L'inerzia

Frammento #1: avrei vissuto la mia vita ad ascoltare la sua voce, avrei vissuto la sua voce per poter vivere la mia vita. 

L'inerzia per anestetizzare le responsabilità. 

Cos'è l'inerzia?

Una prima definizione la vede come una condizione, temporanea o abituale, d'immobilità. Uno sconcertante e totale abbandono del proprio essere è la condizione di chi vive nell'inerzia.

In fisica, invece, si definisce inerzia quella tendenza di un corpo a conservare il suo stato (che sia di quiete, di moto rettilineo uniforme o di rotazione uniforme attorno a un asse), se la risultante delle forze agenti sul corpo e la risultante dei loro momenti sono nulle. 

Ora, immaginate una persona inerte, ma non nel senso fisico del termine. Immaginate una persona che vive la propria vita, che sembra anche procedere, andare avanti, ma che, allo stesso tempo è inerte. Una persona che sembra partecipare attivamente alle situazioni che le sono intorno e che le accadono, e che, allo stesso tempo non ne prende parte e non ne modifica il corso degli eventi. Riuscite ad immaginarla? 

Matilde, sette anni fa, avrebbe prontamente risposto di sì. 

Aveva una vita perfetta, ad uno sguardo esterno. Laureata a pieni voti, un nuovo lavoro, una storia d'amore che già guardava al matrimonio e una famiglia con qualche ammaccatura, ma ancora tutta in piedi. 

Ma al suo sguardo, come appariva tutta quella linearità? Inerte. 

Sì, Matilde era sicura che la sua vita le stesse scorrendo davanti e che lei, però, non stessa facendo nulla per darle una direzione. Le sembrava di non prendere mai alcuna decisione, che gli avvenimenti le piombassero addosso e che la sua esistenza fosse solo una sequela di numerosi silenzi. Matilde taceva e acconsentiva, quando il destino o qualsiasi cosa fosse, le presentava davanti una nuova svolta. 

Così era stato con la scelta dell'università, così era stato con il primo colloquio di lavoro e cosi era anche nella sua relazione. Era tutto silenzioso, tutto era nel suo stato di quiete e procedeva in un modo rettilineo uniforme. 

Nulla riusciva a scuoterla, nemmeno i frequenti attacchi di panico che, ogni giorno, la costringevano ad abbandonare quelle che per le persone normali erano attività facili da svolgere. Matilde non usciva da sola, non andava al centro commerciale da sola, non sognava nemmeno di viaggiare in un luogo che non fosse raggiungibile in poche ore di auto. Non respirava quando era in luoghi affollati e non lo faceva nemmeno in distese aperte piene d'aria. La sua vita era in uno stato di quieta, ma il suo corpo le dava solo segnali di allarme. 

Le mani chiuse in pugni serrati, al risveglio ogni mattina, le dicevano che forse non era poi così rilassata nemmeno durante il sonno. L'elastico al polso che ogni secondo stringeva, come fosse un'ancora di salvezza o un semplice contatto con la realtà, le diceva che forse aveva bisogno di trovare un punto fermo che non aveva. Le compresse per il mal di pancia, immancabili, sempre con lei, le dicevano che qualcosa non andava. Ma lei aveva imparato a non ascoltare. 

"Mi manca l'aria perché è primavera e soffro di allergia stagionale" si ripeteva, appena il respiro cominciava a farsi più corto e i pensieri incontrollabili. 

"Fa troppo caldo, per questo mi gira la testa" era la seconda scusa più frequente, quando l'agitazione cresceva e il sudore le imperlava la fronte, procurandole capogiri intermittenti. 

"La mia vita non mi piace, ma ormai va così e non posso farci più nulla" era stata la frase che qualcuno, un pomeriggio proprio di primavera, aveva detto a Matilde, scuotendola inconsapevolmente. 

Lei si chiamava Alice, come quella del libro, aveva pensato Matilde la prima volta che le aveva parlato. Non sapeva nemmeno che faccia avesse ma il suo istinto, forse proprio come la bambina di fantasia che aveva seguito senza domande il Bianconiglio, le aveva detto di darle fiducia, di parlarle e di ascoltarla. E Alice l'aveva trascinata in quel Paese delle Meraviglie che era la sua testa. 



"Matilde! Vieni, è pronta la cena!" 

Matilde si stropiccia gli occhi e si mette seduta al centro del letto. Impiega qualche secondo per ritrovare contatto con la realtà, per capire dov'è e che anno è. Le succede sempre quando si perde nei ricordi, quando si perde in quei ricordi che sette anni prima le hanno stravolto la vita. 

"Arrivo!" urla a sua volta, verso il corridoio che porta in cucina, dove la sta aspettando sua madre. 

Prende il cellulare, incastrato tra la sua coscia e il materasso e controlla le notifiche. Cinque messaggi non letti ed una email. Legge il mittente, elimina la notifica, così come elimina la mail della banca senza neppure leggerla. 

Prende un lungo respiro e, proprio come sette anni prima, si stampa sul viso un'espressione neutra. 

"Ti sti chiamando da dieci minuti, cosa stavi facendo?" è come la accoglie sua mamma, senza nemmeno guardarla. 

Se lo facesse, noterebbe gli occhi lucidi? No, Matilde è sicura di no. Non perché sia lei poco attenta, ma perché ormai ha esperienza con la finzione, ha esperienza col celare quello che le succede dentro. 

"Stavo lavorando" risponde, sedendosi. 

Il TG annuncia le notizie del giorno, sua madre le sta raccontando qualcosa, il cellulare vibra per un nuovo messaggio e Matilde, di nuovo, è inerte. 



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