Prova 4: amore liquido

«Questo posto è occupato.»

Una voce maschile mi sorprende. Arcigna. Fredda. Egocentrica.

Basta soltanto una frase, una breve battuta per comprendere a fondo il carattere di una persona. La gente si dimentica che non è tanto quello che diciamo quanto come lo diciamo che rivela chi siamo veramente. Puoi controllare le parole, usare vezzeggiativi, evitare gli insulti, dare del Lei, ma assai più difficile è trattenere l'elevazione tonale in uno scatto di rabbia o l'inflessione di scherno mentre rivolgi parole educate a qualcuno che ti sta sul cazzo.

All'arcigno, freddo, egocentrico uomo che ha occupato il mio posto sto sul cazzo.

Rimango immobile qualche secondo, la presa saldamente ancorata alla spalliera della sedia. Qualche secondo di troppo, indubbiamente. «Questo posto non è mai occupato.»

La sua colonia mi invade le narici. Ispida, come il suo carattere.

«Lo è stasera. Non vede la giacca, signorina?»

No, non la vedo, voglio rispondere. Taccio.

Ho due bulbi di vetro al posto degli occhi, non lo vede, signorino? No, non lo vede, la penombra è troppo fitta in questo punto della sala, è per questo che mi piace questo angolo, questo tavolino addossato alla parete e questa vecchia sedia tutta graffiata, ché tanto i graffi con la poca luce non si vedono mica. Ma si sentono, vi posso assicurare che si sentono sotto i polpastrelli, posso affermare con certezza che ogni scanalatura ti incide il respiro fino a soffocarti con la storia che racconta, se solo sai ascoltare.

Questo posto non è mai occupato, questo posto è troppo buio per essere occupato da qualcuno che non sia me.

La gente ha paura del buio, ma è inesatto. La gente ha paura di non riuscire a vedere, di perdere il controllo, ma non hai bisogno degli occhi per sentire la consistenza dura del ferro battuto né per apprezzare l'aroma di cannella e cioccolata che risale dalla tazza in ceramica liscia e lucida – perché tutto ciò che è liscio è supposto riflettere la luce, questo almeno diceva il mio libro di fisica.

La gente si sente a disagio in quest'angolo dove la flebile luce delle lampade non giunge: ha paura di non essere vista e mente, dicendo che il problema è che da qui non vede.

Come se la poesia andasse vista. Come se i capelli biondo cenere o la pelle color dell'ebano potessero influenzare l'attorcigliarsi dello stomaco, amplificare il rimbombo delle vibrazioni nella cassa toracica o asciugare le lacrime che convergono alle sclere.

Posso ancora piangere.

Inspiro.

La lettura sta per cominciare e non voglio rovinarmi la serata, non la serata di debutto di Davide.

Voglio sedere in quest'angolo in cui l'acustica è stranamente migliore, in cui le parole arrivano forti e dolci, in cui le pareti ti avvolgono facendoti sentire al sicuro: nulla che può sopraggiungerti alle spalle.

Forse anch'io ho mentito. Forse anch'io, come la gente, ho paura di non vedere.

Ma sono ancora qui, e alle spalle ho un corpo che non vedo e che batte la punta della scarpa destra impaziente sul parquet. Alle spalle ho un respiro indeciso, polmoni che si gonfiano e si sgonfiano meditando se dar fiato alla bocca oppure no.

Sto indugiando. Non bisognerebbe mai indugiare nella vita, ma non tutti nella vita sono forti a tal punto da non indugiare. I ragionamenti fanno un sacco di rumore mentre si scontrano nella mia mente, violenti come il vetro che impatta il cemento, frantumi acuminati che pungono nel derma, tirando la carne verso la superficie.

Vittimismo.

Quanto sarebbe facile voltarmi e fissarlo dritto in (quel punto in cui credo si trovi la sua) faccia, ascoltare il tremolio sconvolto nella sua voce e godere delle gocce fredde di sudore che gli scendono dalla fronte, lungo il collo – perché non può non sudare dopo aver visto pupille prive di luce scandagliare il vuoto.

Vittimismo.

Fare del male che mi ha riversato addosso la gente la mia arma di vendetta, cavalcare l'eco dell'onda degli scherni rivoltimi contro da bambina.

Vittimismo.

Una sola parola e il mio tanto amato posto a sedere, il buio che mi culla, la voce imbarazzata di Davide. Tutto così semplice.

La presa si allenta e il legno della spalliera scivola delicatamente tra le mie dita.

Ho preteso rispetto per tutta la vita.

Espiro.

Mi volto.

Lo sguardo abbassato. La voce tranquilla, dolce. «Mi scusi, è che mi siedo sempre qui. Sa, sono un'habitué...»

