Finale - G4m3r

Horror fantascientifico

Ciao a tutti voi che, girovagando nel grande mondo virtuale del Deep Web, siete incappati in questo documento. Il mio nome è Nicholas Thompson, 21 anni, in arte G4m3r. E questa è la storia di come sono morto.

Ora, solo a leggere questa frase, metà di voi penserà ad una squallida storiella dell'orrore, mentre l'altra metà riterrà questo resoconto un mucchio di baggianate. Vi prego, ad ogni modo, di non cliccare subito quella x rossa in alto a destra. Dopotutto, che avete da perdere? Se avere trovato questa lettera dovreste essere abbastanza pratichi del Deep Web, e se lo siete, come presumo, il contenuto di queste righe non dovrebbe sconvolgervi più di tanto. In fondo circola parecchio materiale strano nelle profondità di Internet, quindi non dovrebbero certo stupirvi questi pochi paragrafi.

Se avete letto fin qui, allora avete deciso di andare avanti nella lettura, e, mi dispiace dirvelo, ora non si torna più indietro. Non vi preoccupate, non vi sto trascinando in nulla di illegale. Semplicemente, vi ho incastrati a leggere il mio manoscritto. Ora provateci pure, a cliccare quella x. O, se fate parte di quei nerd da scuola superiore, tentate di chiudere da prompt. Ops, ma guarda che peccato... non succede niente.

Lo so, lo so - non dovrei ricorrere a simili sotterfugi. Ma percepisco come un mio dovere personale diffondere ciò che ho scoperto. E condannarvi a restare bloccati su questa pagina fino alla fine della mia storia è stata l'unica soluzione a cui sono stato in grado di pensare nei pochi giorni che hanno preceduto la mia dipartita.

Direi che a questo punto mi sono dilungato abbastanza con quella che doveva essere solo una piccola premessa. Spero di non avervi annoiato, anzi di aver acceso in voi una scintilla di curiosità. Se così non è, pazienza. Vi auguro comunque una buona lettura.

È cominciato tutto tre settimane e mezzo prima della stesura di questo resoconto. Natale 2054.

Il primo ricordo che riconduco immediatamente a quel Natale è il rosso. Era tutto quanto rosso. Rossa era la tovaglia che rivestiva il grande tavolo del cenone. Rossi erano i decori sull'albero. Rosso il fuoco che divorava i ciocchi d'ulivo nel camino. Rosso il morbido maglione di mia sorella minore, nel quale sembrava quasi annegare. Rossi i lunghi ricci della mia compagna, Synnøve. Rosso il vischio sotto il quale ci scambiammo un dolce e ardente bacio. Rosso era anche il colore di quel bacio.

Quel giorno non era solo Natale, avevo anche appena compiuto i miei magnifici 21. Ero sempre stato un bel ragazzo, fin da bambino, ma durante l'estate avevo raggiunto quel che si dice il fiore degli anni: avevo cresciuto appena i miei capelli neri, tanto da portarli legati in un pratico codino per non averli sempre sul collo. Nulla da fare c'era purtroppo stato per gli occhi, che sin dalla mia più tenera età non hanno fatto altro che mutare di colore in rapporto alle condizioni meteorologiche. Avevo raggiunto tranquillamente il metro e ottanta, e la mia passione ancestrale per l'allenamento fisico mi aveva ricompensato con un corpo muscoloso al punto giusto, senza eccessi ma grossomodo senza difetti. Ciò non si intenda come una mia superba concezione, sia chiaro. Ero semplicemente in forma, e lo ammetto senza falsa modestia.

Negli anni, soprattutto quelli della mia adolescenza, iniziai a nutrire uno spassionato amore nei confronti della tecnologia. Fui talmente attratto dal mondo virtuale - ed in particolare da quella porzione adibita a simulare la realtà - che iniziai a documentarmi in tutti i modi possibili su qualunque cosa avesse anche solo lontanamente a che fare col digitale. Poi... conobbi il Deep Web. Ricordo perfettamente le conseguenze a breve termine che dovetti sopportare quando in classe mi scappò detto che genere di passione avesse così violentemente rubato il mio cuore di giovanotto.

In quell'anno, per fortuna l'ultimo prima del liceo, furono più numerose le volte in cui la mia faccia sbatté contro la sudicia tavoletta del water nel bagno dei maschi che le volte in cui entrai in quel bagno volontariamente.

Neanche fra le mura di casa incontrai qualcuno che sposasse la mia filosofia. Mia sorella, con mio sommo dispiacere, era più antitecnologica di un uomo preistorico, e di mio padre non vale neanche la pena parlare. Quanto alla mia dolcissima madre, non faceva altro che urlarmi contro perché, nella sua distorta visione del mondo attraverso la lente della sua costante apprensione, riteneva tutto quanto non avesse stretto legame con lo studio una totale perdita di tempo.

Quindi il mio fu un amore segreto, che culminò finalmente parecchi anni dopo in quel famoso Natale durante il quale non solo fui viziato come un ragazzino con un terzo dei miei anni, ma ricevetti anche uno splendido regalo da quel tesoro della mia ragazza.

