0.5625 Il Gelataio

Sisi signori, sto per continuare a rompervi le scatole parlando ancora di un atteggiamento di me che non mi piace e per il quale provo ad incolpare eventi risalenti alla mia infanzia perché accettare semplicemente di essere un inetto non mi va a genio... Ma a chi va a genio? A nessuno... Dico bene? Battete un colpo mio caro lettore se siete in disaccordo con me.

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Ecco vedete, pure voi mi state dando ragione, difatti chi tace acconsente.
Si però potrei non averti dato il tempo per rispondere... Scusa. Riproviamo. E ribadisco: se non siete d'accordo con me allora mio caro amico lettore dovete solo battere un colpo in modo che io posso sentirlo. Va bene? Vada.

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Allora siete davvero d'accordo con me. Assurdo. È piacevole avere qualcuno che ti appoggia ogni tanto. Qualcuno che condivide le tue idee e che non ti contraddice; proprio come voi, mio caro amico lettore.
Bene, adesso che ho messo in chiaro di essere un coglione posso continuare. Sì infatti penso che il rispetto per gli adulti che successivamente mi ha portato ad ottenere un eccessivo distacco non sia in maniera vera e propria per gli adulti, ma per chi, più che altro, è anche solo teoricamente una figura autoritaria. Si infatti questa cosa la sto percependo proprio adesso, mentre ripenso a quando (per un breve, anzi brevissimo lasso di tempo) ho lavorato.

Quello che sto per dire potrebbero solo essere delle enormi cazzate, visto che il mio disagio sul posto di lavoro potrebbe essere dato dal semplice fatto che mi trovavo in un nuovo ambiente a me estraneo, ma considerando quello che ho detto prima, forse è il caso di analizzare meglio la situazione, per quanto le mie capacità narrativa ed autoanalitiche me lo consentano, essendo queste ultime scarse ed infime oltre ogni misura umanamente concepibile. Sono infatti alquanto sicuro che una volta finito questo libro, se dovessi mai provare a rileggerlo, proverei solo un enorme imbarazzo e disagio poiché mi renderei conto della mia stupidità e della mia assoluta incapacità.

Ma anche questa è una di quelle cose che scoprirò solo con il tempo (e spero sinceramente di sbagliarmi). Inoltre questo non è un problema mio, o meglio, non è un problema del me attuale, bensì del me stesso del futuro. Voglio cominciare la storiella partendo da dei presupposti; ovvero: io che non sono uno di quei ragazzi che ha lavorato molto durante l'adolescenza; ho lavorato come aiutante ad una fiera di paese, ho fatto qualche giornata da imbianchino e per un mese ho lavorato come "gelataio" in una gelateria, ma più che un gelataio io ero il cosiddetto picciotto, ovvero il garzone o l'aiutante se preferite, infatti non avevo un vero e proprio compito, facevo solo quello che mi dicevano di fare, e tra l'altro lo facevo male poiché sono un buono a nulla.

Potete anche pensare che adesso io stia esagerando, che stia facendo scena per darmi un tono (e che tono). Ma non è così. Io davvero sono pessimo nel 90% delle cose manuali. Sono goffo; quasi un imbranato. Inoltre non sono stato nemmeno io a volerlo questo lavoro. Semplicemente un giorno mia madre è arrivata da me e mi ha chiesto " Vuoi fare il gelataio alla gelateria Tiara?"
Io le risposi che non ne ero sicuro e che avrei voluto pensarci, visto che quella era l'ultima estate prima dell'università. Indovinate che successe? Esatto, poco dopo mia madre è arrivata da me dicendomi che avrei cominciato tra qualche giorno. Dio mio, quanto mi sento ridicolo a scrivere di tutto ciò.

Queste infatti sembrano, anzi, sono solo le lamentele di un ragazzo che non voleva lavorare; anche se poi difatti non è che odiassi il mio lavoro o che altro. Semplicemente lavorare non è stata una mia scelta e mi ha proiettato in un ambiente a me nuovo e sinceramente a me poco gradito. La verità è che... Ora vi spiego. Proverò a raccontare il tutto in ordine per evitare di fare confusione.

