Ottavo tema - Il Viale dei Sogni Infranti
Un passo risuonò appena sul selciato. Subito fu seguito da un altro, quindi da un terzo. Il rumore dell'acqua riempiva le orecchie della piccola figura che correva disperatamente per il lungomare, divorando sotto i piedi quella buia ed ampia strada. La lunga chioma scura le rimbalzava sulle spalle magre assieme al cappuccio della felpa, mentre le scarpe da ginnastica colpivano ripetutamente il terreno traslucido a causa della perpetua umidità recata dal mare, producendo piccoli tonfi ritmati col battito del cuore.
Lentamente, la ragazza iniziò a rallentare la sua andatura, il petto poco pronunciato scosso da brevi e violenti respiri, fino ad una più comoda camminata. Per un breve periodo si fermò del tutto, a scrutare le onde che si frangevano contro gli scogli in ampi spruzzi che ogni tanto arrivavano ad accarezzarle il viso già inumidito dalle copiose lacrime che l'avevano solcato.
Distolse lo sguardo, affondando ancora di più i denti nella morbida carne del labbro inferiore che tremava, per bloccare i singhiozzi che minacciavano di rompere l'arcana armonia data dal fragore degli schizzi. Odiava piangere rumorosamente, come fanno certe ragazzine, urlando e stringendo i pugni e disperandosi ad alta voce. Se si presentava l'occasione, preferiva farlo in silenzio, cullando il proprio dolore nel privato del suo cuore come fosse un bimbo in fasce.
Con un movimento rapido, quasi irato, si calò il cappuccio sul capo, nascondendo gli occhi castano scuro arrossati dal pianto, quindi affondò le mani intirizzite dal freddo nelle tasche e riprese a camminare. Una piccola ragazza avvolta in una felpa troppo grande per lei, affiancata da un millenario gigante dall'incredibile forza, che ora brontolava alla sua sinistra.
Camminava a capo chino, facendo attenzione a mettere ogni piede dentro una ed una sola pietra, sola e solitaria lungo quell'enorme viale, che costituiva il suo santuario. Il posto in cui amava rifugiarsi quando qualcosa la tormentava, perché si beava della compagnia di qualcuno che a volte le accarezzava dolcemente i piedi nudi mormorando rassicurante, altre pareva essere più tormentato di lei, con quei cupi e strazianti lamenti e le violente sferzate con cui assaliva la roccia. Quella era la sua catarsi.
Non sapeva dove stesse andando, e neanche le importava. Non aveva mai percorso tutto quanto il viale, perciò non sapeva se (o dove) terminasse, o se continuasse all'infinito in un limbo senza tempo di nebbia e notte e lievi spruzzi marini. Ma neppure questo la preoccupava. Le piaceva camminare lì, si sentiva come a casa, ed era una sensazione che paradossalmente non provava neanche nella sua vera dimora. Sollevò appena il volto, spaziando con la vista sul lungomare deserto e quasi totalmente oscuro, per poi spostarsi sulle poche case lì intorno, altrettanto buie, custodi dei sogni - o degli incubi - di coloro che le abitavano.
Avrebbe potuto benissimo essere l'unica sveglia in una città dormiente, considerata l'ora tarda, e magari lo era. Era sola, completamente sola, e da sola camminava incessantemente, come una marionetta mossa da fili invisibili e guidati da chissà quale entità. Chinò ancora la testa, osservandosi i piedi e sbirciando attraverso le proprie gambe scorgendo il profilo della sua ombra, più nero del buio stesso. L'unica a tenere il suo passo e ad accompagnarla nel suo percorso. Abbassò le palpebre per un istante, e quando le riaprì qualcosa era cambiato: un altro paio di scarpe sostava dietro le sue.
Due braccia le cinsero la vita, un corpo aderì al suo e un profumo familiare le solleticò le narici. Un caldo bacio le fu deposto sul collo, facendole correre tiepidi brividi lungo la schiena. Dentro il petto della ragazza qualcosa iniziò a sanguinare dolorosamente, con infinita lentezza. Un lieve sospiro le lasciò le labbra, tradendo il suo pianto.
Serrò con forza gli occhi, e quando li riaprì era tutto normale: tutto storto e, proprio per questo, normale. Era solo una piccola ragazza inchiodata in mezzo a una strada buia e desolata, nessuno la stava abbracciando e nessuno le aveva donato quel bacio. Nessuno, men che meno lui. Quei baci e quelle braccia e quel corpo e tutto quanto di lui ora apparteneva ad un'altra, probabilmente le era sempre appartenuto. Quello che aveva rivissuto era stato solo un lontano, vivido e dolorosissimo ricordo.
Forse, un desiderio. Un sogno.
Un sogno infranto.
Un altro anello da aggiungere a quella lunghissima catena fatta di delusioni e rimpianti che si trascinava dietro come un lugubre spettro peccatore, condannato a non veder mai la luce del riposo eterno.
Riprese a camminare.
Ora era di nuovo una ragazza, accompagnata solo dalla sua ombra, animata solo dai battiti del suo cuore che, nonostante tutto, la rendevano viva.