Rimasi parecchio stupito, e forse un po' deluso, quando nel mio pacchettino trovai un semplicissimo microchip. Quei cosi costituivano l'ordine del giorno, avrei potuto comprarne uno su qualunque sito di acquisti. Erano in pratica l'equivalente delle usb che erano così in voga una trentina d'anni fa. Solo quando lo appoggiai sulla piattaforma di lettura capii.

Oltre a lei, nessuno era mai venuto a conoscenza del desiderio più oscuro che era derivato dall'interesse per il Deep Web. Era una cosa che mi affascinava ma a contempo mi metteva addosso brividi di sincero timore, quasi reverenziale: il mondo dell'hacking. La prospettiva di essere uno di quegli esseri onnipotenti e irrintracciabili, come fossero dei nel mondo di Internet, mi esaltava e mi metteva in subbuglio lo stomaco, con un misto di repulsione e morboso interesse.

Fino ad allora non avevo avuto il coraggio di immergermi in quel mondo oscuro, mi ero limitato a sfiorarne appena la superficie. Immaginate ora la mia reazione quando in quel chip trovai uno dei più potenti programmi pirata mai creati. Mi morsi il labbro, inizialmente indeciso. Poi lo lanciai.

Il megaschermo del mio potente computer divenne nero, poi si accese di un'intensa luce verde, quasi psichedelica. Lentamente, con l'effetto di digitazione di quelle antichissime macchine da scrivere, comparvero i fatidici termini: username e password.

Osservai quelle parole in bianco, ipnotizzato. Era il mio più grande sogno. Entrare a far parte di quell'Olimpo di mortali. E quello era il grande passo. Stavo per compierlo. Finalmente. Creai un nuovo profilo, e attentamente valutai quale nome scegliere. Non era facile, considerato che dopo non avrei più potuto cambiarlo. Mi vennero in mente varie possibilità, ed in ognuna avevo tentato di includere quella sensazione di timoroso rispetto che volevo che ognuno provasse, ma nessuno di quei nomignoli mi soddisfaceva appieno.

Infine ripensai a ciò che aveva causato il mio avvento sul web: innocui e innocenti videogiochi truccati. Allora mi venne l'illuminazione: G4m3r. In fondo, perché no? Io stavo giocando a fare il dio. Un dio virtuale, protetto da pochi millimetri di vetro e armato di tastiera e codici. Trema, mondo. Arriva il Giocatore. Non un giocatore, l'unico e solo. Aggiunsi la password e toccai invio. Attesi.

Il processore iniziò a fare le fusa come un gattino. L'aria intiepidita uscì fuori dalle prese adibite. Strinsi i pugni, al colmo della frenesia, osservando rapito quella macchina che respirava e ragionava come e meglio di un essere umano. Il computer... è l'uomo 2.0. La versione aggiornata e debuggata, priva di ciò che la rende fallace: il sentimento. Commenterete: strane parole per uno che è felicemente fidanzato. Ebbene sì. Se il pensiero razionale mi porta a queste deduzioni, la natura umana mi tiene ancora e sempre attaccato alle emozioni.

Dopo pochi secondi di attesa, si aprì la tipica schermata del browser; unica differenza, i colori erano in negativo. Cercai una parola a caso, quindi premetti il tasto che riportava alla schermata precedente: nulla. Sorrisi. Era come se non esistessi. A quel punto, decisi di dedicarmi a tempo pieno al mio nuovo lavoro. Mi misi alla ricerca di un profilo qualunque appartenente a un utente poco conosciuto. Quello doveva essere il mio battesimo. Il mio rito d'iniziazione.

Avevo appena trovato un'utente che faceva esattamente al caso mio, quando improvvisamente un trillo interruppe il mio approccio quasi religioso. A quanto pareva quel programma funzionava alla maniera di un network, poiché ricevetti un messaggio.

"H3ll0, G4m3r." Recitava il testo, accompagnato dal nome del mittente: 0mn1pr3s3nt 3nt1ty. Credo che quella di intercalare numeri e lettere fosse una specie di linguaggio in codice, talmente alla portata di tutti che a pochi veniva in mente di leggere i numeri come fossero lettere. Incuriosito, selezionai il messaggio, che mi rimandò a quella che sembrava una qualsiasi chatroom.

"H3ll0." Risposi, adattandomi al "codice".

"R u n3w th3r3?" Sei nuovo qui? Dubitavo fossero pochi i novellini, per cui mi insospettii appena. Che mi stesse monitorando? In ogni caso, optai per la sincerità.

"Y3p."

"S0 u n33d a tut0r14l." Io? Bisogno della guida pratica per principianti? Che sfacciato. Però ripensandoci, nel mondo dell'hacking bisogna migliorare ogni giorno di più. E per farlo l'unico modo ragionevole è accettare i consigli. Risposi dunque con un evasivo "M4yb3..." Forse.

