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Keith rientrò a casa, sentendosi ancora furioso per via di come si era concluso l'incontro con Jeffrey. Sbatté la porta con violenza alle proprie spalle, la sentì scricchiolare in modo sinistro, facendo seguire, a quel piccolo campanello d'allarme, un silenzio innaturale. Subito dopo la porta cadde in avanti sul pavimento, staccandosi dai cardini, lasciandogli appena il tempo per scansarsi, prima che lo colpisse.
Imprecò e incominciò a prenderla a calci, cercando di sfogare tutta la propria frustrazione. Continuò a quel modo per un po', urlando, tirandosi i capelli con forza, finché non colpì l'aria al posto del legno, scivolò e cadde all'indietro, finendo per terra. Urlò ancora e poi si stese sulla schiena, contraendo così tanto la mascella che cominciò a dolergli.
Si passò una mano sugli occhi, tentando di riacquisire un minimo di autocontrollo, e si alzò a sedere.
«Come diavolo si fa a essere così chiusi mentalmente, Keith? Come puoi pretendere di vivere una vita che sia tua, quando non sei sincero neanche con te stesso?»
«Io sono sincero con me! E lo sono sempre stato con te! Ti amo, Charity!»
«Tu non so che cazzo ami, Keith! Come puoi amare me se non ami te stesso? Non siamo più ragazzini! Queste stronzate potevano andare bene dieci anni fa! Io voglio una famiglia vera, un uomo che mi ami in modo sincero... e non perché mi ritiene una buona scusa con cui nascondere gli scheletri del proprio armadio!»
Passò il resto della mattina e buona parte del primo pomeriggio cercando di rimediare al disastro della porta, saltando il pranzo, ancora una volta. Non poteva uscire di casa se prima non trovava una soluzione per evitare di lasciare l'uscio spalancato a dei malintenzionati.
Se passassero di qui dei ladri cosa dovrebbero rubarti, Keith? La dignità? Te la sei giocata quando hai rivelato a Charity di avere dato il tuo primo bacio a quel bastardo.
Alla fine, riuscì a malapena a rendersi conto che i cardini della porta erano arrugginiti, rendendo vani tutti gli sforzi che aveva fatto per rimediare al danno.
«Ore a sgobbare senza concludere un cazzo!» urlò al nulla.
Sbirciò l'ora sul display del telefono, rendendosi conto che rischiava di arrivare in ritardo alla Clinica veterinaria. Sbuffò e fece per intascare di nuovo l'apparecchio, mandando a quel paese la porta.
Magari, se entrano dei ladri, si impietosiscono così tanto che finiscono per lasciarmi qualche dollaro.
Il cellulare vibrò, annunciando l'arrivo di un messaggio. Aggrottò la fronte e lo recuperò.
La prima reazione che gli suscitò la lettura del messaggino inviatogli dalla banca fu di incredulità totale. Dovette rileggerlo almeno cinque volte, prima di afferrarne il senso. Quando comprese subentrarono la vergogna e l'imbarazzo; infine si arrabbiò così tanto che dovette trattenersi con tutte le proprie forze per non lanciare il cellulare contro il pavimento. Imprecò e uscì di casa, dopo avere recuperato le chiavi del pick-up.
Entrò nella vettura, chiuse la portiera con violenza, sussultò, maledicendosi mentalmente, e controllò di non avere procurato danni irreparabili anche al mezzo. Fece partire una chiamata al numero di Francine, impostò il vivavoce, e mise in moto, uscendo dal vialetto di casa.
«Pronto?» rispose la donna e dal suo tono di voce Keith immaginò che fosse un po' in ansia e lui sapeva benissimo il perché.
«Devi dirmi qualcosa, mamma?» le chiese con voce sibillina.
La donna rimase in silenzio per qualche secondo, prima di rispondergli. «Ho fatto quello che ritenevo giusto.»
Keith batté le mani sul volante con violenza, rischiando di perdere il controllo del mezzo. Cercò di calmarsi, mantenendo salda l'attenzione sulla guida. «Ti avevo detto che andava tutto bene...»
Francine lo interruppe subito, con voce evidentemente alterata. «Davvero? E Charity ha sotterrato l'ascia di guerra in quale stupido film di centesima categoria l'hai visto? No, per capire, Keith. Perché mi ricordo bene le parole che mi ha rivolto la tua ex l'ultima volta che ci siamo incontrate, e non mi sembrava proprio una donna pronta alla pace degli angeli!»
«Mamma...»
«Mamma, un corno, Keith! Stai agendo di testa tua, come al solito. Hai già deciso chi sono gli amici e chi i nemici. Chi tenere vicino e chi tagliare fuori. Mi dispiace, ragazzino, ma io sono tua madre! Non ho nessuna intenzione di farmi tagliare fuori dalla tua vita soltanto perché tu sei troppo arrogante e presuntuoso per poter chiedere aiuto!»
