giri verso di me, hai capito che io a discapito dell'età anagrafica probabilmente non ne so proprio niente della vita, ma che l'unica cosa che so è che voglio che tu mi prenda su questa poltrona, adesso, forte, senza nemmeno spogliarmi. Lo hai capito, si vede da come tendi il sorriso, da come mi passi il pollice sulle labbra e mi posi un bacio sulla fronte, guardandomi in quel modo solo tuo, che scambio sempre per compassione, ma che forse è qualcos'altro. Forse è puro e sincero interesse antropologico, ché non riesco proprio a capacitarmi - non ancora, forse mai - che una connessione come la nostra esista davvero al di fuori dei libri e dei film d'amore. È una forza troppo potente, mi atterrisce, mi fa timore.

L'ennesimo, sì.
Ma non voglio che tu svanisca.

Insegnarmi quello che non so di me.
Ho bisogno di essere ammaestrata su questo, anche se forse non era quello che volevi, qualcuno da ammaestrare.
E un po' me ne vergogno.

La vergogna la nascondo tutta nella foga con cui mi avvento sulle tue labbra, nella fretta con cui provo a svestirti. Sorridi sulla mia bocca e mi guardi di sottecchi, quasi intenerito dal mio goffo tentativo di non apparire piccola ai tuoi occhi. Sono piccola quando inizio a litigare con la fibbia della tua cintura, imprecando tra i denti e facendo l'ennesimo volo pindarico con la mente - c'è un girone infernale per chi ha inventato questo accessorio, solo che Dante non lo ha messo solo per non risultare troppo futuristico.

Il suono di una risata che ti sfugge dalle labbra mi costringe ad alzare lo sguardo su di te. Sei intenerito. E questo forse mi darebbe fastidio se non fossi tu.

Ma a te perdono tutto, unico ad avere il potere di vedermi davvero. Con te posso anche mostrarmi piccola. E comunque mi vedresti per ciò che sono anche se non lo volessi, perciò ti perdono, non potrei fare altrimenti. Anzi, spesso sono io a chiederti di perdonarmi per aver anche solo pensato di incolparti di qualcosa.

«Mi metti su un piedistallo.» soffi, gli occhi chiusi e la testa leggermente inclinata per consentirmi di vezzeggiarti il collo più agevolmente. «Ti dico che voglio insegnarti cose che non sai di te e non ti opponi, non punti i piedi, non mi contraddici. Non è sano.»

«Te l'ho detto, mi piacciono le cose malsane.» ammetto candidamente, la lingua ti carezza la giugulare. Chissà cosa succede se provo a mordere, proprio qui. «Nemmeno io, nemmeno noi siamo sani.»

Non ti mostri preoccupato per queste mie affermazioni, né reagisci con l'ilarità che si concede ai bambini quando esagerano nel favoleggiare. No. Quello che ottengo è solo il suono nitido degli ingranaggi che si muovono nella tua scatola cranica, in quel affascinante processo di registrazione, metabolizzazione ed elaborazione dell'informazione. Una cosa che ho sempre ritenuto ordinaria, banale, prima di conoscerti, prima di sapere che al mondo esiste chi è capace di produrre output così straordinari.

Tu scavi. Vai oltre.
Oltre la superficie di vetro temperato. Oltre il significato stesso delle parole, anche quelle che non ti piacciono. Oltre, tu guardi.

E mi trovi.

Tana per me.

Perdo sempre a questo gioco contro di te. Io che ero campionessa olimpionica di rimpiattini mentali e sbalzi di sentimenti, mi trovo stanata, nessun nascondiglio che tenga, neppure il più recondito.

Come fai? - mi verrebbe da chiederti - Insegnami, ti prego. 

Ma taccio. Ho cose più importanti da fare che parlare, tipo baciarti, tipo aprirmi le costole a mani nude, afferrarmi il cuore per fartelo vedere e offrirtelo, come avrei potuto fare con una mela a Biancaneve.

Mangiami, vorrei dirti, bevimi.

Mi struscio addosso a te in maniera vergognosa e ti piace - oh, se ti piace - ma niente: le rotelline non smettono di girare e girare e girare e fanno rumore. Che siano pensieri sui massimi sistemi, su cospirazioni dei moti karmici o se semplicemente mi stai mettendo su una bilancia, non mi è dato sapere.

