Prima prova
Era una notte buia e tempestosa. No, non è vero. Era una calma domenica mattina, il 25 febbraio. Il sole giocava sulla poca neve che ammantava le strade e ricopriva le macchine e i tetti di un leggero strato di brina. Erano all'incirca le undici, forse le undici e mezza, di quella che si prospettava essere una tranquilla giornata invernale.
Le famigliole sarebbero uscite dalla chiesa, pronte ad un pranzo in compagnia di qualche parente, o magari dirette al ristorante. Nel pomeriggio i bambini più piccoli sarebbero usciti in cortile a giocare con la neve, se non si fosse sciolta prima, imbacuccati nei cappottini e sorvegliati costantemente dalle madri. I ragazzi più grandi sarebbero andati a fare un giro in centro, o sarebbero rimasti in casa a studiare imprecando contro la verifica che incombeva il lunedì successivo. I nonni avrebbero gioito nel passare del tempo in compagnia dei nipotini. Le giovani donne ne avrebbero approfittato per farsi portare in giro dal fidanzato. I mariti si sarebbero concessi un po' di riposo in poltrona davanti alla classica partita domenicale, che è quasi d'obbligo seguire in diretta sul canale dello sport.
In quel momento, in quello stesso sperduto paesino del sud Italia chiamato Tricase, una giovane donna sui trent'anni veniva portata d'urgenza in sala operatoria. Era l'anno 2001. Il 25 febbraio del 2001. L'unico anno durante il quale nevicò a Tricase. Scoccata la mezza, l'ora di pranzo per convenzione, il pianto di una neonata, scatenato da qualche pacca del dottore, riempì la stanza dove la signora era stata condotta. Dopo un giorno e una notte di travaglio, nata in ritardo e di parto cesareo, finalmente la tanto attesa bambina aprì gli occhi sul mondo.
Era una bella bambina, quella; era nata con gli occhi azzurri, come tutti i neonati, ma non ci era voluto molto perché si scurissero, e diventassero uno specchio di tenebre. Neri come la notte più oscura, tanto che era pressoché impossibile distinguere la pupilla dall'iride. I capelli, invece, erano sul biondo cenere, e di tal colore rimasero per almeno quattro anni, prima che anche loro imboccassero la strada del buio, divenendo di un colore simile al cioccolato fuso.
A due anni le diagnosticarono l'ipermetropia, e da quel giorno i suoi occhi furono nascosti da un paio di lenti spesse come fondi di bottiglia, condanna che le rimase addosso fino ai giorni nostri. In quello stesso anno incominciò la scuola materna, non senza qualche difficoltà di adattamento. A tre anni già camminava. A quattro leggeva. A cinque scriveva. A sei era in seconda elementare, a sopportare l'indifferenza dei suoi compagni e l'inimicizia delle compagne.
La ragazzina, non più bimba, si sentiva sola. Come se la realtà la rifiutasse. I suoi genitori erano medici, e lavoravano praticamente sempre. A scuola non la degnavano di uno sguardo, perché, diciamocelo: se li meritava? Figuriamoci. Lei era la classica secchioncella dagli occhiali pesanti, chi mai avrebbe dovuto prestarle attenzione? Non era bella. Non era magra. Non era popolare. Non aveva degli occhi blu da sogno e non aveva i biondi boccoli che si inanellano sulla fronte e dietro le orecchie, non aveva un meraviglioso sorriso di cui tutti si innamorano all'istante e non aveva gli abiti che andavano di moda in quel periodo. Era quel tipo di ragazza che veniva usata come "punizione". Per la serie: "Guarda che se mi fai arrabbiare ti faccio rimanere solo con quella là." C'è forse da stupirsi se di amici ne aveva appena tre? Anzi, due. Una di essi partì per il suo paese d'origine, il Venezuela, neanche un anno dopo averla conosciuta. Si chiamava Sara. La ragazzina non la rivide mai più.