Sorrido, leggermente. Un segno di scusa. Un segno di sconfitta.

Chissà se nella penombra l'ha visto questo sorriso delicato, appena accennato sulle mie guance rosee – lo sento il sangue fluire nei capillari, il calore diffondersi ad arrossare le gote.

Vittimismo. Tutto così infantile.

Sorrido. Un segno di educazione. Un segno di maturità.

*

«Mare, pioggia, birra: l'amore è liquido.

Sperma, lacrime, sangue: l'amore è liquido.

Mi bagna le mani.

Mi bagna gli occhi.

Il mio amore è liquido e io non posso

trattenerlo**.»

La voce di Davide trema mentre pronuncia le ultime parole, incespica su quel "trattenerlo" scivolato tra le sue labbra come Carlo dalle sue braccia. È un solo attimo, prima che le mani comincino a battere e quella nota tremula svanisca nel fragore degli applausi.

La gente batte le mani in modo così irregolare, ci avete mai fatto caso? Il ritmo di ognuno è ben definito e costante, ma raramente è amalgamato a quello dei vicini: intensità, velocità, andamento cambiano, confondono le mie povere orecchie che non sentono altro che rumore. La gratificazione diventa supplizio, di solito non vedo l'ora che smetta. In questo momento, però, anche le mie mani battono forte, disarmoniche, violente.

Quando viene a sedersi accanto a me il tumulto è passato, la cacofonia di mani si è esaurita e la sua voce è tornata vivace, solare. «Che te n'è parso?» mi chiede, porgendomi la tazza fumante. Il suo tocco è umido, porta la memoria di una lacrima solitaria che deve aver asciugato in tutta fretta dal viso.

«Sei fenomenale! Ma questo lo sai già.»

«E tu sei la solita adulatrice.»

«Non vuoi vedere la realtà: la sala stava scoppiando dagli applausi per te.»

«Allora meglio dire che non la voglio "sentire" la realtà.» Ride. Quanto è bella la sua risata, è cristallina, una cascata di gioia che mi inonda ogni volta che mi è così vicina. La sua risata è contagiosa.

«Da quando vai così per il sottile?»

«Da quando ti conosco, miss non vedo per nulla ma osservo benissimo.»

Scoppiamo a ridere entrambi. Ha ragione, lo dico sempre. Quella frase mi caratterizza in pieno, me la sono cucita addosso come un vestito troppo stretto il cui tessuto ha ceduto col tempo, o forse ha ceduto il mio corpo sotto di esso. Fatto sta che, adesso, ci sto perfettamente comoda all'interno. Non vedo per nulla ma osservo benissimo, e sento più di chi mi sta intorno, perché chi mi sta intorno non ha bisogno di percepire: a loro basta vedere, e in questo si lasciano sfuggire innumerevoli dettagli, inflessioni, carezze, odori: si lasciano sfuggire la vita.

«E questo cos'è?»

«Cosa?» gli chiedo, ma lui non risponde.

Si muove sulla sedia, il fruscio della camicia che accompagna la torsione del busto. Poi un altro fruscio, più intenso, di carta spessa e stropicciata, sfrigolante su uno strato di plastica.

«Lavanda!» lo precedo. Il suo aroma fresco mi stuzzica le narici, vincendo le note di miele e arancia del mio infuso.

«Sono per te,» dici, passandomeli.

«Ne sei sicuro?»

«È scritto sul biglietto.»

«Chi è così stupido da lasciare un biglietto a un cieco?»

«Uno intelligente abbastanza da far incidere la carta in braille.»

Touché. Stringo in mano il mazzo di fiori inebetita, sono sempre la solita prevenuta.

Davide mi passa il biglietto. Senza dubbio carta di riso, ne riconosco la superficie porosa, le fibre perfettamente allineate che ne costituiscono la struttura. Delicata e resistente al tempo stesso, spessa e leggera. Mi basta sfiorarla per ripensare alle ore spese a piegare origami, a maneggiare la carta con cura, a definire pieghe aiutata dal solo tocco delle estremità dei riquadri, al bruciore pungente dei tagli lasciati dai bordi appuntiti.

Vividi ricordi emergono dalla sua superficie, insieme a piccoli bozzi che delineano un'immagine nuova, pura, cruda nella mia mente.

Spiga senza profumo, freschezza appassita – menzogne.

Davide attende curioso, sento il suo sguardo posarsi sul mio collo, scivolare sulla mano che stringe il biglietto. «Cosa dice?»

«È un verso della poesia che ho letto due settimane fa. Si intitolava proprio "lavanda".»

«Me la ricordo. Che verso?»