Dove penderebbe? In fondo io sono solo un punto grigio pericolosissimo in cui l'innocuità sfuma in innocenza: e sai meglio di me quanto è irresistibile. Forse stai pensando a questo. Forse stai pensando a quanto è perfetto tutto così, con me, senza una vita da costruire, una madre o un prozio Lombardo da dover conoscere; nessuna spesa da dover fare il sabato pomeriggio, né tonalità di grigio tra cinquanta tra cui dover scegliere per la nostra camera da letto.

Fai quello che sai fare meglio, ascoltare le mie paturnie e farmi godere quando ne abbiamo voglia (cioè sempre).

Sono ingarbugliata nelle lenzuola di un albergo che ci fa da casa estemporanea e la città, che è come noi, ronza frenetica oltre le tende chiuse. Fa un casino infernale, ma, a sentirlo con te accanto, è un casino composto da Gershwin.

Sto fumando una sigaretta mentre tu leggi, di fianco a me. Stai leggendo uno dei tuoi soliti libri impegnati; ti chiederò di spiegarmelo, più tardi e tu me lo infilerai in borsa di nascosto prima di andare via perché sai che finirei per compralo altrimenti.

Più tardi, quando succederà, quando sarò senza di te in un posto che già solo per questo è sempre più difficile chiamare "casa", mi rigirerò questo libro tra le mani, provando ad autoconvincermi che la nostra percosìdire relazione funziona proprio perché ognuno fa quello che vuole, quando vuole, senza preoccuparsi di quello che sta facendo l'altro. Siamo l'opposto della co-dipendenza: siamo il suo estremo, delicatissimo e fatale rovescio.

Provo a identificarti con una parola sola e il tuo nome diventa subito il sinonimo enciclopedico di libertà. Quella di cui siamo assuefatti entrambi, anche se per motivi diversi: tu perché sei fatto della sua stessa sostanza, io perché non posso più fare a meno di te.

Abbassi il libro, a un certo punto. Forse hai sentito qualcosa, un rumore proveniente dalla stanza a fianco, o solo la signora delle pulizie che trascina pigramente il carrello aldilà della porta. Non lo so, ma mi guardi. Mi guardi e cerchi di capire che ore sono, come se la mia faccia fosse un gigantesco orologio su cui puoi vedere lo scorrere del tempo – non so se il mio, il tuo, quello di tutti.

Sei spaesato. 

«Sono le quattro.» ti informo, coprendomi un po' col lenzuolo. Pudore infantile, ma che te lo dico a fare: già lo sai. «Tra mezz'ora ho il treno per tornare a casa.»

I tuoi occhi mi squadrano sommariamente.
Annuisci.
Torni alla tua lettura come se ti fosse rimasto il rigo da finire ancora in sospeso.

«Ti accompagno alla stazione.» sospiri, poco dopo, chiudendolo.

«Grazie.»

Mi fissi ancora, nel silenzio.
«È troppo tardi.» dici subito dopo, meditando.

«Non posso rimanere a dormire.» dico io, e mi sento così orgogliosa e ligia al dovere per questa fermezza d'animo, per non piegarmi ai miei stessi desideri.

«Non intendevo quello.» rispondi tu, e io sento che si è aperto un buco a forma di me nel materasso, e che vi sto precipitando.

Una fitta più forte delle altre mi notifica che il cervello ha rincasato. Si rimbocca le meningi fino al naso e mi fa provare un imbarazzo assoluto, vergognoso.

Che scema.
Non intendeva quello.

«Chi ti viene a prendere alla fermata?»

Ti rispondo che viene Lui.

«Okay. Vestiti.»
Io obbedisco, pur con il cuore che è sprofondato così tanto che mi si è spostato il baricentro, cercando di non sembrare una bambina che fa i capricci mentre mi sfilo delicatamente dalla tua presa.

Mi prendi il mento tra due dita.
Mi baci.
Chiudo gli occhi.
Latte di mandorla.
Riapro gli occhi.
Stai sorridendo.

«Potresti essere un pochino geloso?» ti dico sottovoce. «Almeno provarci.»

«Geloso per cosa?»

