Prova 1 - Clara
Traccia
Sleeping at Last - Hearing
René Magritte - Le Chateau des Pyrénées & La Victoire
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Sulla spiaggia dove io e Clara usavamo giocare ci hanno costruito un lido balneare. La sabbia è soffice e dorata come vent'anni fa, ma il bagnasciuga è adesso invaso da lettini e ombrelloni e persone che, ignare dei giochi di due ragazzine, si agitano trasportando quello che era stato il nostro mondo segreto nel baccano e nell'agitazione delle vacanze estive.
La casa appartenuta un tempo a Clara si scorge ancora dalla riva in tutta la sua imponenza. Il suo profilo, irradiato dal sole di mezzogiorno, mi sta aspettando.
La villa si specchia nell'oblio blu del mare e si erge fiera al di sopra di questo, a sfidare le onde e il vento. Ho sempre trovato una certa analogia tra quella costruzione e i suoi proprietari: entrambi algidi e orgogliosi, entrambi nobili. Una casa che, al pari di una regina, non lasciava toccarsi da nessuno e intimoriva chi le si faceva vicino. Un regno di norme e sfarzo che imprigionava una principessa dall'animo gentile.
Anche oggi, a distanza di anni, ora che io sono maturata in una donna forte e indipendente e la casa abbandonata ha perso tutta la forza che la invadeva un tempo, ho timore.
Mentre la guardo farsi sempre più vicina, le voci dei vacanzieri vengono inghiottite dal flusso pigro della risacca e gli anni si dissolvono nel soffio tiepido del vento.
I miei passi si arrestano insieme al mio respiro. Torno ad essere quella bambina di sette anni, incapace di alzare gli occhi su colei che mi sta di fronte.
Le assi di legno del pontile, divelte dal forte vento invernale, giacciono ai piedi della casa e i fiori selvatici hanno fatto del prato all'inglese il loro dominio. La salsedine e le alghe hanno lambito il bianco del marmo e i vetri delle ampie finestre portano il ricordo di svariati inverni di pioggia.
Non sono mai stata così vicina.
Ma adesso ho una chiave, ho una lettera e ho un dovere.
Mi accolgono gli imponenti lampadari in cristallo e l'arco delle scale che si aprono di fronte all'ingresso. Uno spesso strato di polvere appanna il mobilio e i tappeti, dove un tempo si tenevano variopinte feste e balli adesso solo un velo grigiastro. I raggi del sole, risucchiati dalle tende, illuminano gli interni di nostalgia.
Trovo la stanza di Clara al piano superiore. Seppure non l'abbia mai vista prima, non ho dubbi: questa camera è soffice e rosa come era lei. Sul letto i peluches aspettano ancora che lei torni ad abbracciarli, sulla toeletta nastri e fiocchi sparpagliati attendono di cingere i crini d'oro di quella bambina che ogni sera sedeva davanti allo specchio e veniva spazzolata con cura. La vedo, seduta sulla poltroncina in legno imbottita, con lo sguardo perso fuori dalla finestra, oltre la spiaggia, nel mare.
In un angolo, numerosi giocattoli giacciono accatastati all'interno di una cesta in vimini. Mi inginocchio a guardarli meglio, li sollevo, li spargo sul pavimento senza trovare quello che cerco.
Mi getto di spalle sul letto. Stringo in mano quella busta che mi è stata consegnata quattro giorni fa insieme all'atto di proprietà della casa, senza trovare il coraggio di aprirla.
Mi ritrovo a pensare a Clara: si è distesa su questo stesso materasso innumerevoli volte.
Con le lenzuola tirate fin sopra la testa, ruotava la chiave dorata e la ballerina cominciava a danzare al suono del carillon. Le note delicate si fondevano ai suoi singhiozzi sommessi, mentre lacrime calde le rigavano le guance rosee. Poi, quando la musica aveva assorbito tutta la tristezza e il sonno premeva troppo sulle palpebre, Clara richiudeva la ballerina nella sua prigione di legno e riponeva il carillon vicino a sé, ma in un posto in cui non corresse il rischio di danneggiarsi.
Mi tiro su di scatto.
Mi inginocchio al bordo del letto e sollevo le coperte che sfiorano il pavimento: al di sotto del letto, circondato dalla polvere, il carillon ha atteso in silenzio che qualcuno gli restituisse la voce.
La scatola circolare col coperchio a punta ricorda il tendone di un circo. Le mie mani percorrono la superfice lignea laccata di bianco, ancora perfettamente liscia sotto le dita e quasi per nulla impolverata.
Uno scatto secco ne accompagna l'apertura, svelando l'effige di una ragazza avvolta in un tutù rosa confetto. Un paio di giri della chiave dorata e le note si diffondono una dopo l'altra, spezzando il silenzio che ha pervaso la casa per anni. La ballerina comincia a ruotare su se stessa, accarezzata dai toni delicati e dal lieve retrogusto metallico dello strumento.
