Capitolo 67
Aleksander
Dopo aver ringraziato gli ospiti per la splendida serata, me ne scendo in strada in attesa del taxi che mi riporterà in albergo. Sono le undici passate e spero di non perdere altro tempo, domani dovrò affrontare le telecamere e ho bisogno di riposare. La conversazione con gli altri e con Luisa, in particolarre, mi ha lasciato irrequieto.
Sotto casa di Mauro mi fermo vicino a un lampione, infilo le mani nei pantaloni e guardo le luci delle auto passare nell'attesa del mio autista. Una collega di Luisa, Vittoria, si ferma vicino a me.
«Stai aspettando un taxi?» Mi sorride, osservandomi con interesse.
«Sì.» Mi sono accorto dei suoi tentativi di approccio già durante la cena ma, a parte qualche scambio di sguardi, non le ho dedicato molta attenzione, ora che siamo soli posso notare che è davvero una bella donna. Capelli castani che le scendono sulla schiena e un fisico niente male stretto in un tubino nero. Sorrido a mia volta.
«Dai, vieni con me. Ti accompagno io.» La guardo indeciso su cosa sia giusto fare. Leggo la speranza in lei di qualcosa di più e ne sono lusingato. È passata una vita.
«Fammi strada.» Con le mani sempre strette nelle tasche seguo l'ondeggiare del suo fondoschiena fino a una audi a quattro, bianca, poco distante. Lascio che apra e la vedo salire in fretta, io, invece, ho un attimo di esitazione che mi fa guardare in giro. Lei accende la radio attirando la mia attenzione e alla fine spingo su quel metallo e mi lascio scivolare sui sedili in pelle. Cerco di camuffare la sensazione di disagio che mi fa sudare le mani. Bisogna andare avanti e magari il profumo di rosa che mi circonda è la mia via.
La conversazione è di circostanza: cosa fai? Da dove vieni? In realtà siamo poco interessati a conoscerci meglio se non da un altro aspetto che dovrebbe essere più intimo e che, invece, è stranamente più facile condividere.
«Sono arrivato.» Le indico l'hotel alla mia destra e lei accosta spegnendo l'auto. Prima che possa anche solo pensare a cosa voglio fare, sento le sue labbra sulle mie. La serata è tranquilla e sul marciapiede non cammina nessuno. Colto di sorpresa stringo i palmi sulle cosce mentre la sua corre a posarsi sulla mia nuca. Assaporo una donna dopo tanto tempo ma nonostante tenti di farmelo piacere, il mio corpo non reagisce. Unisco le nostre lingue, come ribellione alla mia apatia e sento dai suoi gemiti che la cosa la eccita. Insisto ma quando il suo palmo spinge sul cavallo dei miei pantaloni tiro indietro il bacino, muovendomi su quel sedile spinoso.
«Salgo su?» mormora sulla mia bocca prima di baciarmi ancora. Non l'ho ancora toccata e non ne trovo il coraggio. Le parole romantiche di Luisa si insinuano nella mia testa. Stringo gli occhi per rimanere concentrato su Vittoria ma niente, non ce la faccio. Non sono pronto.
«Scusami.» Mi sciolgo dalle sue braccia e lei ritorna al suo posto delusa. «Vittoria, sei una bellissima donna ma io sono appena tornato dalla guerra...» la sua mano torna su di me, corre sulla spalla e scende al centro del petto.
«Io posso farti dimenticare tutto.» Mi sussurra all'orecchio prima di avvicinarsi ancora.
«Non ne dubito, ma è tardi.» Apro lo sportello. «Buonanotte.» Scendo.
«Quando vuoi, sarebbe un piacere.» La delusione è palese, ma accetta la mia reazione nella speranza che possa prima o poi convincermi. Le sorrido forzato e vado via.
Salgo in ascensore e mi appoggio al metallo portando i capelli indietro. «Cazzo!» Entro in camera gettando le chiavi sul mobile e mi lascio andare sul divano.
La nottata è un disastro, dopo aver riaperto il mio vaso di Pandora, è stato per me impossibile richiudere tutto quello che riguarda Anastasya in un angolino della mia testa. Per tutta la notte è stata accanto a me, riempiendo la mia testa e il mio cuore. Niente è cambiato in questi mesi in cui ho fatto finta che non fosse esistita, è bastato raccontare il nostro incontro per sentire fremere la mia pelle.
I ricordi mi hanno tormentato tutta la notte e ora sotto la doccia sono sensibile e fremente. L'acqua calda che scorre su di me rappresenta le sue mani delicate e esigenti. Circolo vizioso di tenui tocchi che mi fanno vibrare come una corda di chitarra pronta a suonare. Mi tendo in cerca della perfezione del suo canto, lo sento, lo bramo, per poi tornare al mio posto sfinito e pieno di una soddisfazione effimera che non basta alla mia testa esigente. Richiudo la bocca e gli occhi e sposto il capo sotto il getto per lavare via i miei pensieri impropri. Tocco con i palmi aperti le mattonelle fredde di quella doccia testimone della mia sconfitta. Neanche una donna in carne e ossa riesce a competere con i miei sogni, come posso vivere una vita intera senza di lei.
Sciacquo con vigore il viso per cancellare le tracce dell'effetto che la sua immagine ha sul mio corpo tutto, non solo sulla mente. E quando mi sento finalmente padrone di me stesso mi avvolgo un asciugamano sui fianchi e torno in camera a bere il caffè che mi hanno portato con la sveglia.