Un giorno, desiderando compagnia, chiese una sorella a sua madre. L'ottenne, e nacque l'8 giugno del 2007, di venerdì. Penserete ora che la ragazzina fosse contenta? No. Ma aveva una sorella! Sì, per modo di dire. La nuova arrivata era troppo piccola per stare con lei, diceva la madre. Che avesse un po' di pazienza, sarebbe cresciuta anche lei. Passò un anno. Ne passarono due, poi tre.
"Posso tenerla in braccio?" chiedeva la giovinetta a sua madre, tendendo le mani speranzosa a quella creaturina di tre anni.
"No." era la secca risposta. "Sei troppo piccola, e se poi ti cade?" si giustificava la donna, tenendo stretto al petto quel biondo fagottino dagli occhi color del mare.
Anche se era cresciuta, la giovinetta continuava a sentirsi sola. E cercava rifugio nell'unica compagnia che si era trovata: i libri. Mentre il mondo si dimenticava di lei sempre di più, lei era tutta intenta a costruirne uno suo, con mattoni e cemento, in modo che fosse abbastanza resistente da respingere gli sguardi carichi di critiche degli altri, e con fogli e parole, affinché potesse scivolarci dentro a suo piacimento. Ciò agli adulti non piaceva.
"È distratta. Costantemente distratta!" obiettavano le maestre. Naturale che lo fosse. Lei era una sognatrice, ma era anche una ribelle. Non mi volete e non mi avrete, aveva pensato, rifugiandosi tra i suoi pensieri, e dando libero sfogo al suo inconscio. Sognava e leggeva, leggeva e sognava. A questo si era ridotta la sua vita. Svegliarsi, scuola, compiti, leggere, fantasticare, dormire e ripetere tutto daccapo. Il suo piccolo mondo intanto cresceva, non era più una minuscola terra sperduta nel Paese della Fantasia, era un intero pianeta brulicante di vita, dove la ragazzetta era la regina e tutto ruotava attorno a lei. Ora era la realtà a perdere importanza, era il presente a sembrare scialbo e sbiadito, era il concreto che impallidiva di fronte al potere che quella piccola ragazza, bassina, con gli occhiali e una nuvola di ricci disordinati attorno al viso, racchiudeva dentro di sé.
Man mano che cresceva, continuava a farsi sempre più distante, ma nel suo giardino segreto c'era ancora una cosa che la rendeva, in fondo, una bambina: la luce. In quel luogo alieno e magico, che per lei era ormai così familiare, la ragazzina era felice. Questo finché, nella realtà, le accadde la prima di tante cose brutte. La prima ferita a sorpresa, la prima pugnalata alle spalle. Ed in quel momento fu il buio, dovunque. Notte perenne, sia fuori che dentro di lei. Sola, ferita, innamorata, rifiutata e triste, la ragazzina lasciò le elementari, trovandosi catapultata nella fossa dei leoni, completamente impreparata e abbandonata a sé stessa. Le scuole medie. Quel posto dove o sei qualcuno o non sei nessuno. E se non sei nessuno non meriti neanche di esistere.
La ragazza lì incontrò quello che sarebbe stato l'unico spiraglio di luce in una coltre oscura: un'altra ragazza come lei, sola come lei, cupa molto più di lei, un po' matta come lei, amante dei libri come lei, speciale e bella come nessun'altra. Una ragazza di nome Anna. Quella ragazza sarebbe diventata la sua migliore amica. Al suo fianco imparò a non aver paura del buio, ma ad apprezzare l'oscurità, perché in fondo tutti ne hanno almeno un po' dentro di sé. Anna la istruì, curando il suo cuore ferito, insegnandole ad essere forte, a farsi rispettare, e anche a tirare qualche cazzotto quando serviva. In tre anni entrambe cambiarono, divenendo molto di più. Se prima erano due anime sole, in balia del mondo circostante, ora si reggevano a vicenda, e nulla sarebbe più stato in grado di buttarle giù. Perché erano in due adesso, e guai a chi si azzardava a toccare l'altra.