Keith si morse l'interno di una guancia, cercando di trattenersi dal manifestare ogni tipo di emozione. Sentiva le mani dolergli per via della forza che stava impiegando nello stringere il volante. Sospirò e si accostò al marciapiede, posteggiando il pick-up nei pressi dell'ingresso della clinica. «Grazie.» disse, mentre tornava padrone di sé. «Non ho ancora trovato un lavoro, ma adesso ho un cane. È un periodo di merda. Davvero, mamma, grazie.» aggiunse, sentendo che la donna non fiatava. «I soldi che mi avete mandato mi aiuteranno a risollevarmi per un po'. Ringrazia anche papà da parte mia.»
«Lo farai tu stesso, stasera, a casa tua. Veniamo a cena per conoscere il cane.» disse Francine, chiudendo la loro telefonata senza neanche permettergli di ribattere.
«E sto pure senza porta d'ingresso!» borbottò, sganciando la cintura di sicurezza, scendendo dal mezzo.
«Salve!» lo accolse un ragazzo che stava dietro il bancone. «Lei è?» gli chiese subito dopo e Keith tentò di sorridergli.
«Ieri c'era la sua... collega? Comunque sono Keith Coleman, sono venuto a prendere il mio cane, Rocky.»
«Ah, sì! Allison mi aveva informato. Prego, mi segua da questa parte. Il Dottor Randolph desidera parlarle.»
«Perché? È successo qualcosa? Rocky sta male?» domandò, iniziando a preoccuparsi.
«Il suo cane sta bene, signor Coleman, non si preoccupi. Venga, da questa parte.» ribadì l'altro, indicandogli un corridoio che si apriva dietro la parete alle spalle del bancone. Camminarono per qualche secondo, prima che il giovane lo invitasse a fermassi davanti una porta bianca; bussò e rimase in attesa che il dottore li invitasse a entrare.
«Keith! Ciao!» lo salutò il veterinario con entusiasmo e lui si irrigidì, tornando a provare lo stesso disagio che lo aveva messo in difficoltà il giorno precedente.
«Dott– Evan. Ciao. Rocky sta bene?»
«Sì, tutto sommato, sì. Volevo parlarti un po' di lui, se non ti dispiace.»
Keith tirò un sospiro di sollievo.
Il veterinario gli illustrò con minuzia di particolari tutto quello che avrebbe dovuto fare da quel momento in poi per prendersi cura di Rocky, aiutandolo nella sua guarigione, di modo tale che non riportasse dei traumi permanenti che avrebbero potuto ostacolarlo nella ripresa dell'utilizzo della zampa lesa.
Quando la loro conversazione si concluse, Keith scoprì che era rimasto quasi mezz'ora a parlare con Evan, senza rendersi conto del tempo che passava. Arrossì, tornado a provare un profondo disagio.
«Bene. Questo è quanto.» concluse il veterinario, mentre riempiva una busta di carta con diverse scatole di farmaci.
«Quando dovrò portarlo di nuovo a visita?»
«Tra una settimana. Ma se ti sembra che stia male, che abbia dei problemi, portalo subito. Ti lascio anche il mio numero personale, per le emergenze. Così, nell'eventualità in cui Rocky dovesse sentirsi male di notte, potrai contattarmi senza problemi.»
«Ti ringrazio.» mormorò Keith e, ancora una volta, si trovò a domandarsi se l'altro agisse in quel modo sempre, oppure se gli stava riservando un qualche trattamento speciale.
Perché dovrebbe farlo?
«Tutto okay?» chiese Evan.
Keith annuì. Allungò una mano verso la busta che l'altro gli offriva, ma non riuscì a prenderla in tempo, e la vide cadere sul pavimento. Istintivamente si protese per recuperarla, ma finì per sbattere la fronte contro quella del veterinario, che si era piegato in avanti per fare altrettanto. «Scusami!» esclamò mortificato, mentre Evan si massaggiava il bernoccolo con una mano.
«Hai la testa dura.» scherzò il dottore, ma lui finì per sentirsi ancora più in imbarazzo, leggendo nelle sue parole dei sottintesi di tipo sessuale, ma che gli risultarono incredibilmente immediati – seppur fuori luogo – forse proprio a causa dello spiacevole incontro che l'aveva visto coinvolto quella mattina. «Sono davvero dispiaciuto.»
«Non ti preoccupare, non mi sono fatto niente. Stavo scherzando. Dovresti rilassarti, ti vedo un po' teso... »
«E questo che c'entra?» lo interruppe Keith, sentendosi arrossire.