Chiudo gli occhi e, al di là delle mie palpebre serrate, lo chignon color cioccolato della statuina assume i toni dell'oro e i tratti scolpiti del suo viso quelli delicati e un po' arrotondati del viso di Clara.
Balla sulla spiaggia, Clara, come il giorno in cui l'ho conosciuta. Tiene il carillon aperto ai suoi piedi e vi danza attorno, sollevando leggere volute di sabbia al ritmo della melodia che guida i suoi gesti.
Io mi avvicino, in punta di piedi e trattenendo il fiato, impaurita dalla possibilità di spezzare quell'incantesimo con la mia presenza.
La bambina, all'incirca della mia stessa età, tiene gli occhi chiusi e si lascia cullare dalla musica, leggiadra e sublime. Ha le labbra leggermente schiuse e il viso disteso e candido. Sembra di porcellana tanto è perfetta. E per quella sua perfezione così pura e intoccabile, fragile come una scultura di vetro, provo una fitta allo stomaco che è un misto di invidia e profonda pietà.
Quando la musica si ferma, lei mi da le spalle. Sospira a lungo, guardando la grande casa bianca alla fine della spiaggia, poi si china lentamente a recuperare dalla sabbia il carillon ormai muto. Finalmente mi vede.
Ci incontrammo sulla spiaggia io e Clara, due bambine della stessa età, venute entrambe a trascorrere le vacanze al mare, due realtà opposte: io, con i miei abiti dimessi e un appartamento di tre stanze in affitto e lei, con il suo vestito tutto chiffon e nastri di raso e una villa che somigliava a un castello.
Due bambine sole, perse su una spiaggia e ritrovatesi in un pomeriggio di metà luglio.
Correvamo sulla spiaggia io e Clara, facevamo a gara a chi arrivava prima al lembo sottile in cui la sabbia cedeva il passo agli scogli, raccoglievamo conchiglie bianche sul bagnasciuga e costruivamo castelli in riva al mare.
Clara prendeva sempre in prestito qualche mio vestito, così da non sporcare i suoi abiti raffinati, e non si fermava mai. Inventava ogni giorno nuovi giochi, correva come se fosse la prima volta in cui poteva essere libera, saltava e rideva e i suoi occhi brillavano di vita.
Mia mamma cucinava per entrambe e lei mangiava tutto fino all'ultimo boccone. Mi stupivo di come Clara, abituata a cuochi e piatti dai sapori ben più ricercati, potesse trovare squisiti quei cibi semplici per i quali io a volte storcevo il naso e facevo i capricci.
Al tramonto, Clara mi insegnava a ballare al suono di quello stesso carillon che ora reggo tra le mani, mi contagiava ampi sorrisi sulle labbra, mi rendeva felice con la sua sola presenza.
Quando il sole tramontava, i suoi sorrisi si smorzavano e tutta l'allegria che aveva dominato il giorno appassiva. Abbassava lo sguardo e indugiava, rigirandosi tra le mani il carillon.
Mi faceva promettere che l'avrei aspettata per giocare l'indomani e mi prometteva a sua volta che sarebbe tornata da me. Poi si voltava e correva via senza guardarsi mai indietro.
Clara manteneva le promesse. Tornava sempre, con quel suo buffo carillon.
Un giorno, mentre sedevamo sugli scogli a raccogliere i granchietti che si incastravano tra gli incavi della roccia, mi disse che era un regalo di sua nonna, che glielo aveva lasciato prima di addormentarsi per sempre. Sua nonna aveva danzato su quelle note e le aveva insegnato a ballare, come adesso faceva lei con me. Clara non se ne separava mai.
Ora lo aveva lasciato in quella casa, certa che dove sarebbe andata non le sarebbe più servito, per custodirne la memoria.
Clara non mi parlava quasi mai dei suoi genitori, in compenso voleva sapere tutto di me e della mia vita. Le piaceva guardare le foto di famiglia che mia madre aveva portato con sé, diceva che erano diverse da quelle in casa sua, che nelle nostre tutti sorridevano.
I suoi genitori li avevo visti soltanto una volta, mentre ritornavano da un viaggio a bordo della loro barca. Io e Clara stavamo giocando sulla riva, ci avvicinavamo all'acqua e poi correvamo via all'indietro, sfidando le onde a prenderci i piedi. Io ero ruzzolata giù, finendo seduta per terra, e Clara mi si era fermata di fianco ridendo. Allora li avevamo visti: la mamma di Clara, una silouette magra avvolta in un abito lungo e bianco, con un cappello a tesa larga a nasconderne il viso, e il papà di Clara, in un completo giacca e pantaloni di un marroncino chiaro. Si erano incamminati sul pontile a passo lento ma sicuro, mentre un domestico dietro di loro trascinava un bagaglio all'apparenza alquanto pesante e altri domestici correvano loro incontro per accoglierli in casa.
Clara si era bloccata qualche secondo a guardarli, con gli occhi sbarrati e quella risata limpida tramutatasi in un filo di voce che le era rimasto incastrato in gola.