Il mare ruggiva al suo fianco, artigliando gli scogli e arrampicandosi fino al selciato, raggiunto il quale ricadeva giù e sollevava nuovi ringhi e nuovi spruzzi. Ora piccole goccioline salate cospargevano il tessuto della felpa, ma la ragazza camminava ancora, ignara della furia che già iniziava a scatenarsi. Il viale era scomparso ai suoi occhi, era rimasta solo una sottile linea che divideva la vita dalla morte, sulla quale lei avanzava come un'equilibrista, ma senza esserlo.
Qualcosa dentro di lei si era spezzato, o stava per farlo, e ad ogni suo passo le pareva di camminare sull'orlo di un precipizio: avvertiva la sensazione del vuoto, quel lieve campanello di allarme che tentava disperatamente di farsi sentire scandendo a grandi lettere "PERICOLO PERICOLO PERICOLO."
Il cellulare vibrò nella sua tasca, richiamando la sua attenzione per pochi istanti. La mano della ragazza si strinse attorno all'oggetto, e lo estrasse dopo un po' di esitazione. Lo schermo era di un giallo intenso, sul quale lampeggiavanp le parole: "Allerta meteo."
Lo sguardo della ragazza tornò a chinarsi sul selciato, ben presto raggiunto dal telefono che aveva lasciato cadere, senza fermare i propri passi. L'equilibrista sbagliò il movimento successivo e il vuoto si spalancò sotto di lei, avvolgendola in un abbraccio mortale. Parimenti, senza un grido la ragazza precipitava nel burrone sul quale aveva sostato, pure senza muoversi da quel viale.
Il Viale dei Sogni Infranti.
Il Santuario delle Promesse Non Mantenute.
Il Regno dei Ricordi Insanguinati.
In silenzio la ragazza continuava a camminare, senza alzare lo sguardo da terra. Le onde erano cresciute nel frattempo, e ora si slanciavano con l'audacia di cavalli selvaggi, inghiottendo gli scogli e cozzando contro l'esile ringhiera che le divideva dal viale.
Il cellulare abbandonato per terra era già stato reclamato dalla risacca, il cui padrone, non contento, allungava sempre più di frequente le lunghe dita gelate sull'unica presenza che osava restare indifferente ai suoi rombi rabbiosi.
La felpa era ormai zuppa, ma neppure di questo la ragazza si curava: ormai quella piccola linea nella sua mente, quella che divide follia e ragione, era stata abbattuta come una fragile diga spazzata via da quel fiume di lacrime e dolore.
Eppure, andava tutto bene. Era tutto fottuto nella vita della ragazza: famiglia, amici... amore. Ciò nonostante, andava tutto bene. Era questo ciò che pensava il mondo esterno di lei: va tutto bene. Chiunque la conoscesse nutriva questa convinzione, per il semplice fatto che non la conosceva affatto: aveva semplicemente creduto al suo eterno carnevale di sorrisi, battute e risate, fermandosi a ciò che la ragazza lasciava vedere, alla superficie.
Lei sorrideva, respirava, parlava, mangiava. Il cuore le batteva, il sangue circolava, i muscoli funzionavano. Dunque lei era viva e tutto andava bene.
Chissà cosa avrebbe pensato quella gente osservando le lacrime cristallizzate sul suo volto, quella gente così incapace di leggere tra le righe.
Il viale aveva una fine, dopotutto. Terminava in un anello sul mare, simile alla prua di una nave. La ringhiera lì lasciava il posto ad un basso muretto che le arrivava a stento al bacino, sul quale si sedette. Lasciò gambe a penzolare e abbracciò con lo sguardo la vastità del mare.
L'acqua ribolliva e spumeggiava furiosa, giungendo sino al muricciolo dove si era seduta e scontrandovisi con forza tale da far alzare alte torri liquide, di un candore lattiginoso. Numerosi cavalloni nascevano dalla furia degli elementi, ingaggiando una furiosa battaglia e offrendo uno spettacolo unico e terribile: la forza della natura.
Per la prima volta la ragazza parlò, mentre il vento le aveva strappato il cappuccio e il mare inzuppato gli abiti e i capelli: "Il mare è l'unico ladro gentile." sussurrò, lasciando che le sue parole andassero a perdersi nel fragore delle onde. "Tutti al mondo sono ladri, ma ciò che rubano lo tengono per sempre, lo sfruttano a proprio vantaggio o lo distruggono."
Si interruppe, lasciando libere le ultime lacrime che ancora conservava. Tutelata dal roboante urlo del mare, si lasciò persino sfuggire qualche singhiozzo. "Il mare è un ladro gentile..." cantilenò a bassa voce. "Tutto ciò che si prende, lo restituisce, mettendoci un po' di suo."
La tempesta non faceva altro che aumentare. Quasi incoraggiato da quelle parole che la ragazza aveva rivolto a lui e a lui soltanto, il mare la rese testimone di quanto grande era il suo potere. Sfogo tutta la sua collera profondendosi in innumerevoli scontri con tutto quanto intralciava il suo cammino, allagando il cerchio con cui il viale culminava e frustando con violenza quella figura solitaria.
Quando si placò l'ultima scarica con sufficiente potenza a raggiungere la ragazza, il muretto era un deserto infradiciato d'acqua salmastra.
Della ragazza dai lunghi capelli scuri, gli occhi pieni di lacrime e il cuore sanguinante, nessuna traccia. Di lei rimase solo il nome, prima che tre giorni dopo il mare tenesse fede alle sue parole e ne restituisse il corpo incrostato di sale.
Solo il nome.
Il nome.
Kira.
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