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Tutto aveva avuto inizio una notte, una notte incastrata in disordine tra tante altre. Una notte che avrebbe collezionato prima e poi dimenticato velocemente. Quella notte in cui decise di proposito di tornare a casa attorno all'una di notte o più tardi per non doversi scontrare con i genitori. Lo faceva spesso, era abituale mangiare un panino e una birra sul ciglio del marciapiede, poi bighellonare pericolosamente a notte fonda tra i marciapiedi a malapena tinti del giallognolo dei lampioni, che incorniciavano la strada su cui passavano le macchine.

Lei, ragazza di sedici anni, con i capelli corti color carbone, che cercava insistentemente di chiudere la porta della propria stanza per annegarsi nella disperazione nel buio della camera. Non era nata nella famiglia perfetta che chiunque merita: tutt'altro. Lei faceva del suo meglio per mettere un limite tra quello che poteva mostrare e tutto l'uragano che le attorcigliava lo stomaco, ma talvolta succedeva che crollava. È da tutti crollare, è umano.

Ma quella notte fu diversa: dopo aver indossato felpa e pantaloncini per rintanarsi sotto le coperte, chiudere gli occhi e camminare dentro i propri irrangiugibili sogni, la battaglia si ripresentò dietro la porta della sua stanza. Il fruscìo dell'acqua del lavandino e i singhiozzi di sua madre — che solo a quella tarda ora aveva deciso di pulire i piatti, in pace e senza gli interventi del "marito" — si trasformarono ben presto in una nuova lite, appena l'uomo la raggiunse in cucina. Le urla si alzarono come le onde di un mare in tempesta; le lacrime caddero dai suoi occhi, accovacciata ai piedi del letto, con la mano sulla bocca per coprire i singulti. Le minacce sembravano più reali di quelle che in genere venivano lanciate; così dalla paura, ma presa dal coraggio, chiamò le forze dell'ordine.

Passarono intorno ai venti minuti: venti minuti di suoni strazianti. Ci fu un caos sotto la propria abitazione e lei venne trasferita in una casa famiglia.

Venne assegnata ad una camera dove incontrò la propria compagna di stanza. Lei era una ragazza allegra, dai capelli rossi e gli occhi verdi che amava dipingere, amava la pace e spesso citava grandi scrittori russi — visto che il romanzo russo era il solo genere letterario che trovava accattivante. Sembravano il fuoco e l'oceano, ma riuscirono ad arrivare ad un punto d'accordo e avere una buona convivenza. Poi c'erano vari assistenti sociali che con la quale non andava d'accordo.

E poi c'era lui: quello che l'aveva presa a cuore più di chiunque altro. Egli era stato incaricato di aiutarla a fare terapia, ma lei faceva di tutto per non collaborare. S'impegnò a fondo per farla tornare a mangiare regolarmente, liberandola dai vari disturbi alimentari che le si erano radicati dentro; la liberò dall'istinto autolesionista e cercò di insegnarle quanto e perché la vita poteva essere bella. Le spiegò che il mondo là fuori era pieno di possibilità che aspettavano soltanto lei, se fosse uscita dalla sua mente. Lui non era tanto più grande di lei, solo quattro anni.

La sua compagna di stanza le spiegò che anche lui aveva avuto un passato traumatico, ed era per quello che era il più empatico, con loro, tra tutti gli altri. Tuttavia non sembrava che lei fosse interessata a quelle notizie. La sola cosa che voleva era preservare la propria mente, senza liberare ricordi, o pensieri, o reazioni emotive. Ma gli incubi tornavano ogni notte, intenzionati a divorarla nel sonno. E, uscendo di notte a prendere aria fresca, incontrava sempre lui seduto sulle scale, poggiato ad un pilastro, guardando le stelle.

«Perché le trovi così belle?» chiese lei.

«Perché fanno risplendere i miei ricordi.»

Non fu facile, anno dopo anno, aprire la bocca e parlare. Ma con lui sembrava essere tutto più semplice. Vedevano il passato l'uno dell'altro, e si prendevano per mano, consapevoli che nessun altro al mondo avrebbe potuto capirli come si capivano loro.

646 parole.

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