"G00d. H3r3's 4 u. Th1s l1nk 1s 2 h3lp u 2 1mpr0v3 y0ur sk1lls. 3nj0y :)". Bene, lessi. Questo è per te. Questo link è per aiutarti a migliorare le tue abilità. Divertiti. Come promesso, sotto al messaggio, il link in questione era il seguente: wiw.013331.gmr.

La cosa mi lasciò abbastanza perplesso. Ero abituato alla sigla wiw (Wordwide Internet Wealth), ma quell'ammasso di numeri non richiamava nulla di familiare. Inoltre non credevo esistesse .gmr come estensione. Un campanello d'allarme prese a squillarmi nelle orecchie. Io ho sempre avuto la mania di tenere tutto quanto sotto controllo: quando qualcosa mi sfuggiva dalle dita, divenivo preda totale del panico. E lì eravamo ben oltre lo sfuggire dalle dita. Quel piccolo pesciolino che per pochi istanti mi aveva dato una sensazione di onnipotenza mentre lo stringevo, mi era scappato tornando a tuffarsi nelle buie acque inesplorate dalle quali l'avevo tratto.

I respiri accelerarono. Il battito perse la sua regolarità. Brividi gelidi mi presero a percorrere la schiena, strappandomi goccioline di sudore freddo. Consapevole di star perdendo la calma per un nonnulla, mi raggomitolai su me stesso, passandomi forsennatamente le dita fra i capelli nel tentativo di riprendere il controllo. Rovinai giù dalla mia sedia, che scivolò sulle rotelle all'indietro fino a scontrarsi col letto. Mi ritrovai chiuso a riccio, scosso da violenti spasmi. Percepivo a stento il freddo delle mattonelle contro il mio viso, stordito dalla paura irrazionale e da dolorose fitte al centro del petto. Immagino che sarete sorpresi da questa reazione. Ebbene, se lo siete, è evidente che non abbiate mai avuto un attacco di panico per una vostra insulsa fobia.

Tremante, mi costrinsi a staccare una mano dalla mi schiena, allungandola fino al cassetto più in basso della scrivania. Non era facile aprirlo con le dita che vacillavano, quasi fossi attraversato da forti scariche elettriche, ma ci riuscii. Recuperai in qualche modo il piccolo contenitore giallo al suo interno e lo portai alle labbra, tirando via con i denti il coperchio e ingurgitandone il contenuto. Bastarono un paio di minuti e la tensione finalmente mi abbandonò le membra, lasciandomi indolenzito e sudato come fossi febbricitante.

Recuperai la sedia e mi ci lasciai cadere pesantemente sopra, poiché mi ero sì rimesso in piedi, ma dubitavo delle mie gambe. Fissai il monitor, irato dal fatto che un semplice messaggio mi avesse procurato un attacco di panico di quella portata. Aprii il link, quasi perforando lo schermo con lo sguardo. Lo schermo divenne di nuovo totalmente nero.

All'improvviso, incominciò a comparire una scritta. Stavolta il linguaggio era quello comune, ma ciò non la rendeva meno inquietante.

"Hello, cute new friend. You are a G4m3r, this is a game. But it's MY game. What will you do? Ready to stake your soul?"

Ciao, dolce nuovo amico. Tu sei un giocatore, questo è un gioco. Ma è il MIO gioco. Che farai? Pronto a mettere in gioco la tua anima? Che idiozia. Ovviamente no! Tentai in tutti i modi di tornare indietro, finanche spegnendo il computer. Nulla da fare. L'unica azione permessa era il pulsante PLAY NOW. E io ovviamente cosa feci, dall'alto della mia brillante intelligenza?

Cliccai il pulsante.

E, nel momento stesso, dissi inconsapevolmente addio alla mia vita terrena.

In quel preciso istante, svenni sulla tastiera.

***

Quando riaprii gli occhi fui ferito dalla forte luce del giorno. Mi alzai a fatica dal terreno, che pareva una strada a malapena battuta. Attorno a me numerosi passanti in abiti rinascimentali mi osservavano distrattamente, oltrepassandomi senza prestarmi attenzione. Mi voltai, sentendomi osservato, e non potei fare a meno di sussultare. Una figura in bianco si stagliava contro quello che sembrava il Duomo di Firenze.

Un cappuccio candido gli nascondeva il viso, una cappa scura gli scendeva sulla spalla sinistra e una fusciacca rosso sangue gli cingeva la vita, sulla quale quella che ricorda una fiamma stilizzata si innalzava verso il petto. Ai piedi calzava pesanti stivali alti fino al ginocchio, che si mossero guidati dal suo passo sicuro nell'avvicinarsi.

Guidato a mia volta dall'istinto, indietreggiai, senza staccare lo sguardo dall'uomo che si era fermato a pochi passi da me. Un inquietante sorriso gli deformò il volto mentre tese la mano destra, coperta da un guanto, al mio indirizzo. Spostai lo sguardo su di essa, disorientato da quello che ricordava un gesto di pace. Quando però compì un quasi impercettibile movimento col palmo, realizzai, e la paura tornò ad allungare le sue dita gelate su di me. Una lama celata, di circa quindici centimetri e all'apparenza estremamente affilata guardava minacciosa verso il mio petto indifeso.