«Il primo. "Spiga senza profumo, freschezza appassita".»

«Non il miglior messaggio per accompagnare dei fiori.» Cerca di sdrammatizzare, ma gli scricchiolii della sedia tradiscono che si sta guardando intorno, agitato.

«C'è dell'altro. Dice anche: "menzogne".»

Lui ci pensa un po' su. «Questo ribalta tutto. Sembra quasi carino adesso.» Espira. La tensione defluisce pesantemente dal suo corpo, la sputa via tentando di fare dell'ironia.

Si è sempre preoccupato troppo per me. Tutti si sono sempre preoccupati troppo per me e di lui non si è mai curato nessuno, della difficoltà di essere omosessuale in un paesino bigotto, delle derisioni e del dolore che ha dovuto patire nessuno si è mai interessato. Nemmeno io, troppo impegnata a essere diversa per provare semplicemente a vivere.

Anche adesso, anche ora che sediamo uno accanto all'altra, entrambi con le nostre diversità, entrambi con il nostro modo unico di sentire la vita, non riesco ad essere sua pari.

A volte penso che per sempre sarò un passo più indietro, un gradino più in basso, e tutti mi tenderanno una mano pensando che non possa farcela da sola.

«Tutto bene?»

«Sì.»

«Sei silenziosa, non stai mai zitta per più di trenta secondi...»

«È che... è che nessuno mi ha mai regalato dei fiori,» sdrammatizzo.

«C'è sempre una prima volta, sorellina! E anche una seconda, a quanto pare.»

«Cosa vuoi dire?»

Tacchetti bassi battono rapidi sul pavimento, preannunciando il tintinnio di un piattino di ceramica sulla sul ferro battuto.

«Marta,» la saluto, sorridendo.

«Come fai a riconoscermi ogni volta è un mistero!»

«Nessuno batte i piedi in modo forsennato come fai tu! Finirai per romperti qualcosa, prima o poi. Come procedono gli studi?»

«Hai una domanda di riserva?» Ridiamo entrambe. «E tu giù le mani! Questa non è per te.»

«E ti pareva...» risponde seccato Davide, strusciando il braccio lontano dal piattino.

«Noi non abbiamo ordinato niente.»

«Qualcuno l'ha fatto, dolcezza. Ora vado, prima che il grande capo mi licenzi!»

La ascolto andare via, districarsi energicamente tra le chiacchere sommesse dei clienti.

«Se tu non la mangi, mi sacrifico io. Sai quanto odio gli sprechi.»

«Non potrei mai chiederti un tale sacrificio!» ribatto, portando alle labbra il primo boccone.

Morbida e densa, una crema di cioccolato aromatizzata all'arancia avvolge un morbido pan di spagna. La corposità del dolce è perfettamente bilanciata dalla croccantezza di una base di biscotto e nocciole e la dolcezza, altrimenti eccessiva, smorzata dal retrogusto pieno e ricco e dal leggero sentore di caramello del rhum scuro con cui è realizzata la bagna della torta.

Questo dolce è il mio preferito in assoluto. Stefania cucina nuove torte fresche ogni giorno, con ingredienti di prima qualità. L'amaro del cioccolato, la limitatezza nell'uso di zucchero bianco, la freschezza della frutta di stagione usata nelle preparazioni rendono ogni sua creazione una gioia per il palato. Non a caso ho suggerito di tenere le riunioni del circolo di poesia proprio in questa sala da tè.

«Dovresti ringraziare.»

«Chi?»

«Il tizio che ti ha offerto la torta.»

Immersa nelle note del cioccolato mi ero completamente dimenticata dell'origine sconosciuta del dolce. «Come fai a essere sicuro che sia un uomo?»

«Dubito che una ragazza si metterebbe a corteggiare in modo così teatrale una donna etero.»

Rido. «Questo non è un corteggiamento!»

Lo è? Possibile mai? Nessuno avrebbe alcuna ragione per corteggiare proprio me, come nessuno si metterebbe mai in fila per un giocattolo rotto, non in un negozio pieno di tante altre scelte. E il mondo è pieno di scelte migliori di me. Scelte perfettamente funzionanti. Scelte normali.

Mi è passata la fame. Improvvisamente neanche il cioccolato che amo alla follia e riconosco come mia unica e vera droga mi attira più. La torta è divenuta scialba sulla mia lingua, la sua consistenza pesante si incastra lungo la gola, non riesco a mandarla giù.

Mi alzo. Davide solleva la testa su di me, immagino lo stupore disegnato sul suo viso incurvargli le sopracciglia folte. Ho passato anni ad analizzare il suo viso, a imprimerlo nella mia mente attraverso il tatto, al punto da conoscere la sua pelle meglio della mia stessa pelle, il modo in cui i muscoli la tirano al susseguirsi delle espressioni facciali.