***

Mi svegliai presto quella mattina. Sapevo di dover andare a lavorare, e il primo giorno è sicuramente tra i più importanti. Pensai "non devo fare la figura dello scemo. Perché se mi faccio prendere per cretino da subito allora non riuscirò più a liberarmi da quell'idea e mi poi troverò male..."
Così andammo (io e mia madre) nella piazzola di fronte il chiosco. Io però non stavo al chiosco a servire (così mi avevano detto almeno). Io dovevo stare in laboratorio; ovvero io il gelato dovevo farlo; non venderlo. Entrai nel suddetto laboratorio e davanti a me vidi immediatamente il pasticcere. Era un omino basso, sorridente, e con l'aria buffa. Mi arrivava al petto. Infatti la prima cosa che pensai fu "minchia sono davvero un gigante. Se gli mettessi una spallata..."

Ovviamente non volevo mettergli spallate, ma il pensiero mi si presentò da sé. Forse ciò è dovuto dalla volontà di sopraffazione che ogni individuo ha nei confronti di un altro. O magari il pensiero mi è stato suggerito dalla semplice differenza di statura. Anche se in genere non mi passano certi pensieri per la testa. Lui tutto sommato era abbastanza gentile e provava a mettermi a mio agio. E qui parte il problema di cui vi avevo parlato. Io non riuscivo a... Non riuscivo a... Non lo so. Non riuscivo a comportarmi liberamente. Provavo a parlare perché non volevo rendere il tutto imbarazzante e perché volevo creare un rapporto amichevole con lui (che chiameremo d'ora in poi Flauberto). Io davvero ci provavo ad essere spontaneo, ma sembravo un robot che prova ad imitare le emozioni umane, e perciò cominciai a sentirmi a disagio.

Penso che questo disagio sia dato sempre dal problema con le figure che dovrei recepire autoritarie. Ancora una volta infatti non mi sentivo in me, o meglio, non mi sentivo completamente in me. È come se tale condizione m' incatenasse in una parte di me. Ma non sto facendo tutto questo discorso per dirvi qualcosa che ho già detto prima. Parlerò anche d'altro (anche se a dire il vero non mi sento granché ispirato). Il giorno dopo conobbi un mio pari; l'altro picciotto. Lui aveva lo stesso nome di Flauberto, e quindi noi lo chiameremo Flumbolo. Bene. Flumbolo era un fottuto pazzo scatenato. Era bello averlo intorno perché a modo suo metteva allegria.

Nulla di quello che faceva aveva senso. Gridava. Gridava sempre. In continuazione. Ma senza un perché. Gridava così, per sport. Ricordo benissimo infatti il giorno in cui lo incontrai. Come l'ultima volta mi ero messo vicino l'abbattitore (un frigo che arriva a bassissime temperature) e stavo preparando i conetti, e mentre che usavo l' impallinatore per mettere il gelato (ormai troppo sciolto) su quei piccoli coni, udii la porta aprirsi. La cosa mi sembrò strana, quindi alzai la testa verso il corridoio e vidi questo ragazzo piazzarsi davanti la porta della "cucina" del laboratorio. Era un ragazzo bassino, con un bel viso, i capelli e la barba scura e un enorme sorriso Mentadent stampato sulle labbra. Flauberto lo vide entrare e mi presentò.  Flumbolo mi guardò sorridente e chiese "Ma tu me l'allippi?"

Non sapevo che dire.

"Non sono quel genere di persona." risposi con un sorriso impacciato.
Mi guardò ancora sorridente e poi gridò un orgasmo. Poi mi passo di fianco prese qualcosa dall'abbattitore e andò in un altra stanza. Guardai Flauberto con uno sguardo confuso e chiesi:

"Ma è tutt' a posto 'sto ragazzo?"

"Sisi, fa lu minchia.", rispose ridendo.
Nel momento in cui pronunciò queste parole sentii Flumbolo ululare dall'altra stanza. Si. Ululava. E, ancora un volta, non ne so il perché. Ululava spesso, e ancora più spesso orgasmava e gridava

"ALLIPPA!"

Nonostante questi atteggiamenti particolari era un bravo ragazzo, e il suo modo di fare con la sua iperattività ti metteva allegria. Una volta mi raccontò di tutto quello che faceva in una settimana. E sentendo che faceva 3 lavori rimasi stupito. Comunque Flumbolo non era l'unico personaggio particolare nel "cast" della gelateria. Un personaggio molto particolare era "l'uomo del latte". Veniva una volta a settimana e portava trentasei scatoloni di latte, che il sottoscritto doveva impilare e poi aprire per farne poi gelato. Lui era particolare anche nell'aspetto.
Altezza media, pelle rossastra, occhi a palla e sguardo da maniaco. Poi aveva la corporatura magra da tossico e i capelli lunghi ma che gli partivano solo da dietro perché sopra gli mancavano. La prima volta che vidi l'uomo del latte lui mi passo vicino e mi struscio contro a causa della mancanza di spazio, e dopo essersi involontariamente strusciato su di me si girò di scatto e mi disse con un odiosissimo accento marsalese "Ma chi fa? Mancu ni canuscemu e già ti strusci incapu ri mia?" (Ma che fai? Nemmeno ci conosciamo e già ti strusci su di me?).

