Capitolo 8

Quando Kafka riaprì gli occhi, non sapeva bene dove si trovasse. Era in una piccola e umida stanza dalle pareti di mattoni, con una debole luce al neon che illuminava il tutto. L'unico rumore che c'era, a parte il suo respiro, era quello di gocce d'acqua che ripetutamente cadevano in una piccola pozzanghera nell'angolo della stanza. Tentò di alzarsi di scatto, ma non fu una buona idea, perché una fitta di dolore alla spalla lo bloccò di colpo. Si mise lentamente seduto sulla piccola branda, il respiro affannato per la fatica. Si guardò ancora intorno, non c'erano finestre a dirgli se fosse giorno o notte, e si portò istintivamente la mano al polso, alla ricerca del cronografo, ma senza trovarlo. Improvvisamente sentì dei passi dall'altro lato della porta di legno farsi sempre più vicini, l'ansia che cresceva in lui lo convinse ad alzarsi velocemente dal letto ignorando il dolore. Si nascose dietro la parete, di fianco alla porta, in attesa che qualcuno entrasse. Come aveva previsto, la porta si aprì e Kafka non ci pensò due volte ad afferrare la figura alle spalle con un braccio attorno al collo. La figura non sembrò lottare, anzi alzò le mani in segno di resa.

- Chi diavolo sei? Dove mi trovo? - chiese il ragazzo.

- Calmo, calmo - lo rassicurò. - Sono un medico, ti ho salvato la vita. -

Kafka lo lasciò andare. - Dove sono? - chiese una seconda volta, il respiro affannato per la fatica.

L'uomo in camice lo rassicurò. - Sei in un luogo sicuro. Hai subito una brutta ferita, dovresti riposare. -

A sentire quelle parole, nella sua mente apparvero le immagini della sparatoria, di Allison ferita a morte, e di come avesse usato il cronografo per prendersi una pallottola al suo posto. 

- Devo trovare Allison. -

- Intendi Allison Turner? -

- Esattamente. Dov'è? -

- E' stata lei a portarti qui, ma come ti ho già detto, hai bisogno di riposarti. -

- Non mi interessa, voglio vederla. - Insistette.

L'uomo, che non doveva avere più di una trentina di anni, fece un lungo sospiro e annuì, voltandosi verso la porta. - Va bene, seguimi allora. Prima però ti porterò dal mio capo, non voglio averti sulla coscienza se svieni per strada, hai perso molto sangue. -

Kafka lo seguì fuori dalla piccola stanza, ogni passo un doloroso promemoria della sua recente ferita. Camminarono lungo un corridoio stretto e buio, illuminato solo da poche luci al neon che tremolavano, proiettando ombre irregolari sulle pareti di mattoni. L'aria era fredda e umida, e Kafka poteva sentire l'odore di muffa e metallo arrugginito.

Arrivati alla fine del corridoio, l'uomo in camice aprì un'altra porta. Attraversata, Kafka si ritrovò in un enorme e antico salone. Sapeva che fosse antico dalle pareti in legno e dai candelabri che pendevano dal soffitto, roba del genere a Futura non si trovava facilmente. La maggior parte dei mobili era coperta da dei teli bianchi, probabilmente per proteggerli dalla polvere, e l'intero salone era allestito come una sorta di camerata dalle brandine che ricoprivano quasi tutta la superficie della sala. Alcune erano occupate da persone che guardavano i due con circospezione mentre passavano, ma la maggior parte dei letti erano vuoti. Al centro c'era un altro uomo in camice bianco che conversava con una donna e un bambino. Quando li vide arrivare, invitò la donna ad accomodarsi ad una delle brandine e si avvicinò a Kafka. Il camice bianco, che al ragazzo ricordava quelli degli scienziati della CronoCorp, era sporco di vari agenti chimici a lui ignoti, e di sangue.

- Vedo che il paziente è già in piedi. - Disse con un sorriso amaro.

- Mi dispiace signore, ma ha insistito. - Spiegò l'altro.

- Non fa niente, lo capisco. Trovarsi in un luogo estraneo, dopo che gli hanno sparato per giunta... - poggiò una mano sulla spalla del collega. - Puoi andare Richard, me ne occupo io. -

L'uomo annuì, allontanandosi e attraversando un'altra porta. Ora c'erano solo loro due, fatta eccezione per le persone sulle brandine.

- Tu devi essere Kafka, giusto? Allison e Rico mi hanno parlato bene di te - disse mentre si voltava verso di lui. Era un uomo sulla sessantina, senza capelli, con una barba incolta e occhiali spessi. La luce del candelabro sopra le loro teste accentuava le rughe sul suo volto. - Mi chiamo Gabe, ma per gli amici sono... -

A Kafka tornò alla mente le ultime parole di Allison, prima che perdesse i sensi. - Il Santo. - Continuò lui.