Deglutii piano, osservando ad occhi sbarrati l'uomo tornare ad avanzare. Indietreggiai ulteriormente, finché non sentii una solida parete alle mie spalle. Ero in trappola. Rapido come una lepre l'uomo mi fu addosso, e affondò con sicurezza la lama al centro del torace. Gridai di dolore, accasciandomi fra le sue braccia che, inaspettatamente, mi sostennero accompagnandomi a terra.

"C-chi sei?" ebbi a malapena la forza di sussurrare, sentendomi già morire.

Il mio assassino allargò ulteriormente il suo sorriso, rigirando sadicamente quella sorta di pugnale nella ferita. Gemetti, col respiro mozzato. "Io sono Ezio Auditore, l'Assassino. Il primo incubo di una lunga serie." scandì con calma, estraendo improvvisamente l'arma.

Urlai di nuovo, mentre sentivo il petto andare a fuoco, come fosse divorato da fiamme inesistenti. Un fiotto di sangue scarlatto schizzò dalla ferita, confondendosi col rosso della fusciacca dell'Assassino. Il secondo colpo mi recise di netto la gola, e tutto quanto si fece buio mentre un dolore indicibile mi attanagliava le membra. L'ultima cosa che udii fu una voce che mi scherniva: "Hai perso troppo facilmente, Giocatore... ci vediamo nel prossimo livello. Requiescat in pace."

Di nuovo, scivolai nell'incoscienza.

***

Rinvenni, con mio sommo stupore - insomma, ero appena crepato in una Firenze rinascimentale - dopo un tempo che non riuscii a definire. Un cielo terso e senza nubi, di un blu intenso, mi si offrì agli occhi appena aperti. Sotto il mio corpo disteso avvertivo la consistenza morbida e appena inumidita dell'erba fresca, mai tagliata. Mi alzai a fatica, mettendo a fuoco quella che sul momento ritenni essere un'ampia radura verdeggiante.

Non appena mi rimisi in piedi puntini neri presero a danzarmi davanti agli occhi, e la testa a girare vorticosamente, mentre forti conati mi artigliavano la bocca dello stomaco. Non ressi a lungo; caddi nuovamente in ginocchio e vomitai. Rimasi in quella posizione, scosso da spasmi e violenti colpi di tosse, finché non ebbi restituito con gli interessi qualunque cosa avessi ingerito nel corso della mia vita.

Mi raddrizzai, con l'amaro sapore della bile in bocca, e mi appoggiai al primo albero. Colsi l'occasione per guardarmi intorno, cercando di capire in quale posto fossi finito. Ero al centro di un cerchio composto da dodici alberi disposti con precisione geometrica, troppo accurata per essere naturale. intorno a me, da ogni lato, si estendeva a perdita d'occhio un bosco fittissimo, impossibile da attraversare con lo sguardo.

Di nuovo la spiacevolissima sensazione di essere in trappola, o, per meglio dire, la certezza di esserlo, si diffuse dentro di me. Come avrei potuto attraversare quella distesa verde che pareva infinita? Quale direzione era la giusta?

"Ti sei perso, cavaliere?" una dolcissima voce femminile interruppe le mie elucubrazioni.

Sussultai per la sorpresa, voltandomi nella direzione da cui proveniva la voce. Impietrii all'istante: sull'erba giaceva una ragazza, la cui bellezza sarebbe sminuita da qualunque descrizione. Tenterò comunque di farvi avere un'idea, visto che rendere la perfezione di quella creatura a parole sarebbe impossibile.

Lunghi boccoli biondi si inanellavano sul terreno, accarezzati dai fili d'erba, e un morbido ciuffo le solleticava la guancia sinistra, accompagnato da qualche ciocca sporadica che, arricciandosi appena, scivolava lungo il suo corpo come acqua dorata. Sul volto diafano e privo di qualsiasi imperfezione brillavano due grandi e innocenti occhi di un raro e magnetico color violetta. Aveva un corpo minuto e magro, ma così ben fatto che pareva costruito su misura per il piacere: forme piene, curve sinuose, gambe magre e lunghissime accavallate con grazia tale che sembrava che ognuna stesse baciando l'altra. Era avvolta da un abito scarlatto, color del sangue appena versato, con una scollatura a cuore che la fasciava meravigliosamente, evidenziando i punti giusti e fermandosi appena sopra le ginocchia.

Tutto quanto di lei evocava un'unica parola: FATA.

Restai inchiodato a fissarla, con la bocca impastata, incapace di qualunque pensiero razionale che avesse anche solo un minimo di castità. Il respiro veniva difficile, e l'autocontrollo ancor di più: non mi sarei stupito se avessi scoperto che quella ragazza era la Tentazione incarnata.

Lei rise, una risata cristallina e argentata come il tintinnio di un bicchiere da spumante, voltandosi prona e appoggiando il viso sulle mani. "Aroha."

