1. Un Nuovo Inizio

Vito, Baldassare, Calogerino, Giuseppe, Santina, El Nigno.

Per i Greci era Artemide la divinità della caccia, che con il suo arco argentato uccideva le sue prede senza farle soffrire, ma io sono invece convinto che tale appellativo sia più adatto a Kronos. Il tempo, detto anche "colui che ha il lascia passare". Nessuno l'ha mai fermato. E mentre la vita guida noi siamo sempre assieme a lui sul lato passeggero. L'unica differenza è che prima o poi noi scendiamo; lui no. È ossimoro di morte ma ne è la causa. Quanti morti sulla sua coscienza, e altrettante gioie a carico suo. Lo dico come se felicità e morte siano necessariamente opposti. La morte, sorella del tempo, è forse l'essere più calunniato di sempre, anche se in realtà tutto quello che fa lo fa per noi.
È impossibile una vita senza morte, e non lo intendo in senso tradizionale. Non penso si meriti la sua cattiva reputazione, e quindi penso sia tutt'altro che negativa. Per questo motivo voglio parlarvi del mio rapporto con essa, e di come l'ho conosciuta.

Baldassare

Mio nonno è la prima persona importante di cui io ricordi la morte. Avevo otto anni quando morii e, detto sinceramente, non sono sicuro di aver capito davvero cosa fosse successo. Non avevo mai avuto un gran rapporto col mio omonimo nonno paterno, e non lo vedevo spesso. Mi dispiacque ma quasi perché dovesse e non per qualcosa che provassi in maniera sincera. Eppure a quell'età la morte dovrebbe essere già stata compresa in maniera più complessa. Forse per la mancanza o la distanza, o magari per le brutte cose sul suo conto, ma sta di fatto che non piansi e non provai chissà cosa. La cosa mi colpii quanto la morte di Mike Bongiorno (avvenuta l'anno prima), e non so perché ma ricordo meglio la morte di quest'ultimo che quella di mio nonno. Lui era lì, sdraiato sul letto, con lo sguardo vitreo, poi disse qualcosa, ma non lo capii. Questo è l'ultimo ricordo che ho di lui.

Tutto ciò mi ha fatto riflettere spesso sulla mia sensibilità, e a volte mi sono quasi sentito in colpa per non aver "sofferto il giusto", come se soffrendo per la morte di qualcuno gli rendessimo giustizia. Forse ero troppo piccolo, o troppo distante, e chissà se tutto ciò ha avuto effetti su di me. Chissà se sarei la stessa persona se avessi amato mio nonno prima della sua morte. Magari sarei più sensibile, o introverso, o spaventato. Comunque non penso che la sua dipartita abbia avuto effetti su di me, a differenza di quella di mio padre.

Vito

Mi ricordo quando morii mio padre. Ho memoria di lui ma quasi metà di ciò che ricordo di lui risale a quel periodo. Mi chiamava "pagliaccio" per i miei modi di fare euforici da bambino. Avevo circa nove anni quando a mio padre fu diagnosticato un tumore al cervello. Ovviamente i miei genitori non mi dissero come stavano le cose, e io immaginavo che la sua fosse una sorte di febbre, ma mi sbagliavo. Ogni tanto capita anche ai migliori. Era un uomo possente e per qualche motivo, forse l'imponenza e la mia immaginaria saggezza attribuitogli, lo associavo a Mufasa del Re Leone. Il giorno che morii io dormivo, e il giorno dopo mi svegliai con mia madre di fianco al mio letto con gli occhi bagnati e il musetto contrito per nascondere l'amarezza.

"Papà è andato a fare un viaggio con gli angeli", sibillò tremante.

Non so quanto coraggio ci vuole per dare una notizia del genere a un figlio. A volte ripenso a questa frase ridendo per la sua semplicità, tuttavia non riesco a trovare un modo migliore per dire una cosa del genere.

Dopo di ciò mi alzai, andai in salone e lo vidi disteso sul tavolo con un mucchio di persone che lo guardavano. Quella fu la prima volta che vidi un cadavere. Non riesco a spiegarlo ma non appena lo guardai capii subito che era diverso, che qualcosa non andava.
Era in completo, e qualcosa gli mancava.
Era incompleto, e la vita gli mancava.
Ora, non voglio scrivere stronzate strappalacrime sui miei momenti con lui e roba simile. È morto. Come molti padri su questo pianeta, lui è morto. Sapete quanti padri muoiono all'anno? Tipo un sacco, li buttano a secchiate. Ma non è questo il punto. Come ho già detto, la sua mancanza ha probabilmente reso me padre di me stesso, ma questo è qualcosa che ho concluso col tempo e su cui ho ragionato un bel po'. Sicuramente la sua morte ha ucciso anche me, ma non era la prima volta che la sua condizione mi uccideva.