L'uomo annuì con un sorriso cordiale, porgendogli la mano. Kafka la strinse, guardandolo negli occhi.

- Dove sono tutti gli altri? Com'è andato il colpo? - chiese.

- Sono da un'altra parte, il colpo è andato bene. Per quel che so, sono tutti interi fatta eccezione per te. Posso portarti da loro, sebbene credo che tu abbia ancora bisogno di riposo, ne sei uscito vivo per poco, e hai perso molto sangue. -

- Non importa, portami da loro. -

Gabe annuì, voltandosi. - Seguimi allora. - Disse incamminandosi per il grande salone.

- Che posto è questo? -

- Questo... - iniziò Gabe. - E' il Rifugio degli Esclusi. Come puoi vedere, diamo asilo a chiunque ne abbia bisogno, che tu sia un senzatetto o un rifiutato dalla società, persino se sei un ricercato. -

- Non ho mai sentito parlare di un posto simile a Futura. -

- Oh, ci credo bene, ma qui non siamo a Futura. -

- Cosa intendi? -

- Lo capirai presto - disse, avviandosi verso una porta al lato della sala. - Seguimi. -

Kafka fece come gli era stato detto, e lo seguì. Oltre la porta, si presentava una stanza tutt'altro che antica. Era piena di monitor e attrezzature elettroniche. Alcune persone erano sedute davanti ai computer, altre consultavano mappe e documenti. L'atmosfera era tesa, ma operosa.

- Aspettami qui. - Disse Gabe prima di allontanarsi. 

Kafka si guardò intorno. La stanza sembrava un vero e proprio centro operativo, con cavi che correvano ovunque e un costante ronzio di macchinari in funzione. L'uomo tornò poco dopo, con in mano un bracciale che Kafka avrebbe riconosciuto ad un chilometro di distanza. Era il cronografo. Glielo porse, e il ragazzo se lo portò subito al polso. Una volta indossato, il piccolo schermo si riattivò, mostrando il volto numerico di Morgana.

- Ben tornato, Kafka - disse l'intelligenza artificiale. - Rilevo un battito accelerato, consiglio di fare lunghi respiri per cercare di rilassarsi. -

- Mi sono preso il permesso  di fare alcune analisi su questo strumento, spero che tu possa perdonarmi - intervenne Gabe, osservando il bracciale. - Lo trovo alquanto... peculiare. -

- Grazie. - Disse lui seguendo il consiglio dell'IA e facendo un lungo respiro. Ora che gli avevano ridato il cronografo sapeva che fosse al sicuro. Si chiese quanto avessero capito delle funzionalità del bracciale nel mentre che aveva perso i sensi.

- Figurati, ora possiamo andare. -

- Dove andiamo? - chiese, guardando Gabe.

- Ti accompagnerò da Allison. - Rispose con tono rassicurante.

Kafka annuì. Abbassando lo sguardo, si rese conto solo adesso che indossasse ancora i vestiti sporchi di sangue della sparatoria, e si sentiva come se avesse attraversato un inferno e fosse appena tornato indietro. Ma ora, con il cronografo di nuovo al polso, si sentiva protetto. Seguì Gabe fuori dalla stanza dei monitor e attraverso un labirinto di corridoi bui e silenziosi fino a raggiungere una porta sul retro del Rifugio. Ciò che vide all'esterno lo lasciò senza fiato. Dinanzi a lui si estendeva una città che non aveva mai visto, fatta di palazzi decadenti e case antiche che si estendevano a perdita d'occhio. La cosa che però lo colse di più alla sprovvista non era quello, ma l'assenza del cielo. Dove infatti dovevano esserci le stelle, un'altissima cupola di ferro e cemento sorvolava il panorama.

- Benvenuto a Glebe. - Disse l'uomo, percependo la meraviglia di Kafka.

- Questa è... -

- Sì, è la parte sotterranea di Futura, o meglio la prima Futura - spiegò lui. - Qui si trovano tutti quelli che in superficie chiamano gli scarti della società, ma in realtà è una vera e propria città a parte, con le sue regole e i propri abitanti. -

- Ne ho sentito parlare nei libri di storia, ma non sapevo ci fosse ancora. -

- E invece è così - replicò lui. - Siamo stati dimenticati dall'aristocrazia della superficie, ma siamo ancora attivi, più che mai oserei dire. -

Kafka perse ancora qualche secondo ad osservare l'enorme cupola che sovrastava la città sotterranea. Un capolavoro dell'ingegneria risalente a prima della Nuova Grande Guerra, a detta dei capitoli che aveva letto nei libri scolastici, ma vederla dal vivo era tutta un'altra cosa. Fece un lungo respiro, l'aria lì era pesante a differenza di quella della superficie. Kafka si sentì sopraffatto dalla grandezza e dalla complessità di quel luogo. Era come se avesse varcato una soglia invisibile, passando da un mondo conosciuto a uno completamente nuovo e misterioso. Il peso della cupola sopra di loro lo faceva sentire oppresso, ma allo stesso tempo, c'era qualcosa di affascinante nell'essere circondato da così tanta storia e segreti.