"C-come?" balbettai, ancora con la testa completamente fra le nuvole.

"Aroha." ripeté. "È il mio nome. Non vuoi dirmi il tuo?" sussurrò, seducente.

Istantaneamente il mio sguardo si spostò sulle sue labbra piene e rosee, delicate, incurvate in un sorriso irresistibile. Mi ritrovai a immaginare come sarebbe stato baciare quelle labbra, assaporarle, morderle... scossi con forza la testa, riscuotendomi un poco. Ero come stregato, ammaliato dallo splendore a cui avevo il piacere di assistere. E, quel che è peggio, non volevo assolutamente rinsavire.

"Nicholas." riuscii ad articolare, dopo un lasso di tempo così elevato da farmi fare senza possibilità di salvezza la figura del mentecatto.

"E dimmi, cavaliere... per caso hai smarrito la via?"

Annuii, di nuovo privo della facoltà di parola. Ebbi la sensazione che neanche un santo sarebbe rimasto immune all'innata capacità di irretire che possedeva Aroha. Persino il suo nome suonava come la più sublime delle melodie.

Con un movimento fluido la bionda si alzò da terra, avvicinandosi a me col passo languido e felpato di una gatta. "Sei capitato a Nagkadaiya, cavaliere. Non è facile uscire da qui... ma io posso accompagnarti."

"S-sarebbe splendido." biascicai.

"Seguimi, cavaliere." sorrise, inoltrandosi con sicurezza nel folto del bosco.

Costrinsi i miei piedi a muoversi per obbedire al suo comando, e procedetti al suo fianco lasciandomi alle spalle la radura. La luce del sole scomparve rapidamente, offuscata dalle fronde degli alberi che ci trasportarono nel primo pomeriggio. I miei piedi affondavano nel muschio e nella vegetazione del sottobosco, così fitta da costituire un'inestricabile distesa di verde scuro.

L'aria era fresca e pura, leggermente pungente e aromatizzata con i mille fiori variopinti che crescevano un po' ovunque, accompagnati dal muschio e dalle piante selvatiche di tarassaco, ortica e cerfoglio.

Tutto era come avrebbe dovuto essere, fatta eccezione per un dettaglio: quella foresta era totalmente silenziosa. Non si sentiva il canto di un uccello, una cicala frinire, anche un solo singolo ronzio. La cosa era snervante, e non poco. A minare la mia tranquillità concorreva anche la boscaglia che, invece che diradarsi, si infittiva a ogni passo.

Aroha camminava pochi passi dietro di me, senza bisogno di guidarmi più di tanto visto che il sentiero era uno e appena visibile, di quelli battuti dagli animali selvaggi di cui non c'era la minima traccia.

All'improvviso il sentiero si interruppe, e mi ritrovai la strada completamente sbarrata da una schiera di alti larici; a tutti gli effetti, ero finito in un'area estremamente folta del bosco. Confuso, mi voltai verso la mia splendida accompagnatrice, che mi guardava con un sorriso sornione.

"Ahora... sei sicura che..." non finii mai quella frase.

Un ringhio contrasse il suo volto, e il suo aspetto da dea si sciolse sotto ai miei occhi. Le iridi color ametista furono inghiottite da un bianco perlaceo, mentre l'oro impeccabile dei suoi capelli fu sostituito da una cascata grigio-argentea stopposa e disordinata. La sua pelle già pallida divenne quasi evanescente, cianotica: quella di un cadavere. Le labbra sulle quali avevo tanto fantasticato ora erano di un nero intenso, ombre scure si erano addensate sotto gli occhi e vene nere risaltavano sulle guance, adesso sfigurate e quasi corrose da qualcosa di indefinito.

Ai polsi, alle caviglie e persino intorno alla vita comparvero anelli di metallo, da cui partivano monconi spezzati di quelle che dovevano essere catene. Ogni centimetro di pelle scoperta era costellata da ferite, lividi e macchie di sangue raggrumato, che comparivano anche sul vestito stracciato, di un bianco ingrigito dal tempo e dallo sporco.

Non ebbi neanche il tempo di urlare, a stento quello di indietreggiare. In un lampo Aroha - o ciò che era diventata - mi fu addosso, sbattendomi violentemente contro un albero. La corteccia mi graffiò la schiena, aprendo un milione di piccole ferite brucianti. Lei si issò su di me, serrandomi le gambe attorno ai fianchi e stringendo le dita artigliate sulle mie spalle. Le unghie affondarono nella carne, strappandomi un verso di dolore.

Sorrise, con le labbra sanguinanti e squarciate dai denti talmente affilati da non essere neanche contenuti nella sua bocca. Sollevò il mento spalancando le fauci, e in quel momento sul suo collo fu visibile una lunga ustione rosso-violacea, simile a quella che avrebbe lasciato una corda sul corpo di un impiccato in un lontano passato.

