Prologo
Qualche anno prima
Markus si guardò allo specchio e, per la prima volta, quell'autunno, gli sembrava di essere più grande.
Talmente grande che i genitori avevano deciso di portarlo a un ricevimento ufficiale.
La madre l'aveva ripescato dal giardino della casa dei nonni, in cui aveva sfruttato le temperature ancora tutto sommato miti per rincorrere il pastore tedesco con il pallone.
Prima si era rimpizzato di biscotti appena sfornati, fatti da lui e dalla nonna.
Poi aveva corso dietro a Rex, che scondinzolava e gli saltava addosso appena ne aveva l'occasione.
Era sempre stato vivace e i genitori non gli avevano mai posto limiti.
Questa volta, invece, l'avevano ficcato di malo modo nella vasca per poi rinchiuderlo dentro un completo che stonava parecchio con la sua aria da ragazzino che aveva appena finito di correre.
A tredici anni si finiva sempre per sembrare un po' ridicoli a indossare una cravatta, come se fosse il costume di carnevale per imitare il padre.
Nello specchio vide riflettersi i suoi occhi verdi prato, brillanti e svegli.
E poi i capelli biondi, talmente dorati da sembrare l'evoluzione del prato degli occhi in un campo di grano.
Subito dietro, la madre, che tentava invano di tenere fermo un ciuffo con il gel.
Era uguale alla mamma, e nonostante tutto, gli sorrise.
Non erano molto presenti, ma lo amavano molto.
Soprattutto il padre, perché era la copia della moglie.
Era solo un po' irrequieto, e si considerava diverso da loro.
Era da un po' che nella sua testa si erano iniziati a formare dei pensieri di cui non aveva parlato con nessuno.
Fino a quel momento era stato un bambino che saltava di gioia all'idea di trascorrere i pomeriggi con la nonna a cucinare senza che lei gli mettesse pressione per i compiti.
Adesso, invece, iniziava a rendersi conto che i suoi genitori avevano una loro attività e che forse prima o poi sarebbe toccato a lui.
Forse era per questo che il padre lo rimproverara quando faceva i compiti distrattamente e gli diceva che avrebbe dovuto imparare le cose che gli avrebbero permesso di diventare qualcuno.
Erano rimproveri bonari, che non lo scalfivano e che non lo inducevano a comportarsi meglio ma stava iniziando a capire che cosa volessero da lui.
La scuola non gli piaceva granché, stare seduto tutto quel tempo era noioso e la matematica gli sembrava totalmente inutile.
Gli piaceva la storia e anche quando leggevano i racconti in classe e finiva sempre per monopolizzare l'attenzione con le sue mille domande curiose.
E poi gli riuscivano bene anche le interrogazioni, anche se spesso non studiava così approfonditamente. Parlare gli veniva proprio naturale, e gli altri finivano per ascoltarlo con attenzione.
Dicevano che fosse attento, intelligente, con una buona proprietà di linguaggio e con una curiosità senza uguali, ma che fosse anche vivace e poco propenso a seguire regole che non gli piacevano.
Iniziava a rispecchiarsi in quella descrizione.
Parlare gli piaceva, con il nonno facevano spesso lunghe chiacchierate davanti al camino e le ore sembravano scivolare via con la stessa velocità di Rex quando correva dietro alla palla.
Per fortuna il ricevimento durò poco, anche perché l'indomani sarebbe già iniziata la scuola.
Solo al pensiero di sedersi di nuovo per tutte quelle ore sui banchi gli fece storcere il naso.
Non sapeva, però, che tra quei banchi avrebbe incontrato il suo migliore amico.
L'incontro non fu dei migliori.
Tra tutti quei volti nuovi, che si mischiavano ad alcuni già conosciuti, gli era subito saltato all'occhio un ragazzino con gli occhi talmente accigliati da sembrare voler fulminare con lo sguardo qualsiasi persona incontrasse sul cammino.
Chissà che diamine aveva per essere così incazzato con il mondo.
Gli altri anni, era certo, non l'aveva mai visto o se ne sarebbe ricordato.
Non sapeva che era meglio girargli alla larga, ma se ne accorse presto a sue spese.
Si avvicinò durante la pausa pranzo, con l'intento di chiedergli di giocare a pallone con lui.
"Al posto di avere questa faccia perché non vieni a giocare con noi?" proruppe Markus, forte del fatto che di solito tutti volevano passare del tempo con lui perché era simpatico.
"Al posto di parlarmi, perché non ti fai i cazzi tuoi?" gli rispose a tono, guardandolo ancora più torvo.
"Volevo solo farti giocare, non mi sembravi tanto contento di stare da solo" disse, con un tono leggermente offeso per il modo in cui aveva risposto. Non gli era mai capitato niente del genere.
"E io volevo starmene per i cazzi miei senza rompicoglioni intorno" sbottò quel ragazzo, palesando i suoi problemi a gestire i rapporti umani.
"Ma vaffanculo" rispose Markus, piccato per tutte quelle offese e quelle parolacce.
"Che hai detto?" chiese quello, prendendolo per una spalla per farlo girare.
"Ho detto che devi andartene a fanculo" gli sibilò in faccia.