Sbuffo, ma sorrido. Ti guardo in modo eloquente. Ti guardo così intensamente che a un certo punto devo distogliere lo sguardo; sei troppo da assimilare, e io non ho ancora imparato a prenderti a piccole dosi. È impossibile, per me.

«Bionda.» suona quasi come un rimprovero. Tu mi chiami così e basta, però lo dici sempre con la lettera maiuscola – e sì, si sente che la pensi ogni volta, la maiuscola, la vedo vibrare tra le tue labbra per una frazione di secondo, e mi provoca una serie di terremoti tra il cuore e l'ombelico.

Dici solo il mio nome, rimprovero al sapore di zucchero. Dentro ci sento un non è tempo per noi e forse non lo sarà mai.

Mi accompagni al treno.

Che strani, i treni. Un rimescolio di amore e odio nello stomaco, quando li penso.

Mi pianti quegli occhi addosso in una maniera così fulminea che l'aria fischia come ferita da una lama immaginaria. Quegli occhi che ci impiegano sempre un po' a mettere a fuoco quello che sta loro davanti, tanto sono abituati ad essere nient'altro che le saracinesche della tua sottile e misteriosa attività cerebrale.

«Non ne ho diritto.»
Lo dici nell'attimo esatto in cui il mio vagone inizia a muoversi lasciandoti indietro, sulla banchina. Chissà se erano parole che intendevi regalare solo al vento; io le ho sentite, comunque.

Io da Lui ci sono tornata, alla fine.
Sono tornata con la testa bassa e un mucchietto di frammenti affilati nelle tasche, e lui non ha capito, perché non capisce mai o semplicemente sono invisibile ai suoi occhi. Continuo a lasciarmi ferire, con la rassegnazione dei martiri che osservano chi scaglia la prima pietra.

Ma tutto ciò non ha importanza, amore mio.

L'unica cosa che sento è la stessa che senti anche tu: una vita spaccata a metà, di quelle che ci sei e non ci sei. Siamo le lucine di Natale che ci piacciono tanto, intermittenti; un attimo prima ti illuminano a festa, l'attimo dopo solo buio.

E allora che importanza hanno i treni, le sere d'inverno, i rumori della città che suonano sempre una melodia diversa se ascoltata con te? Che importanza hanno i tuoi libri complicati, le tue lenzuola nere, l'odore che hanno e che vorrei mi svegliasse, seguito a ruota da un tuo bacio sulla nuca, deposto a labbra umide esattamente nel punto più vulnerabile e indifeso? Oh, quello è un bacio su cui bisognerebbe riempire trattati interi e organizzare comizi lunghi intere settimane, e che si traduce tutto in una sottile pioggia di brividi sulla mia pelle.

Che importanza hanno i tuoi sguardi sbiechi quando ti dico una cosa che non condividi assolutamente, ma che sei troppo stanco per discutere? Che importanza hanno i tuoi occhi intrisi di tenerezza quando ti racconto cose che arrossano i miei, o la sensazione delle tue mani intorno al mio volto, e il modo in cui lo reggono come se le avessi appena tuffate in un ruscello alpino per dissetarti?

È illogico.
Ma noi, la logica, la rifuggiamo.
Siamo il miele colato oltre il bordo del cucchiaino, siamo il colore con cui un bambino ha insozzato fuori le linee del disegno.

Perciò, tutto questo non ha importanza. È semplicemente vitale.

Solo, non nel modo in cui lo vorrei io.

Non è tempo per noi e forse non lo sarà mai.

Dici che io e te potremo fare l'amore anche completamente vestiti. Solo guardandoci.

Scrivo anche questa, tra le cose che mi resteranno sempre di te. E ci penso.

Il fantasma del tuo sapore ogni volta mi buca i denti, mi fa sentire improvvisamente il bisogno di prendere dell'acqua da un rubinetto e berla, pur sapendo che niente potrà darmi il sollievo della tua presenza. Mi ricopri l'interno della bocca di una patina malsana. Non mi fai bene. Non mi hai mai fatto bene.
Poi va giù, mi arriva al cuore come una zolletta che tocca il fondo di una tazza di Earl Grey, e inizia a sciogliersi, ed è allora che inizio a stare così bene, ma così bene, che quando non ci sei è un po' come morire di nostalgia di cose mai vissute, per me.

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