Mi avvicino all'armadio e tiro fuori un vestito grigio, una camicia azzurra e una cravatta blu che poso insieme al resto sul letto. Resto nudo e afferro i boxer dal cassetto e con in mente il discorso che terrò stamattina finisco di vestirmi. Davanti allo specchio faccio quel nodo al collo che detesto e aggiusto i polsini e l'orologio che segna l'ora di andare.
Il viaggio fino al centro congressi e veloce e senza intoppi. Quando il taxi si ferma davanti all'atrio c'è già una certa folla di giornalisti in attesa. Cerco di passare inosservato non guardando nessuno di loro e quando mi ritrovo dentro mi sento più sereno, temevo che qualcuno si avvicinasse per una intervista.
«Aleksander, sei arrivato?» Mauro cammina a passo svelto verso di me. Stringe la mia mano deciso e mi invita a seguirlo. «Aspettiamo solo Jason...» un collega americano. «E siamo pronti a cominciare. Prima iniziamo, prima finiamo.»
«Guarda, non vedo l'ora.» Lui mi colpisce alla spalla e poi mi fa entrare in una stanza dove trovo gli altri colleghi. Ci perdiamo in discorsi tecnici che mi rilassano completamente.
«Se siete pronti faccio entrare i giornalisti.» Vedo Jason salutare tutti.
«Vai Mauro che abbiamo cose da fare.» Risponde un collega irritato.
«Bene allora accomodatevi.» Ci indica la porta da cui intravedo il palco con le nostre postazioni. «Io vado ad avvertire la stampa. Aleksander hai collegato il pc al monitor?» Annuisco mostrandogli il tablet. «Perfetto. Ci siamo.» Anche Mauro è agitato, si tocca continuamente la cravatta e prima di andare via tira un lungo respiro. Io bevo un sorso d'acqua e poi mi accomodo nel posto con il mio nome scritto sopra.
Guardo la mia presentazione e scherzo con Jason che è seduto accanto a me come anche Damian che è alla mia sinistra e non smette di fare commenti ironici su tutti noi. Sorrido alle sue battute mentre un brusio si diffonde nella stanza, non siamo più soli. Almeno un centinaio di giornalisti fa il suo ingresso chi con la telecamera, chi con il registratore e infine quelli con carta e penna. In fila prendono posto nella sala riempiendo le poltrone bordeaux di variopinti colori. Damian inizia a commentare la prima fila seguito da Jason che come il primo non si lasciano mai sfuggire una bella donna. Ne sento nominare almeno tre una più formosa dell'altra.
«Cazzo, quella bionda è un vero schianto.» A quel particolare incollo gli occhi al tavolo.
«Guardala Aleksander... non te la puoi perdere.» Mi strattona il braccio Jason.
«Ho un problema con le bionde.» Spero la finiscano presto. Passo il dito nel colletto guardando alle mie spalle. Sento uno strano formicolio sulla pelle. La sensazione che qualcuno mi stia osservando con insistenza mi fa imbarazzare, ma mi sembra ovvio in questa situazione.
«No, cazzo, devi guardarla.» Jason insiste.
«Cazzo, ti sta mangiando con gli occhi.» Indeciso, giro la penna fra le mani, ma la loro insistenza mi incuriosisce, che sarà mai dare un'occhiata.
«Merda, è andata.» Alzo lo sguardo.
«Magari torna.» Damian si guarda attorno.
«Speriamo.» Jason sospira, doveva essere davvero bella. Individuo il posto vuoto e provo un brivido che non mi spiego.
«Bene, signore e signori, innanzitutto benvenuti. La conferenza sarà iniziata...» Mauro spiega la scaletta mentre io mi preparo aggiustando il microfono.
Fortunatamente il mio power point era abbastanza esaustivo e ho dovuto rispondere a sole cinque domande. Mauro entusiasta si avvicina stringendomi la mano.
«Complimenti, sei stato perfetto.» Gli sorrido. «Dovresti venire con me mentre gli altri continuano. Una testata internazionsle mi ha chiesto di poterti porre tre domande in privato.»
«No, dai Mauro.» Mi lamento a bassa voce sbuffando come un bambino di cinque anni.
«Sarà una cosa veloce, hanno una rivista specializzata... ti prego.» Posta così non riesco a dirgli di no e riluttante mi alzo seguendolo dietro il palco. Mi fa cenno di accomodarmi dentro la stanza alla mia destra e io lo faccio. «Aspetta li il giornalista, io torno dagli altri.» Lo vedo riaprire la tenda dietro cui sparisce e rassegnato varco la porta.
L'ambiente è piccolo ma luminoso, due sedie sono disposte una di fronte all'altra e dopo dieci minuti di attesa decido di sedermi in quella vicino la finestra.
Chiunque debba venire ha a disposizione altri cinque minuti, dopodiché andrò via. Già odio questa situazione, in più non tollero il ritardo. Tiro fuori il telefono e poggiando i gomiti sulle gambe leggo le notizie del giorno. Un rumore attira la mia attenzione.
«Senta, le sembra educato far aspettare un estraneo.» Infilo il telefono in tasca e mi volto verso l'ingresso con in faccia il cipiglio frutto del mio fastidio.
Eppure... eppure ero certo di ricordare perfettamente quella sfumatura di azzurro, lo avrei giurato e invece no, mi sbagliavo, è ancora più intensa di quanto ricordassi.
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