Di riflesso mossi all'indietro la mano, alla ricerca di un qualunque mezzo di difesa, e con mia sorpresa non se ne accorse: guardai i suoi occhi lattei e capii. Era completamente cieca. Purtroppo per me, però, gli altri suoi sensi erano sviluppati all'inverosimile.

Capì che tramavo qualcosa e ringhio, avvicinando quelle raccapriccianti zanne al mio viso, che distolsi di riflesso. Grosso errore.

La creatura non sembrò aspettare altro. Emise un verso gutturale, a metà tra il sadico piacere e la brama sanguinaria, per poi conficcare violentemente quelle sue zanne dritte nella mia giugulare. Urlai, dilaniato da un dolore così intenso e bruciante da non poterlo neanche descrivere. Il sangue sgorgò a fiotti, subito catturato da quelle stesse labbra che avevano suscitato in me tanto desiderio.

Lunghi rivoli di quel denso liquido rosso le imbrattavano il viso, il collo, il petto, parevano fasciarle le mani come guanti bollenti. Mi lasciò cadere, ubriaco di dolore. La vista si annebbiò di nuovo, e nelle orecchie mi rimbombò l'ultimo battito del mio cuore.

***

La seconda volta che risorsi dalla morte, risvegliandomi dopo l'ennesimo squarcio sulla gola che non mi aveva lasciato il minimo segno, ero ormai convinto di essere imprigionato in un delirio infinito, condannato a morire e a rinascere in modi via via più cruenti fino alla fine dei tempi, o alla mia pazzia. E, sebbene non sapessi quanto mancasse al primo termine, non credevo che ci volesse molto per raggiungere il secondo.

Aprii gli occhi a fatica, subito violentato dall'aria rovente e dalle tinte rossastre di un cielo infuocato. Tirai il primo respiro, ribollente, sulfureo. I polmoni andarono istantaneamente a fuoco, come se avessi inalato calore puro. Tossii violentemente, piegandomi in due, disteso come un bambino in posizione fetale finché non riuscii a domare quell'esplosione che mi era montata dentro. Solo allora mi alzai a fatica da quel terreno arso e annerito, compattato in solidi grumi pressappoco indistruttibili.

Ovunque intorno a me rocce imbrattate di nero fumo e intaccate da profondi solchi paralleli, esibiti come gloriose cicatrici di una guerra ancestrale, e sporadici tronchi d'alberi spezzati e divelti come bastoncini. Riflessi rossastri giocavano su ogni superficie, danzando al ritmo di una danza leggiadra e misteriosa, fiamme di un fuoco inesistente ma che dappertutto dava prova della sua onnipresenza.

Colto da un'improvvisa vertigine appoggiai la mano alla corteccia di uno di quei monconi protesi al cielo, imploranti un aiuto divino. Sotto le dita sentii fredda roccia, ruvida e tagliente. Ciò che era nato legno era stato pietrificato da una temperatura innaturalmente, insopportabilmente elevata.

Non mi sarei stupito a quel punto se avessi scoperto che quella terra morta, desolata e incandescente fosse il cuore esatto dell'Inferno. Staccai lo sguardo dai fossili della flora che un tempo doveva aver decorato quel posto e lo feci spaziare sull'orizzonte. In quel momento fu tutto più chiaro: un'enorme montagna, decorata da un pennacchio di fumo, si stagliava minacciosa a una decina di metri da me. Irta di spunzoni, con la cima avvolta da giallastre nubi di zolfo, scrutava dall'alto chiunque osasse mettere piede nella sua ombra.

Emanava un'aura indiscutibilmente quanto irragionevolmente malvagia: come se fosse viva, e dotata di una fuori dal comune possessività nei confronti del suo territorio.

Ma oltre a quel colosso non c'era niente in quell'infuocato fazzoletto di terra dimenticato da Dio, e un sentiero si inerpicava lungo il fianco sinistro del vulcano, culminando in una caverna. Riflettei: con ogni probabilità non avrei resistito a lungo allo scoperto, ad aspettare il sorgere di un sole che mi avrebbe definitivamente arrostito. Avrei avuto qualche possibilità, seppur minima, stando al coperto. E poi, se era necessario che morissi, meglio abbreviare il più possibile l'attesa.

Presi un profondo quanto doloroso respiro, raccolsi un ramo pietrificato da terra e mi incamminai verso il vulcano. A ogni passo sembrava che dovessi svenire: nonostante le scarpe i grumi di terra sembravano penetrarmi nella carne, ogni respiro era un intenso fuoco nei polmoni, ogni goccia di sudore evaporava direttamente sulla mia pelle con una spiacevolissima sensazione.

I secondi divennero minuti, i minuti ore, le ore giorni, mesi, anni: alla fine di quella tortura che era stata la distanza tra me e le pendici di quel gigante roccioso ero convinto che fosse trascorsa una vita intera. Alzai lo sguardo sul sentiero che conduceva alla caverna, e mi parve più ripido che mai. Deglutii piano, disperato. Mi sentii come se avessi inghiottito acido e precipitosamente sputai.