Ricordo di averlo guardato negli occhi inniettati di sangue e pensato a quante droghe potesse aver assunto prima di cominciare a lavorare. Un altro personaggio degno di nota è Peppe; che a differenza mia stava al chiosco. Durante i primi giorni di lavoro lo vidi entrare tutto indaffarato, e mentre cercava qualcosa gli passò a fianco Flumbolo e gli disse:

"Oh Pe', Baldo" (ovvero io) "mi ha detto che ha la cappella arrossata. Che deve fare?"

Peppe si girò verso di me super serio. Mi mise una mano sulla spalla e con um tono saggio mi disse:

"prendi il burro caldo e gli infili la cappella. Ma stai attento... Solo la la punta."

Comunque piano piano divenni sempre più tutto fare e sempre più schiavizzato. Infatti iniziarono a farmi fare continuamente avanti e indietro fra chiosco e laboratorio. Prima mi chiamavano da una parte per pulire i tavoli e stare alla cassa e un secondo dopo mentre ero infaccendato in compiti che erano stato loro a darmi mi chiamavano per fare altro. E più io facevo e più loro richiedevano. Col tempo pure Flauberto divenne quasi insopportabile.

Fai questo! Fai quello! Prendi l'altro! Porta quest'altro! E via dicendo. Mi diceva così tante cose da fare in così poco tempo che pure lui sapeva di risultare odioso. Infatti mi diceva spesso scherzando

"Eh, se continuo così prima o poi mi manderai a fanculo lo so!"

Io ovviamente dicevo che non faceva nulla. Ma non era vero. La cosa che più odiavo poi era quando mi mandavano a cercare cose nello stanzino delle cose. Là dentro c'era letteralmente di tutto, e tutto quello che c'era era tutto in disordine. Quando mi mandavano là a cercare coppette o bicchieri per i frappè o cucchiaini io entravo nella più totale confusione. Niente là dentro aveva uno scompartimento preciso o uno scaffale a sé.

Tutto era messo a caso e dappertutto. Scatoloni a terra che a volte erano vuoti e a volte no. Buste sugli scaffali con scritto "coppette" ma piene di buste di cacao. Buste di zucchero dentro scatole di caffè e via dicendo. Io già non sono buono a cercare le cose quando sono in ordine, ma così era impossibile per chiunque.
Sta di fatto che la mia capacità nel non ambientarmi e nel rimanere chiuso in me stesso finirono per avverare ciò di cui avevo paura. Infatti in poco tempo tutti pensavano che fossi un ragazzo strano e impacciato. Il problema che mi preme in tutto ciò è il perché io non sia riuscito ad ambientarmi.

Anzi, sono addirittura arrivato a crearmi una brutta immagine. E me lo chiedo perché in genere io sono una persona tutto sommato socievole. Ma perché allora in settimane e settimane assieme alle stesse persone non sono riuscito a sentirmi bene con nessuna di loro? All'inizio ho ipotizzato che fosse causato dal fatto che il pormi vicino ad una figura autoritaria mi porti ad un distacco; e magari è anche questo. Ma allora perché con Flumbolo (che tra l'altro aveva solo due anni in più di me), che fra l'altro aveva il mio stesso grado non sono riuscito a legare? E non solo con lui. Ma nemmeno con l'altro ragazzo che lavorava lì sono riuscito a legare.

Fossero stati tutti adulti avrei potuto ricondurre il tutto ad un unica causa. Ma come spiego Flumbolo e Nicolas? Non sarà sicuramente stata la loro autorità a minare il mio modo d'essere nei loro confronti. Ma poi avete letto cosa vi ho detto di Flumbolo no? Lui praticamente ci provava un po' ad interagire con me ma ero io che non riuscivo a manifestarmi. Per provare a comprendere questo problema devo trovare qualche situazione analoga e capirne il nesso... Be' pensandoci così su due piedi mi viene in mente il teatro. Si, infatti io ho fatto teatro per qualche mese. Lì eravamo tutti a pari grado. Tutti giovani. Ma non mi sono trovato con nessuno. Penso e ripenso ma non capisco. Forse non socievole come credo. Eppure molte volte in mezzo ad un buon numero di sconosciuti sono riuscito a non imbavagliarmi.