Quella fu la data di morte della bambina di un tempo: adesso esisteva solo la nuova ragazza, cresciuta a libri e filo spinato. E se qualcuno avesse provato ancora a farle del male, avrebbe imparato presto che col filo spinato il più delle volte si muore. Le due amiche si separarono con fiumi di lacrime alla fine delle medie, poiché la ragazza aveva optato per il liceo classico ed Anna invece per l'istituto coreutico. Ciò nonostante la loro amicizia non ebbe termine, anzi, fu solo un incentivo a vedersi più spesso.
La ragazza, non appena ebbe modo di conoscere i nuovi compagni, si sentì... a casa. Per la prima volta, compresa. I precedenti compagni erano stati un fallimento, ma con questi si poteva tentare. Tentò. E andò bene. All'improvviso, si sentiva meno sola. Nonostante il suo cuore fosse stato nuovamente rubato e sbriciolato, a suo tempo. Continuò a leggere, a vivere nel suo mondo di carta, sogni e parole e a sopravvivere nella realtà, finché decise che le parole degli altri non le bastavano più. Ora era il suo turno di scrivere, e chissà che con le sue storie non avrebbe salvato qualcun altro, così come era accaduto a lei. Si iscrisse su Wattpad, e quello fu l'inizio di una fantastica avventura, ma questa... è un'altra storia.
Adesso posso dirlo: quella bambina, quella ragazzetta... ero io. Quella ragazza sono io. E questa, cari lettori e caro giudice, è la mia storia. La storia di una ragazza che viveva in un mondo troppo piccolo, e ne ha creato uno tutto suo. Il mio aspetto attuale non è cambiato poi molto, rispetto a quanto ho raccontato prima. Capelli scuri ricci e senza forma definita, occhi neri, odiati occhiali neri, felpa bianca, pantaloni viola scuro, scarpe da ginnastica, cuffie nelle orecchie e libro tra le mani. Questa sono io. Immaginatemi così.
Questa è Kira, signori miei. E Kira si è finalmente decisa a scrivere la cosa più difficile di tutte: la sua storia. Sì, perché alla fine è facile raccontare le avvenute di un personaggio: sei tu che gli dai un passato, e in base a quello determini il suo presente e il suo futuro. Il mio passato invece, proprio perché non ci vado molto d'accordo, è qualcosa che al massimo posso accennare a grandi linee, come ho fatto qui, ma non riuscirò mai a scriverlo tutto. Forse perché in fondo sono stata solo una stupida ragazzina asociale ed esclusa, che ha avuto un solo ragazzo in tutta la vita e così pochi amici da contarli in punta di dita. In sostanza, l'autobiografia è il testo che mi viene più complicato.
Come credo si sia capito, invece, ciò che mi piace di più è la fantasia. Dove posso essere la regina del mondo, la Dea onnipotente che fa quello che vuole, e tutti devono darle retta perché altrimenti una folgore tra capo e collo non gliela toglie nessuno, dove comando io e solo io. Ho manie di potere, mi dicono. Ma per il momento mi limito a esercitarlo solo sulla mia gatta e sui miei personaggi.
C'è qualcosa di cui però non ho parlato prima, quindi a scanso di equivoci riprendo l'argomento ora: i miei hobby. Un tempo ne avevo solo uno, ossia leggere. Non che io non legga più, anzi, divoro romanzi dell'orrore peggio di Homer Simpson con le ciambelle, ma faccio anche altro. Karate, ad esempio. Scrivo, ascolto musica (principalmente metal, rock o rap, come maestra Anna insegna) e sono dipendente dai videogiochi, del genere Tomb Rider, Uncharted, Mortal Kombat, FNAF, Prince of Persia, Assassin's Creed et similia. Roba leggera, insomma.
Direi che siamo alla fine, quindi, per concludere, farò finta di essere un giudice. Io direi solo una cosa, in merito a come scrivo. Ragazzina, prima cresci, e poi ne riparliamo. Ma cresci sul serio, questa volta. Un 6- per l'impegno, ma non sei niente di che. Sei mediocre.
Morale della favola: cosa può nascere da un disastro? Nient'altro che disastri.
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