Mi feci coraggio e iniziai l'arrampicata. Paradossalmente, si rivelò più comodo camminare in salita. Nonostante i vapori sulfurei aumentassero quasi esponenzialmente a ogni passo, la temperatura diminuiva gradualmente, anche se di poco. Sorrisi, iniziando a sperare in un po' di frescura.

Poi raggiunsi la caverna. E ogni speranza crollò.

La vampata di calore e tanfo che mi investì mi stese con la forza di mille elefanti, facendomi barcollare. Il naso pizzicava dolorosamente, la vista era annebbiata. Mi sedetti sulla soglia della caverna, nel tentativo di riprendere il controllo del mio corpo.

L'antro emanava odore di zolfo, di bruciato e di qualcosa di marcio in decomposizione, una miscela così potente da rivoltare lo stomaco al minimo sentore. Mi guardai intorno, cercando di capire da cosa fosse causato un puzzo così nauseabondo. Era buio, per mia fortuna, così non riuscii a vedere la totalità di teschi e ossa, alcune ancora con i tendini attaccati, che giacevano negli angoli a imputridire.

Ma ciò che vidi, seppur di sfuggita, bastò a farmi sgusciare in quella spelonca e rifugiare dietro a una stalagmite come un ratto di fogna. Un enorme essere giaceva accovacciato al centro della grotta, nero più dell'oscurità che ammantava tutto. Esili sbuffi di fumo grigiastro esalavano dalle sue narici nell'atto del respiro, e bassi ringhi giungevano dalle profondità del suo ventre.

Un drago. Un drago. Questo fu l'unico pensiero che mi attraversò la mente, mentre mi accovacciavo di più dietro a quell'esile pezzo di roccia, incapace di staccare gli occhi sbarrati da quel magnifico e terrificante esemplare. Nel sonno il gigantesco rettile si spostò appena, coprendo con la sua mole l'entrata da cui ero sgattaiolato.

Merda, pensai. Uscita fottuta. Mi ero infilato da solo dentro una trappola con una stupidità cui io stesso stentavo a credere. Sarebbe stato lo stesso per un pluriomicida ricercato entrare in una stazione di polizia con un trombettiere che annuncia il suo arrivo, disarmato e già ammanettato. Che stupido.

Mi appiattii contro la parete umida e viscida, pregando con tutte le mie forze che il drago non si svegliasse o si spostasse. Preferibilmente entrambe le cose. Ma evidentemente Dio aveva deciso di punirmi per aver smesso di andare in chiesa alla tenera età di dodici anni.

Inavvertitamente smossi una tibia col piede, che rintoccò contro un teschio come una campana. Sudori freddi mi corsero lungo la schiena, a secchiate. Una fiammella si accese nel buio: un occhio, grande quanto il mio cuscino, di un intenso diaspro misto al quarzo e all'ambra mi trafisse con lo sguardo, scrutandomi l'anima con innegabile cattiveria.

Mi raggomitolai su me stesso sentendo l'ormai tristemente familiare aumentare progressivo del respiro. Cascate su cascate di ghiaccio puro mi corsero lungo la schiena, mentre iniziai a tremare violentemente. La vista si annebbiò, sentii il suolo della caverna contro il mio viso, il tanfo del sangue secco nelle narici e il sapore ferroso della roccia che ne era impregnata impossessarsi delle mie labbra.

Mi strinsi le braccia attorno al corpo, affondando le unghie nella carne viva, sentendo i battiti frenetici pulsarmi nelle orecchie e propagarsi in tutto quell'antro, mille tamburi incalzanti che non facevano altro che accrescere le mie ansie, per una volta fondate. Miliardi di violente pugnalate al petto mi strappavano continuamente ogni faticoso respiro che riuscivo a tirare, facendomi mancare l'aria e cadere preda delle vertigini.

Il mio corpo aveva smesso di obbedirmi, di reagire a qualsivoglia stimolo. Registrava solo la paura allo stato puro. Contrazioni allo stomaco, polmoni in fiamme, cuore accelerato all'inverosimile, brividi incessanti che mi scuotevano tutto, esplosioni dolorose al centro del petto: solo questo ero diventato capace di provare.

Mi frugai convulsamente nelle tasche, alla ricerca di un ansiolitico di qualsiasi genere: invano. Solo l'inutile lanugine tipica delle felpe. Nulla mi avrebbe calmato, ormai: né Andorexim, né Pelloformides, niente di niente. Tentai l'ultima spiaggia, gli insegnamenti della dottoressa Donnagon, la mia psicologa. Chiusi gli occhi, costringendomi a staccare le braccia dal mio corpo e a mettermi seduto. Richiamai alla memoria la sua voce pacata, calma e soave.

" Nicholas... sei tu che controlli il tuo corpo, non è lui a controllare te. Rilassati, pensa a qualcosa di bello, che ami. Concentrati sui respiri, rendili lenti e profondi. Contali. Ogni dieci ricomincia. Inspira col naso ed espira dalla bocca. Ricordati che se resti calmo e lucido riuscirai sempre a trovare una soluzione ai problemi che ti creano questa reazione. Sei un ragazzo intelligente, Nicholas. Ora contiamo, insieme. Uno..."

Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Nove. Dieci. Poi ripresi: uno. Due. Tre. Non ricordo quante serie mi ci vollero, di sicuro ben più di cinque ma meno di dieci, ma alla fine riuscii a tornare calmo. Il drago intanto si era limitato a osservare il mio nascondiglio. mi sporsi appena al di sopra di esso, osservando di rimando la bestia in tutta la sua possanza.

Gli occhi brillavano nel buio, come torce dalla pupilla verticale, stretta e lunga, da rettile. Le labbra ritratte in un perenne ringhio al mio indirizzo scoprivano una chiostra di denti affilatissimi e candidi, che rilucevano sinistri e dai quali pendevano brandelli di carne marcia. Numerosi spuntoni ossei gli proteggevano il muso, e due di essi si allungavano, torcendosi su sé stessi e incurvandosi appena all'indietro con due punte acuminate. Corna.

Accortosi del mio sguardo ruggì, frustando l'aria con la lunga coda dalla classica punta a triangolo, irta di quelle stesse punte che formavano tre file ordinate e minacciose sul dorso. Spiegò le ali membranose, ognuna delle quali esibiva un artiglio ricurvo e affilato quasi quanto le zanne. Gli stessi artigli figuravano sulle zampe anteriori e posteriori, tre su ognuna delle prime e quattro su ognuna delle seconde.

Sapevo come erano fatti i draghi, ma c'era un abisso tra il vederne uno durante un olo-film, magari mentre i tuoi amici commentano gli effetti in 6D, e l'averne uno dinanzi agli occhi senza il familiare effetto illusorio dei glitch del proiettore.

Risultato: azoto liquido nelle vene al posto del sangue.

Fui sul punto di ripiombare nell'abisso del terrore, garantendomi un prossimo futuro da arrosticino, ma avevo appena ripreso il controllo del mio corpo e stavolta non ero intenzionato a farmelo sfuggire di nuovo.

A quanto pareva però al drago allettava molto l'idea di un arrosticino, perché eruttò una colonna di fiamme dritto contro di me. Ebbi la prontezza di spirito di spostarmi all'istante, scampando per pura coincidenza all'ondata di fuoco rosso scarlatto che incenerì il mio rifugio improvvisato.

Mi rintanai in una nicchia, fra ossa e scheletri di dubbia natura, cercando di concentrarmi su come fuggire da quella trappola mortale. L'animale ruggì di frustrazione, prendendo ad annusare l'aria. Con orrore capii che nonostante quel puzzo tremendo riusciva a captare il mio odore.

La seconda fiammata s'infranse a pochi centimetri da me, sulla sinistra, e l'intensissimo calore mi bruciò i capelli e le sopracciglia, costringendomi a scappare nuovamente per non finire flambè. Strinsi i denti, osservandomi intorno. Stava giocando con me come al gatto col topo. Era solo questione di tempo prima che finissi i nascondigli, e a quel punto sarei stato alla sua totale mercé. A meno che...

Notai un sasso per terra, un sasso come tanti. Grigiastro, grande quanto un pugno, di forma indefinita. Ma sarebbe stato adatto ai miei scopi. Attentamente calcolai il tempo che intercorreva fra l'apertura delle fauci e una fiammata, schivandone nel frattempo altre due. Avevo uno spazio di pochi millesimi di secondo, e mi era rimasto un solo posto dove rintanarmi. Una misera stalattite che copriva una minuscola nicchia.

Mi ci tuffai dentro, attirando lo sguardo del drago che ruggì ferocemente, facendomi accapponare la pelle. presi fiato, stringendo il sasso in una mano. Se avessi fallito sarei morto. Se non ci avessi provato avrei fatto la stessa fine. A parità di conseguenze, potevi dire di non avere nulla da perdere.

Mi slanciai fuori dal pertugio nel quale mi ero infilato e lanciai il sasso, spedendolo dritto in gola al rettile. Questo emise un verso strozzato, cercando vanamente di sputare il corpo estraneo che gli ostruiva la trachea. Inarcò il collo, producendo qualcosa che somigliava vagamente alla tosse. Non riuscii ad assistere oltre alla sua agonia tremenda, e voltai il capo finché non sentii un lungo lamento, seguito da un tonfo violento.

Solo allora mi azzardai a sbirciare: il drago giaceva scompostamente con gli occhi vitrei rivolti al lembo di cielo visibile dall'uscita dell'antro. Un rivolo di fuoco liquido gli colava dalle fauci spalancate. Per una ragione che non seppi spiegare, a quella vista mi si strinse il cuore, nonostante sapessi perfettamente di essere l'assassino di quella manifestazione di grazia e potenza incarnate.

Distolsi lo sguardo dalla carcassa del drago, uscendo finalmente all'esterno. Feci appena in tempo a mettere piede fuori dall'uscio, poi svenni per l'ultima volta.

***


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