Qualche giorno prima della sua morte mio padre chiamò me e mio fratello e ci fece sedere al tavolo con lui. A fianco a lui c'era mia madre, e nonostante provasse a nascondere la tristezza dietro un sorriso, essa era incontenibile e straripava come un fiume in piena. Voleva scrivere una lettera. Una lettera che un giorno, o magari per più giorni, avremmo letto. Voleva lasciarci un suo ricordo. Tuttavia la malattia era ormai avanzata e anche lo scrivere era impossibile. La sua mano tremava e a stento riusciva a tenere la penna in mano. Dopo un po' rinunciò, poso la penna e non potè non mostrarsi amareggiato. In quel momento capii che mio padre poteva morire, che anche lui, come Mufasa, avrebbe smesso di esistere. L'avevo sempre visto come un uomo vigoroso e una cosa del genere non mi era nemmeno mai passata di mente. Forse fu la sua imponenza a creare in me questa immagine di un uomo invincibile, ma ora, quella menzogna veniva smentita e io prendevo coscienza della verità.

In quel momento un bambino ingenuo morii, e uno più triste prese il suo posto, e di ciò mi resi conto subito. Come dicevo prima, sono ancora un bambino, ma quale dei due? Non posso più essere quel bambino.
E come posso essere ciò che sono se il cambiamento, cronometrato dal tempo stesso, significa morte?
La verità è che nemmeno lo rivoglio quel bambino. Se potessi non vorrei sapere come sarebbero potute andare le cose. Quel bambino doveva morire, e mio padre ha fatto di me ciò che dovevo essere.

Eppure questa non sembra altro che una scusa. Forse questa è solo un modo per giustificare la morte di mio padre, come un "doveva andare così". Mi sto scervellando su un qualcosa di fronte alla quale io sono, fortunatamente, impotente.
Forse non doveva andare così, ma comunque così è stato.
Mio padre mi ha ucciso e, nascendo, probabilmente io ho fatto lo stesso con lui, rendendolo un uomo diverso.
Mi ha amato, e ha fatto ciò che ha potuto di fronte a qualcosa che non può essere combattuto.
La vita stessa è morte e io non posso far altro che porgere un fiore sulla tomba di un bambino e di suo padre sperando che riposino in pace e insieme.

Giuseppe e Santina

I miei nonni materni. Giuseppe e Santina se ne andarono quando avevo dodici a un mese di distanza l'uno dall'altra. Non sono nemmeno sicuro chi dei due morii per primo.
Mio nonno era un uomo d'affari, sempre elegantissimo e generoso. Probabilmente gli occhi più belli di tutta la famiglia li aveva lui; un azzurro talmente chiaro da sembrare il riflesso del cielo. Forse erano bianchi e riflettevano il cielo per davvero, chi lo sa. Nonostante fossi relativamente spesso a casa dei miei nonni non ricordo moltissimo di loro. Ricordo mio nonno che tagliava il cioccolato a pezzo e lo dava a me e mio fratello, mi ricordo che mangiava la pasta con forchetta e cucchiaio e ricordo che per lui la pasta non era "buona" ma "bella".

Poi ricordo l'ultimo periodo e la sua progressiva mancanza mentale e la sofferenza di mia madre, che per occuparsi dei suoi genitori cercava qualcuno che badasse a me e mio fratello. Si occupò di entrambi molto spesso nonostante lei abbia molti fratelli e una sorella. Mio zio, che abitò con loro fino alla fine, disse che la sera prima di morire lo sentiva urlare
"Baiddu, Baiudduzzu!"
E non so se fosse riferito a me in quanto nipote più distante, o se questo mio fantomatico omonimo fosse un chissà chi o un qualche suo antico amico. Sta di fatto che il mattino dopo non si alzò.

Ancora meno ricordo di mia nonna. Probabilmente fu lei l'ultima a morire. Ricordo una frase di un'amica di mia madre che disse che era morta perché fu mio nonno a chiamarla visto che non voleva stare da solo in cielo.
Mi piacerebbe essere un romantico e credere sia stato così.
La cosa che ricordo meglio di lei era il suo viso. Aveva un orribile neo con dei peli in viso. I capelli ricci con dei perenni bigodini. Era una persona amara e dolce insieme. La ricordo calma, eppure tutti dicono che sclerasse molto. Anche di lei ricordo meglio l'ultimo periodo, quando mia madre portava me, mio fratello e mia sorella a visitarla all'ospedale. Ricordo di aver fatto un tema sulla cosa il giorno che morì. Nonostante la generalità quasi surreali dei miei ricordi nei loro confronti, li ricordo positivamente, anche se so che per mia madre non furono affatto dei buoni genitori; critici e inutilmente severi.