- È incredibile... - mormorò, con gli occhi ancora fissi sulla cupola.

- Sì, lo è - confermò Gabe, osservando anch'egli la struttura imponente. - Ma non è solo la cupola che rende Glebe speciale. È la gente che vive qui, la loro resilienza e il loro spirito di comunità. Sono persone che sono state abbandonate dal mondo esterno, ma che hanno trovato un modo per sopravvivere e prosperare, almeno la maggior parte. -

Kafka si sentì colpito dalle parole di Gabe. Era facile per lui, che aveva vissuto gran parte della sua vita al di sopra della superficie, dimenticare che c'era un intero mondo sotterraneo che continuava a esistere, nascosto agli occhi della società. 

- Cosa dobbiamo fare ora? - chiese Kafka, guardando Gabe in cerca di orientamento.

- Innanzitutto, dobbiamo raggiungere Allison e gli altri. Dopo di che, potrete decidere il vostro prossimo passo. Immagino ci siano molte cose che devono essere discusse e pianificate. - Rispose, con un'espressione seria sul volto.

- Perfetto, andiamo allora. -

I due si incamminarono. Le strade della città sotterranea erano diverse da quelle a cui era abituato Kafka. In superficie primeggiava ordine, una omogeneità di grattacieli grigi e persone in giacca e cravatta che facevano avanti e indietro per le strade. Glebe era diversa, molto diversa, con le sue case in mattoni, lamiere e legno. Ad ogni angolo, c'erano bancarelle che vendevano di tutto: cibo, vestiti, e oggetti di seconda mano. Gli odori si mescolavano in una combinazione pungente di spezie, rifiuti e umidità, che ricordava quasi al ragazzo quello della cucina in cui lavorava fino a poco tempo prima. Negli angoli della strada notò dei mendicanti. Non ricordava che a Futura ci fossero persone che chiedessero l'elemosina, nemmeno tra quelle dei borghi, o che vivessero in vicoli sudici nascosti in piccole fortezze fatte di scatoloni. In alcuni punti, il pavimento era coperto di vegetazione che cresceva tra le crepe del cemento, segno che anche in quel mondo sotterraneo la natura cercava il suo spazio. Kafka vide bambini che giocavano tra le rovine di un palazzo, ridendo e urlando, la loro innocenza in contrasto con il decadimento che li circondava.

- Quanto ancora? - chiese a Gabe, che gli camminava davanti.

- Ci siamo quasi. -

Pochi minuti dopo svoltarono, e la strada si affacciò su un'enorme piazza. Era piena di bancarelle che vendevano di tutto, da cibo ad apparecchi tecnologici di ogni tipo. Kafka non aveva mai visto così tante persone radunate in un unico posto. La folla che attraversava quel luogo era persino maggiore di quella di piazza Vittoria, in superficie. Le bancarelle erano disposte in modo disordinato, e ogni venditore cercava di attirare l'attenzione dei passanti con urla e gesti plateali. Un uomo stava cucinando qualcosa che sembrava carne su un grande barbecue arrugginito, mentre una donna anziana vendeva frutta e verdura da un carretto traballante. Un giovane armeggiava con dispositivi elettronici, cercando di farli funzionare per i potenziali acquirenti.

- Che posto è mai questo? - chiese.

- Benvenuto all'Agorà, il mercato più grande di tutta Glebe. - Spiegò l'uomo, continuando a camminare.

Kafka seguì Gabe attraverso la folla, cercando di evitare i numerosi passanti. Sentiva gli occhi di molte persone su di lui, curiosi e attenti. In superficie, si sarebbe sentito a disagio sotto tanti sguardi, ma qui c'era qualcosa di diverso. Forse era la sensazione di comunità, di lotta condivisa, che rendeva quei sguardi meno ostili.

Si fermarono davanti ad un edificio dai mattoni rossi all'altro lato della piazza e con una grande scritta al neon viola che diceva "Capernum". Gabe si fermò di fronte alla porta, voltandosi verso di lui.

- Qui dentro troverai i tuoi amici. - Disse spostandosi di lato.

- Grazie, Santo. - Rispose Kafka con un po' di incertezza nella voce.

- Ti prego, chiamami pure Gabe. - 

- Va bene, Gabe. Grazie ancora. -

L'uomo annuì con un sorriso, prima di riprendere ad incamminarsi da dove era venuto. Kafka poggiò una mano sulla maniglia della porta, fece un lungo respiro e la aprì, avventurandosi all'interno del Capernum.

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