La cosa che mi viene in mente non so per quale motivo è la competizione. Infatti sia a teatro che a lavoro si è soggetti (che lo si voglia o no) ad una sorta di competizione. In realtà la competizione è presente in ogni ambito, ma in alcuni ambiti si manifesta meglio. Ora che ci penso, da bambino ho anche giocato a calcio per un certo periodo di tempo; e anche lì mi sentivo a disagio.
Comincia ora a sembrarmi ovvio che un'altra delle cose che m' incatena è la competizione. Il calcio infatti essendo uno sport ti sottopone in maniera evidente ad uno stato di competività, ma lo stesso si può dire per il lavoro e il teatro? Assolutamente.

Per il teatro non sto nemmeno a spiegarlo. Ma in che modo il mio lavoro mi ha messo in competizione con gli altri? Be', innanzitutto il mio era un lavoro manuale quindi cercavano sempre qualcuno che facesse le cose meglio o più velocemente, e inoltre nello stesso chiosco (anche se a orari diversi) ci lavorava mio fratello, e io ero spesso paragonato a lui.

L'unica domanda che mi rimane è: perché la competizione mi fa sentire così?
È

infatti impossibile non essere in competizione. L'essere umano stesso si basa su ciò. Se non ci paragonassimo con gli altri non potremmo dire nulla su di noi. Se fossimo soli sulla terra come potremmo dire cosa siamo? Non potremmo certamente di essere più intelligenti o più belli o più simpatici. Saremmo scevri da ogni nostra caratteristica se non potessimo metterci a paragone con gli altri. E mettendoci a paragone con gli altri entriamo inevitabilmente in competizione.
Ora però penso di capire. A me non è mai piaciuta la competizione. Non è mai piaciuto il mettermi a paragone con gli altri. L'ho sempre trovato stupido, quasi infantile. Ma la verità è che io lo sono più di tutti.

Come dicevo nel capitolo precedente; sono rimasto un bambino. Vi dirò la verità che ora mi appare ovvia. E stavolta è solo colpa mia. Non ho scuse. Da piccolo sono sempre stato geloso di mio fratello. Lui era il più amato dai miei parenti larghi (i miei genitori sono sempre stati equi), lui era anche molto più carino di me (e lo è pure ora, anche adesso ciò non mi nuoce) e io mi sentivo (come ho già detto) il fratello scemo. Io voglio specificare di amare con tutto il cuore mio fratello. Ma penso che questa cosa mi abbia portato a confrontarmi di più con lui e a vedermi come inferiore per certi versi, e ciò mi ha portato al disagio della competizione.

Ora come ora non provo più questo senso verso mio fratello, ma la paura di entrare in competizione mi è rimasta. Ma in che modo la paura per la competizione dovrebbe essere una difesa per la mia mente? Come scusa. Si infatti ora non solo non amo la competizione ma ho una scusa per sfuggire da essa... E non solo da essa. La mia mente ha creato una scusa per il senso d'inferiorità. Qualcuno a cui dare la colpa.

"Tranquillo non sei tu che non si buono... È che ti sei bloccato. È che l'ambiente non è quello giusto. È che se tu potessi davvero esprimere le tue potenzialità sbalordiresti tutti. Ma non puoi purtroppo. Ma ciò non cambia che tu non sia inferiore; semplicemente non puoi dimostrarlo."

Ritorniamo ancora una volta così al concetto espresso nei primi capitoli del "soffrire per non soffrire " perché è molto più facile soffrire perché non si ci riesce a manifestare, rispetto al soffrire perché si sa di essere inferiori. Non mi piace ammetterlo, ma io sono umano. Sono umano pieno di difetti (come tutti) che cerca delle scuse per sé stesso. Per difendersi dall'esterno. Siamo ormai talmente convinti che l'esterno sia la principale causa di male da essere noi stessi il male di noi stessi.

Ma sto divagando.

Sono tuttavia contento di essere riuscito ad arrivare a una conclusione, la quale, spero che non sia un altra scusa o inganno della mia mente. Infatti tutto ciò non vuole giustificarmi delle mie mancanze, ma solamente pormele di fronte. Quanto sono ridicolo a scrivere tutto ciò... A fare di me uno spettacolo inutile provando pure a fare la morale. Come se sapessi qualcosa... Sono Davvero Ridicolo. Quasi più di te che stai qua a leggermi.

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