El Nigno

Lui lo avete già conosciuto, anche se non ne ve ne ho davvero parlato.
Era un rapper, e forse fu lui il primo a farmi apprezzare il genere. Lo chiamavano "ninuzzu senza minnuzza" (Nino senza capezzolo) perché da piccolo cadendo da una discesa in bici si era spellato il capezzolo.
Io lo ricordo perennemente allegro. Allegro e con i capelli alla Bob Marley. Era molto più grande di me e non avevo chissà quale rapporto eppure ricordo di quando mi regalò il suo disco, e ricordo quando qualche anno prima morii suo padre.
Ascolto ancora le sue canzoni e penso spesso che ora andremmo d'accordo, e potremmo parlare dei suoi testi o anche solo scherzare o avere un altro parente con cui sentirmi intrappolato.
Scomparve all'improvviso, quando avevo tredici anni, a causa di un incidente stradale.

Dal gps e grazie alla telecamere sappiamo che non andava veloce e che aveva ragione. Chi lo uccise non si fermò, ma continuò a correre e scappò. Forse era spavento o forse ubriaco.
Non lo so.

Calogerino

Mio zio, fratello di mia madre, il cui cadavere, a causa di un tumore, giace sottoterra ormai da un anno. La sua fu una caduta lunga mesi, durante i quali non nascondeva la malinconia, e durante i quali mia madre fece lo stesso. Non potevo sopportare di vedere mia madre così. Odiavo, e odio tuttora che lei abbia dovuto subire così tante perdite in pochi anni. Un senso di vuoto mi dà un pugno nello stomaco ogni volta che ripenso a ciò che ha dovuto passare.

Il giorno che spirò la sua dipartita era evidente a tutti e mi chiamarono per andare a casa sua, al piano sotto al mio. Ero terrorizzato al pensiero di dover scendere e dover vedere la sua anima ritornare al suo luogo d'origine. Uscii dalla porta e entrai nel pianerottolo lasciando la porta aperta perché sapevo che sarei risalito presto. Cominciai a scendere le scale a passi robotici e a poco più di metà mi fermai. Non volevo scendere. Avevo forse paura di mostrarmi sconsolato e dare tristezza a mio zio e ai suoi figli. Come se un morente badasse a certe cose.
Pochi giorni prima aveva iniziato un processo di conversione grazie a mia madre, e pochi giorni prima disse che un ombra lo seguiva, ma da quando si stava convertendo, aveva smesso di farlo dopo un ultimo abbraccio nel suo letto.

Fermo in mezzo le scale vi rimasi per qualche minuto, indeciso su cosa fare. Guardavo la porta, tentato di tornare in casa e aspettare soltanto. Pensai che se la porta si fosse chiusa da sola allora quello era un segno di un qualcosa affinché dovessi scendere. Pochi istanti dopo il mio pensiero la porta cominciò a chiudersi fino a completare l'opera. Rimasi ancora là a guardare e poi scesi. Davanti la porta fu l'atto di suonare il campanello a fermarmi ancora una volta.
Comunque una volta entrato mi diressi in camera da letto e vidi un gomitolo di gente affollarsi intorno a lui. Sua moglie piangeva e mia madre provava a calmarla anche per non far preoccupare suo fratello. Varcata la porta si apri un varco per farmi posto attorno al suo letto. Mi avvicinai e lo guardai. Era amareggiato e stanco, e forse lo era perché così era anche il mio sguardo.
Vedendo tanta gente afflitta attorno a lui ci avrà odiati tutti. Tutti a ricordargli della sua sventura. Tutti a guardarlo con lo sguardo di chi non può fare nulla.

Volevo disperatamente dire qualcosa per tirarlo su, per togliergli un minimo di quella paura che aveva per l'ignoto e farlo stare meglio. Non era compito mio dire qualcosa, e in realtà non c'era nulla del genere che potessi dire.
Rimasi in silenzio per qualche secondo mentre lui mi guardava come in attesa di qualcosa.

"Ciao, zi'.", dissi. Poi null'altro.

Queste furono le mie ultime parole a mio zio Calogero. Rimasi con gli occhi sgranati e il viso rivolto verso di me come un cane in gabbia per qualche secondo. Poi si voltò verso mia madre e bisbigliò:

"Gesù. Gesù."