Prima che avessi il tempo per chiederle qualcosa, aveva recuperato i suoi vestiti e, tenendo i sandali laccati in mano, era corsa via.
Quella volta, prima di andarsene, non aveva avuto il tempo di promettermi che sarebbe tornata.
Il giorno seguente non la vidi.
Passai la giornata sulla riva a fissare la casa, sicura che a un certo punto l'avrei vista correre verso di me, con il suo carillon e il vestitino bianco e dalla gonna ampia. Non volli giocare né mangiare, e mia madre dovette trascinarmi in casa di peso quella sera.
Al terzo giorno mi decisi ad andare fino a casa di Clara.
Una volta giunta abbastanza vicino, udii delle voci. Nascosta dietro un cespuglio, vidi Clara correre sul pontile, pregare i suoi genitori di non partire e poi accasciarsi sul pavimento ligneo all'allontanarsi dell'imbarcazione dalla terraferma.
Il suo pianto disperato mi era riecheggiato in testa mentre correvo via verso casa e l'immagine della governante che la trascinava in casa mentre lei si dimenava mi tormentò la notte.
La mattina seguente trovai Clara in riva al mare. Un grande sorriso le illuminava il volto da parte a parte e i suoi occhi azzurri, grandi e sereni, non mostravano alcuna traccia della tempesta che li aveva attraversati.
Non parlai mai a Clara di quello che avevo visto né lo fece lei, non le chiesi più dei suoi genitori e ripresi a comportarmi come sempre.
Giocammo e vivemmo insieme per le successive due settimane, poi l'estate finì e dovetti lasciare l'appartamento vicino al mare e quella che era diventata la mia migliore amica.
Ci promettemmo di rivederci l'anno successivo.
Le estati successive io però non tornai in quel luogo. Mio padre aveva ottenuto un nuovo lavoro in un'altra città, su al nord, così non potemmo più tornare in Calabria per le vacanze.
Clara non la rividi mai più.
Per anni mi sono ritrovata a pensare a lei, a immaginarla su quella spiaggia da sola, abbandonata. Che persona orribile deve avermi considerata per tutti questi anni!
Torno di nuovo sulla spiaggia. È già sera e il lido è quasi deserto. Sulle spiaggine a righe bianche e blu sono rimasti solo una coppia di giovani innamorati e una famiglia intenta a scattarsi foto al tramonto.
Mi siedo in riva al mare, mi tolgo i sandali e lascio che l'acqua mi solletichi le dita.
Ho richiuso la porta della grande casa bianca alle mie spalle, ricacciandoci dentro tutti i ricordi di quelle vite che non mi sono mai appartenute.
Per me ho tenuto solo il carillon. Quel carillon da cui Clara non si sarebbe mai separata, quel carillon che ha deciso di lasciare in quella casa, dove ormai non si recava da anni, affinché io lo trovassi.
Lo stringo al petto, incurante delle voci allegre che si alzano a pochi passi da me.
Questo è il posto giusto ed è il momento giusto.
"Come ti avevo promesso, sono infine ritornata" dico, certa che lei possa sentirmi al di là delle onde; ma è troppo tardi ormai.
La busta contiene una lettera di poche righe. I miei occhi si bloccano su quella grafia sottile e ordinata che mi colpisce dritta al cuore.
Alla mia migliore amica,
so che ne avrai cura. Se mai avrai una figlia, insegnale a danzare su queste note.
Con affetto,
Clara
Il nodo che avevo nel petto si scioglie violentemente. Nelle sue parole non c'è traccia di quella delusione che deve aver pur provato non vedendomi più tornare. Il senso di colpa mi abbandona lentamente, si scioglie come schiuma nel mare.
Ha vissuto per tutta la vita da sola, Clara, incapace di liberarsi di quella tristezza che aveva permeato la sua infanzia. Ha vissuto cullandosi nel ricordo di quell'estate in cui, per la prima volta, aveva avuto un'amica e una famiglia a volerle bene.
Ha vissuto fino a quando il peso della solitudine non si è fatto troppo gravoso da reggere, per poi lasciarsi affondare proprio in quelle acque che l'avevano vista crescere, agli inizi di maggio.
Non ha voluto aspettare che tornasse l'estate, non ha voluto imbrattare quei ricordi felici.
Una bambina mi passa vicino. Ha circa sette anni, due trecce biondissime e stringe in mano una paletta di plastica rossa. Mi guarda, e per un momento io guardo lei, i suoi occhi azzurri e innocenti riflettono la mia immagine desolata. Poi corre via.
Il silenzio torna ad avvolgermi.
Immagino i suoi piedini leggeri scalpitare tra le conchiglie, le sue manine morbide e piene di granelli di sabbia tirare con insistenza la gamba della sua mamma. "Mamma! Mamma!" le dirà, "c'è una signora strana laggiù. Sta seduta davanti al mare, e piange."
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