Poi lo spintonò persino, non aveva mai incontrato un maleducato del genere.
Solo che, da una spinta, iniziarono a volare pugni e finirono entrambi a terra tra lo stupore generale degli altri ragazzini che non osarono chiamare nessuno.
"Ma sei proprio uno stronzo" borbottò Markus, ricambiando il pugno sullo zigomo e rotolando a terra fino a salirgli sopra.
Lo guardò dall'alto in basso, vittorioso, prima di caricare un altro colpo.
"Franz, mi chiamo Franz. E tu?" chiese, con un sorriso in faccia nonostante non ci fosse niente da sorridere.
Markus aggrottò le sopracciglia, perché si stava presentando ora che stavano facendo a pugni?
"Mi chiamo Markus" rispose, abbassando il pugno.
"Markus, sei proprio un coglione" rise Franz, ribaltando le posizioni e colpendolo ancora.
"E tu una testa di cazzo, Franz" lo insultò, inghiottendo l'umiliazione per essersi fatto fregare così.
Poi Franz si alzò, tendendogli la mano per aiutarlo.
Non lo sapevano, ma quella sarebbe stata solo la prima di una lunghissima serie di pause pranzo in cui Markus sarebbe andato a infastidire un Franz che l'avrebbe mandato a quel paese nonostante avesse iniziato fin da subito a trovare piacevole la compagnia dell'amico.
Quella stretta di mano sanciva l'inizio di un'amicizia solida.
Markus era stato l'unico ad avergli parlato perché si era accorto che stava da solo, e anche l'unico ad aver avuto il coraggio di mandarlo al diavolo.
Ma anche Franz sarebbe stato un aiuto per lui.
Forse erano i due lati di una stessa medaglia.
Entrambi con un temperamento focoso, uno, però, con dei traumi evidenti, l'altro, invece, amato dai propri genitori.
E i genitori gli volevano talmente bene che, quando alla fine delle superiori, gli disse che non avrebbe preso in mano la loro azienda di famiglia, lo accettarono pur chiedendogli di iscriversi all'università.
Genitori che avrebbero perdonato le innumerevoli scappatelle del figlio, pregandolo almeno di non farli diventare nonni così in fretta.
Così come avevano chiuso un occhio di fronte alle bustine di cannabis che avevano trovato in camera sua, facendo finta che non ci fossero mai state.
Lo viziavano talmente tanto che, a diciotto anni, nonostante avesse distrutto la Mercedes del padre, gli comprarono comunque una macchina nuova.
Franz lo guardava esterrefatto, non capendo come i genitori potessero scusarlo così tante volte e non capendo come mai avesse la necessità di comportarsi in quel modo se a casa aveva tutto l'amore di cui aveva bisogno.
Markus, una volta, gli aveva semplicemente risposto che a lui piaceva godersi la vita.
Che non lo faceva per una ribellione contro chissà quale sistema, ma lo faceva perché gli procurava piacere e perché il brivido di una malefatta era appagante.
Anche se, poi, aveva il senso del limite.
Si fermava a pochi metri dal precipizio, consapevole che spingersi più in là sarebbe stato pericoloso.
Si portava al limite per avere il brivido, affacciandosi, beffardo, sul baratro per poi tornare indietro contento di aver guardato in faccia il pericolo senza caderci mai.
Una volta aveva definito la sua una "ribellione in sicurezza" e Franz aveva annuito.
Poi con il tempo si sarebbe calmato, assopendo le voglie incontrollabili dei vent'anni ma il piacere di vivere gli sarebbe rimasto addosso per sempre.
Dopotutto il suo motto era "lavorare per vivere" e non "vivere per lavorare".
Avrebbe trovato la sua strada, ma sempre con il giusto equilibrio tra impegno reale e piacere, con una propensione più al secondo.
E in questo, Franz, sarebbe stato la sua manna dal cielo.
Era consapevole che Markus fosse una pepita d'oro che andava trattata con i guanti e che dava il meglio di sé solo se non aveva obblighi che lo soffocavano.
Quello di Markus era il vizio dell'artista, che lavorava bene solo quando aveva l'ispirazione giusta e Franz lo sapeva bene.
Gli aveva messo a fianco una serie di avvocati affidabili e competenti, ma meno brillanti di lui, che avrebbero sopperito alle bizze dell'amico.
Consapevole, però, che quando sarebbe andato a bussare alla sua porta per i lavori seri, l'avrebbe trovato sempre disponibile.
L'importante era non mettergli addosso responsabilità che l'avrebbero ingabbiato.
In ufficio aveva la libertà di fare ciò che voleva e aveva tutte le comodità, a partire da uno stipendio che gli permetteva di soddisfare i capricci.
E in virtù di quella libertà, di cui accingeva a piene mani, quando doveva lavorare sul serio spegneva tutti i pensieri e tirava fuori il meglio di sé, esternando così il senso di gratitudine verso l'amico che gli aveva permesso di vivere come più gli piaceva.
Spazio autrice
Mi sembrava doveroso farvi conoscere un po' meglio Markus. Rispecchia il personaggio creato nell'altra storia? Spero di sì! Fatemi sapere
Provo a mettere i volti dei personaggi come immagine del capitolo, spero che Wattpad non faccia problemi!
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