A quel punto non riuscendo più a reggere la tensione uscii dalla stanza e dopo un po' tornai a casa.
Tutti ci aspettavamo la sua morte in quei giorni, ma vederlo fu quasi peggio che la sua morte stessa. Poco dopo morii accerchiato da familiari eppure solo nel nuovo viaggio che lo attendeva.

Come con quasi tutti i miei parenti, nemmeno con lui avevo confidenza e furono i sentimenti di mia madre che maggiormente mi fecero soffrire.
Il dolore l'abbracciò per i due mesi successivi e nessuno poteva dire niente. Un'altra cicatrice era stata inferta alla sua anima, e solo il tempo poteva fare qualcosa.

Tuttavia, nemmeno sei mesi dopo una delle sue amiche storiche si scoprii essere affetta da un tumore alle ossa, che per mesi si era creduto fosse una sciatica. Il tumore ha causato varie metastasi a fegato, polmoni e ossa, così anche il sangue generato era infetto.
Francesca sta ancora combattendo la sua battaglia, e spero per lei e per mia madre che riesca a vincerla.
Lo spero perché non so fino a quanto il kintsuji possa funzionare, e non voglio nemmeno scoprirlo.

Da queste ultime frasi potrebbe sembrare che io consideri la morte come qualcosa da evitare. E così sembra perché così è. Senz'altro un'esperienza dolorosa quella della sua conoscenza, eppure è lei che fa sì che noi possiamo dare il meglio di noi. È lei che ci offre una motivazione pratica all'agire ed è su di lei che si basano molti dei nostri princìpi morali.
Senza la morte, e quindi con l'immortalità la vita si svuoterebbe di senso. Saremmo come relegati in una condizione da cui non si può uscire e col passare del tempo, abituandoci sempre di più alla vita e alle esperienze che essa ci offre, ogni cosa perderebbe significato e smetterebbe di attrarci portandoci all'estrema noia e a uno stato catatonico d'indifferenza assoluto verso l'intera realtà. Senza considerare inoltre la miriade di problemi fisiologici ai quali andremmo in contro come la vecchiaia o il riempimento totale della memoria, portandoci a sostituire ricordi, anche positivi, con i nuovi che probabilmente saranno i ricordi delle ultime nostre fasi di vita prive di senso.
Ma non è solo per la mancanza di una fine che la morte è necessaria.

Come ho detto prima è su di essa che si basa gran parte del nostro agire. Senza un fine non avremmo nulla che ci spingerebbe a migliorarci e a vivere. La sua esistenza e la possibilità della nostra futura mancanza ci spinge a vivere al meglio e a trovare uno scopo. Lei ci ama e non vuole far altro che spingerci a vivere fino a quando un giorno non potremo far altro che ringraziarla. Proprio per questo dovremmo evitarla. Proprio perché lei ci ama vuole che noi le stiamo lontano, così un inevitabile giorno sarà lei a trovarci. È in questo senso che la immagino come sorella del tempo, anzi come parte indivisibile da esso. Senza una morte metaforica non si potrebbe passare da uno stato a un altro e senza il cambiamento non esisterebbe nulla di fatto. Ogni cosa sarebbe statica e immobile e la nostra esistenza forse non sarebbe nemmeno possibile. Anche la nascita di un opinione o di un pensiero necessita il mutamento da uno stato a un altro, contenendo in sé la dipartita dello stato stato precedente. Il tempo è mutamento e il mutamento implica la morte.

Anche noi non siamo altro che esseri che continuano a morire fino a quando non lo faranno un'ultima volta. Chi siamo e chi siamo stati.
Individui che continuano a morire per poter vivere ed evolversi uccidendo una versione di sé ogni giorno sperando che la successiva sia migliore. A volte ci uccidono gli altri, altre volte gli avvenimenti e altre volte ancora siamo noi a suicidarci.
Come ho già detto, siamo in continuo mutamento, un flusso, ma c'è un perno che rende tale mutamento costante, e forse questo perno è la morte.

Tuttavia anche la morte abbiamo visto che muta. Può essere fisica, o metaforica e in vari modi.
Riprendendo Aristotele potremmo dire che sia Dio l'unico motore immobile.

Nonostante questi elogi alla mietitrice che ci fa vivere per davvero, non capisco perché appaia così crudele anche a me. Io ho stesso ho detto che è suo il merito della vita, eppure ogni volta che sul mio cammino mi è stata accanto mi sono sentito oppresso, ferito e svuotato di qualcosa. Un pezzo di me che si annichiliva ogni qualvolta che qualcuno che amavo saliva verso le nuvole. Perché? Perché muoio anch'io quando sono gli altri a farlo? E poi tanto di lei ho parlato e non sono nemmeno sicuro di cosa sia.
Mio padre ê davvero defunto?
Se così allora perché riesco a vederlo ogni volta che voglio.