Gli lascio l'ultimo pezzo del mio dolce. Generosità, la chiamo. Ho bisogno di aria.

*

All'uscita del locale mi accoglie il silenzio. Il vociare della gente viene soffocato dal richiudersi della porta e solo il rumore degli pneumatici che pigramente scivolano sull'asfalto in lontananza mi fa da sottofondo.

Il caldo appiccicoso di giugno mi abbraccia. L'umidità si aggrappa ai bocconi d'aria che spingo giù lungo la trachea fin nei polmoni, cercando di rischiararmi le idee.

I ciottoli della stradina si conficcano nella pianta dei miei piedi, vincendo la tenue battaglia contro ballerine dalla suola troppo sottile.

Allungo qualche passo verso la panchina che so trovarsi a pochi metri da me, a riposare sotto le fronde di una vecchia quercia.

Mi scosto una ciocca di capelli dal viso. Le mie dita profumano ancora di lavanda, tenue ma persistente, aggrappata alla vita.

Il contatto con la pietra fresca sulle gambe scoperte è estremamente piacevole. Mi siedo rivolgendo le spalle al muro poco distante, non perché per me faccia differenza alcuna indirizzare la testa verso una parete o verso una strada, ma poiché la differenza la fa per gli altri. Mi sono resa conto, anno dopo anno, di come la gente tende ad accettarti più facilmente come suo simile se adegui il tuo comportamento al loro. Così, anche se non posso vedere cosa ho d'innanzi, anche se la mia visuale è chiusa a un livello molto più prossimo del muro, tengo gli occhi aperti sulla via e sull'ingresso del locale da cui sono da poco uscita.

Ripenso a ciò che è successo nell'arco dell'ultima mezzora. Eventi così inusuali e bizzarri a tal punto concentrati da confondermi, impedendomi un'analisi lucida della situazione.

I miei fiori preferiti accompagnati da uno strappo della mia carta preferita, la mia torta preferita, ci manca solo la mia canzone preferita.

Un cigolio accompagna l'apertura della porta e, prima che un tonfo sordo ne annunci la chiusura, la voce delicata di Céline Dion raggiunge le mie orecchie, portata da passi decisi e leggeri che si fanno più vicini alla panchina.

«Se questo è uno scherzo, non è per nulla divertente.»

Silenzio.

Scatto in piedi, fronteggiando un odore di pino silvestre e un respiro profondo e regolare.

«Sabato danno il musical del Titanic a teatro. Ti va di venire con me?»

«Mi stai prendendo in giro?»

«Sei sempre così scettica e scontrosa? Perché mai dovrei non essere serio?»

Una voce per nulla arcigna, per nulla fredda.

«Perché io sono...» "diversa", "disabile", "non abbastanza" vorrei dire. Non mi lascia finire.

«La persona più sensibile e vera che abbia mai conosciuto.»

«Tu non mi conosci.»

«Ho ascoltato ogni parola delle tue poesie, ti ho osservata strafogarti di dolci, ridere, piangere, gesticolare. Ho apprezzato il mondo dalla tua prospettiva, questa sera, seduto al tuo angolo preferito con gli occhi chiusi. E se credi che tutto questo non sia ancora abbastanza, dammi più tempo, esci con me.»

Il tocco delle sue dita sulla mia tempia mi fa sussultare. Quella carezza delicata mi scuote, i brividi corrono lungo il collo e il sudore si fa freddo sulla mia fronte. Il cuore mi batte più forte e la tisana sembra centrifugata nel mio stomaco.

La sua pelle è così morbida, i polpastrelli tastano le mie sopracciglia, le palpebre chiuse, scendono lungo la linea appuntita del naso, fin sulle labbra.

Baciami, penso.

«A sabato, allora.»

Il calore di quel contatto si disperde nell'alito di vento fresco che addolcisce le sere d'inizio estate, il sottobosco evocato dalla sua colonia che fino a poco prima mi avvolgeva lascia il posto a una stradina secondaria e semideserta.

Non ho sentito passi alternarsi sui ciottoli. Non ho sentito l'aria spostarsi attorno a me.

Allungo una mano a tastare il vuoto. Forse mi sono immaginata tutto. Forse mi sono addormentata sul divano e non sono mai uscita di casa.

Eppure, le mie dita protese a fendere l'aria tremano ancora.

Che idiota che devo sembrare.

Sorrido.

Sabato non mi lascerò rubare il posto.



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**il testo della poesia è una versione riadattata in italiano di un brano "rubato" al mio amico Rocco.

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