Evan gli rivolse un sorriso incerto. «Rocky ne risentirà. Ha bisogno di coccole, attenzioni, di tranquillità. Se ti sente tanto agitato, finirà per agitarsi anche lui.» gli spiegò.
Keith si diede mentalmente dello stupido.
È solo un dottore preoccupato per la salute del suo paziente! Smettila di vedere tutto attraverso la lente perversa di Jeffrey!
Trasse un profondo respiro, sentendo i muscoli delle spalle sciogliersi un po'.
Appena Rocky lo vide, nonostante fosse ancora mezzo addormentato a causa dei sedativi, iniziò a scodinzolare, battendo la folta coda contro la superficie del lettino di metallo su cui era disteso. I dottori lo avevano ripulito alla meno peggio, dato che le sue condizioni non avevano permesso loro di fargli un vero bagno. Aveva la zampetta fasciata, indossava un collare elisabettiano, presentava diverse macchie di mercurio sulle ferite che aveva riportato sul muso e sulla schiena, ma sembrava felice.
Keith si commosse nel notare il suo entusiasmo, gli si fece vicino, accarezzandolo gentilmente sotto il muso, e Rocky gli leccò la mano. Evan lo aiutò a caricarlo in macchina e lui si sentì colmare di gioia nell'allontanarsi da lì, sbirciando nello specchietto retrovisore prima di immettersi in strada, notando il riflesso del cucciolo, disteso sui sedili posteriori.
Sorrise e si diresse verso casa.
Arrivato a destinazione contemplò la possibilità di contattare un professionista che corresse in suo aiuto per sistemare la porta, prima dell'arrivo dei suoi genitori.
Ebbe il tempo di portare Rocky in casa, metterlo comodo sul divano, rivolgendo un'occhiata sommaria alla stanza: sembrava che i ladri non ne avessero approfittato per svaligiare la villetta.
Sbuffò ed uscì per recuperare il sacchetto con le medicine, trovandosi davanti i suoi genitori.
Francine era già scesa dall'auto e restava immobile, di fianco la portiera, con un'espressione severa a renderle i delicati lineamenti del viso tesi. I suoi occhi chiari erano saturi di rimprovero, le labbra carnose strette in una linea sottile. Teneva le braccia incrociate sul seno e un leggero alito di vento le accarezzava i lunghi capelli tinti di un viola intenso, facendole andare alcune ciocche sulla faccia, senza che la cosa sembrasse infastidirla minimamente.
Keith distolse subito lo sguardo da lei, mentre suo padre usciva dall'auto, gli rivolgeva uno sguardo ancora più furioso di quello di sua madre. «E questo?» domandò l'uomo, indicandogli la villetta.
«Ehm, sì. Un piccolo inconveniente. Stavo per chiamare il ferramenta.»
«Cosa?! È da demolire e ricostruire pezzo per pezzo!» sbottò suo padre, avvicinandosi al malandato patio.
«Jack, per favore.» disse Francine e il marito scosse la testa.
Si passò una mano tra i radi capelli brizzolati, scendendo poi ad accarezzarsi il contorno delle labbra, fino ad arrivare alla folta e lunga barba che gli incorniciava il volto, pizzicandola un po', in quello che era uno dei suoi tic nervosi.
«Stai per tirare fuori l'ascia dall'auto?» chiese ironico Keith.
Sua madre gli rivolse un'occhiataccia.
«Quella violenta è la tua ex moglie. Io darei fuoco a tutto, ricostruendo poi da zero.»
«Ti ringrazio, papà, per la tua sincerità.»
«Dovere.» disse l'uomo con un punta di incertezza e subito la sua espressione si fece più rilassata, mentre la rabbia scemava via, riempiendo i suoi occhi scuri di dolcezza.
Jack scrollò le mani, come a voler scacciare quanto era stato detto sino a quel momento. Fece il giro dell'auto, aprendo il vano portabagagli, tirando fuori un paio di buste contenenti generi alimentari e un sacco di croccantini.
«Che...?!» esclamò Keith, stupito, e suo padre si caricò di tutto, rifiutando ogni aiuto, entrando poi in casa.
«Un regalo.» disse Francine, sospirando, e suo figlio aggrottò la fronte.
«Me la cavo da solo.»
«Sì, certo. Ricordami di cambiarti il bavaglino... »
«Mamma!»
La donna si passò una mano tra i capelli, gli si fece vicino, assumendo un'espressione combattuta. Da una parte moriva dal desiderio di dare due bei ceffoni al figlio, d'altro canto, però, sapeva che davvero Keith veniva fuori da un anno difficile e, anche se aveva commesso degli errori, non se la sentì di rimproverarlo ancora. Gli sorrise, lo prese a braccetto ed entrarono in casa.
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