Se ci penso lui è ancora lì che mi guarda, con un bicchiere di Tavernello rosso in mano mentre mi chiama pagliaccio. Lo vedo perfettamente come lo vedevo prima. Alto, con i capelli neri sui lati mancanti al centro e con un sorriso beffardo e dolce.
Osservo le sue mani possenti, talmente possenti da rendere le mie come quelle di un bambino appena venuto a conoscenza del mondo oltre sé. Lui è lì davanti a me con le gambe incrociate e una polo con il logo "la coste" sul petto. Anche lui mi guarda con i suoi occhi nerissimi e mi sorride con tutto l'affetto che un padre può dare. E io piango mentre i miei occhi incrociano i suoi perché so che lui è lì e so che fin quando lui sarà nel mio cuore, fin quando non lo scorderò allora lui sarà vivo.
È sereno, e può abbracciarmi e dirmi che lui comunque sarà con me perché nulla vieta la vita senza la fisicità. Nessuna legge universale può guardarmi in faccia e urlarmi che lui non è qui con me.
Non sarà mai morto davvero finché io o mia madre o mio fratello o mia sorella potremmo ricordarlo. E lo stesso vale per tutti i miei cari.

Chi può dire che El Nigno sia morto fin quando la sua musica, quindi una parte di lui, risuona nelle orecchie di centinaia di persone che al contempo lo pensano.

Giuseppe e Santina sono ancora insieme e festeggeranno oltre sessant'anni di matrimonio.
Mio zio, e chiunque altro abbia abbandonato una dimensione biologica come può dirsi deceduto se in un modo o in un altro esistono ancora?

Ma se davvero è come dico e nessuno di loro si è davvero spento, perché sento che qualcosa è venuta a mancare? Perché in fin dei conti l'unico a essere scomparso per davvero sono io.
Siamo individui frutti d'identità che gli altri ci danno e gli unici a mancare, dopo la morte di qualcuno siamo noi. Noi possiamo ancora vederli e immaginarli, pensarli e parlare con loro e ricordarli.
Loro invece non potranno più fare lo stesso con noi.
È una delle nostre tante identità che scompare, lasciando spazio a un nulla di fatto e a un vuoto incolmabile, a cui si ci può certo fare l'abitudine, ma che farà per sempre parte di noi.
I cari che amiamo ci uccidono come ultimo atto, e non possono farne a meno.

È ironico pensare che siano i vivi a a morire per lasciar vivere i morti, come se ci sacrificassimo per gli altri. Un sacrificio per amore o un omicidio per egoismo.

Non ci sono più, ma comunque sono qua, e così è per me come per molti altri. E in realtà ogni minimo cambiamento implica la fine di una versione di me per poter lasciare spazio a una nuova.
Sono morto tante volte. E tante volte morirò ancora. Ogni ricordo che perdo e ogni persona scomparsa, ogni nuova conoscenza o esperienza e ogni nuova mancanza sono per me come svanire, come dissolvermi in me stesso attraverso me in un miscuglio psichedelico di mondo.

Che poi io sto qua a parlare e a blaterare, astraendomi dalla realtà concreta per trovare un senso, provando ad auto-rappresentarmi e scrivendo su di me come se a qualcuno importi e come se io sia davvero in grado di farlo.
Continuo a scrivere e a cancellare e voi che leggerete non saprete mai cosa davvero avevo scritto all'inizio o quali fossero le mie reali intenzioni o quanta paura ho avuto portandomi a cancellare o modificare ciò che di me non mi andava bene.
Quello che è qua potrebbe anche essere tutta una farsa o una realtà distorta e nessuno, e dico nessuno, saprà mai nulla di me e di cosa sono. Continuerò a scrivere e a cambiare guardando me stesso ogni giorno mentre muore e poi rinasce e nessuno lo saprà mai.

E ora non mi resta che concludere quest'imbarazzante scritto con quello che forse è il più grande atto di umanità di tutti, prendendo una penna, che ferisce più di una spada, e accoltellare quest'opera come il diario di Tom Riddle e ponendovi fine.
Così facendo lo stesso avverrà con me, facendo sì che un nuovo me possa guardare al passato tramite questo diario. Così il me tra dieci anni penserà che ero un cretino, e il me cinquantenne penserà che il me trent'enne era un coglione e infine, quando anch'io vivrò solo negli altri, penserò di aver avuto una bella vita, o quanto meno così mi auguro.

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