.4

L'agenzia di Jeffrey Major si trovava a Hollywood West.

Keith deglutì un paio di volte dopo aver inserito nell'applicazione del cellulare le coordinate del luogo. La scoperta che fece lo mise a disagio.

Non conosceva bene quella zona della città, se non per via della fama che la precedeva. Non aveva mai avuto motivi per frequentarla e meno che mai pensò di averne in quel periodo.

Si immaginò di passare per le strade del quartiere, magari al fianco della villa di lusso di chissà quale attore famoso, con il suo malandato pick-up. Persino l'idea di posteggiare il proprio mezzo nel parcheggio riservato dell'agenzia di Jeffrey gli procurava un imbarazzo soffocante.

Si maledisse mentalmente un numero infinito di volte, abbandonandosi contro il volante, ma alla fine tornò a sedersi composto, percependo i muscoli delle spalle irrigidirsi così tanto da cominciare a dolergli. Mise in moto e partì, cercando di liberare la mente.

Pensò al piccolo Rocky. Aveva contattato la Clinica veterinaria quella mattina, subito dopo essersi svegliato, chiedendo notizie del cucciolo e accordandosi con la donna che gli aveva risposto, programmando di andare a prendere Rocky nel pomeriggio, dato che nella tarda mattinata aveva un colloquio di lavoro.

La sera prima Jeffrey gli aveva risposto al primo squillo, ridendo, pronunciando il suo nome. Keith si era stupito, ma l'altro gli aveva fatto presente che aveva ancora lo stesso numero dai tempi del liceo e lui lo aveva mantenuto salvato in memoria. Keith era subito entrato nel panico, domandandosi per quale motivo l'altro avesse tenuto in rubrica il suo numero per tanti anni. Tuttavia, non fu una domanda che ebbe il coraggio di porgli, perciò aveva spostato velocemente la conversazione su altri argomenti, passando subito a implorarlo di sottoporlo a un colloquio di lavoro, per qualsiasi tipo di mansione.

«Mi accontento di tutto. Mi basta uno stipendio fisso che riesca a mantenermi.» gli aveva detto e Jeffrey si era limitato a fornirgli l'indirizzo dell'agenzia, dandogli appuntamento per le undici del giorno dopo.

Keith non si era aspettato che l'altro mantenesse davvero la parola. Era contento di quella opportunità. Da solo era riuscito a ottenere maggiori risultati rispetto quanti ne aveva ottenuti l'impiegato dell'ufficio di collocamento, nei sei mesi in cui l'aveva seguito prima di gettare la spugna, passando il suo caso alla collega. E anche Penny Smith non era stata in grado di dargli speranze, sino a quel momento.

Posteggiò l'auto sul retro dell'agenzia, nel parcheggio riservato ai visitatori, cercando di nascondere il pick-up, lasciandolo all'ombra, vicino un'aiuola in cui erano state piantate diverse varietà di palme, lontano dal resto delle altre auto che si trovavano lì.

Trasse un profondo respiro e perse un paio di secondi, osservando l'immagine scomposta di se stesso che si rifletteva sulla carrozzeria del pick-up.

Scosse la testa, cercando di ignorare il senso di profonda inadeguatezza che provava, dirigendosi a passo marziale verso l'ingresso dell'agenzia, puntando gli occhi sull'asfalto bollente, su cui si infrangevano i raggi del sole, restituendo un calore insopportabile, soffocante.

L'agenzia si presentava come un piccolo capolavoro di edilizia moderna. Le pareti del prospetto consistevano in enormi vetrate dai riflessi scuri, incastonate all'interno di altrettanto grandi cornici nere, che sembravano imitare quelle di quadri veri. Il tetto aveva una forma insolita, obliqua, di un accecante colore fucsia, e in buona parte non combaciava con il limite della struttura, protendendosi verso l'esterno, rimanendo sospeso nel vuoto.

Keith trattenne a stento un conato di vomito ed entrò dentro. Subì uno sbalzo termico che lo lasciò quasi senza fiato, trovandosi di colpo all'interno di un ambiente gelido, in netto contrasto con il caldo che lo aveva accompagnato per strada sino a lì.

Ansimò, percependo il sudore cominciare ad asciugarsi addosso. Si mosse in direzione della reception, dove si trovava un enorme bancone dalla forma strana, di certo non convenzionale – ricordava la faccia di un diamante – dietro cui stavano seduti due ragazze e un ragazzo dall'aspetto algido, composto. I lineamenti dei loro volti apparivano affilati, indossavano abiti all'ultima moda, accompagnandoli ad acconciature che sembravano finte, tanto apparivano perfette. Non avevano neanche un pelo fuori posto, sembravano dei robot.

Keith fece un altro passo nella loro direzione, iniziando a sentire sempre meno forza nelle proprie gambe, tanto che i suoi passi divennero incerti e temette di stare per cadere da un momento all'altro.

Non fa per te.

Si guardò intorno, trovandosi circondato da decine di persone, vestite con colori sgargianti, quasi eccentrici, tutti snelli, alti, dai lineamenti resi severi dall'assenza di sorrisi.

Dove cazzo sono finito?

Iniziò a camminare all'indietro, rivolgendo occhiate furtive a destra e a sinistra, cercando di passare inosservato mentre fuggiva via da lì.

«Keith!» esclamò con enfasi Jeffrey, e il giovane si girò, trovandoselo alle spalle con un sorriso enorme stampato sulle labbra, le braccia larghe, le mani protese nella sua direzione.

«Jeff...»

«Ti stavo aspettando! Sono le undici e due minuti, temevo che mi avessi dato buca e sono venuto a controllare. Invece, a quanto pare, devo ricredermi. Sei rimasto l'adorabile idiota del liceo. Di' la verità, ti eri perso?»

Keith contrasse la mascella. «Solo tu mi chiamavi così, al liceo.» sussurrò, percependo un principio di rabbia.

«Perché tra di noi correva una confidenza speciale.» rispose Jeffrey, utilizzando lo stesso tono dell'altro, stringendogli le spalle con entrambe le mani, soffiandogli quelle parole direttamente sulle labbra.

Keith percepì il sangue defluire di colpo dal viso, e sentì la pelle delle guance farsi tesa, come se fosse stata riempita da miliardi di aghi che pungevano, arrivando a toccargli persino i muscoli. Si sentiva così rigido che temeva sarebbe andato in mille pezzi al minimo tocco. Era terrorizzato all'idea che l'altro potesse giocargli l'ennesimo tiro mancino, magari baciandolo di nuovo, all'improvviso, proprio come aveva fatto anni prima.

«Sono proprio contento che tu sia qui.» disse Jeffrey, accarezzandogli con un dito il contorno del labbro inferiore.

Keith si scostò bruscamente da lui. «Io, invece, credo di avere fatto un'enorme cazzata a presentarmi qui. Non sei cambiato per niente.» sbottò, cercando di allontanarsi da lui.

Jeffrey lo afferrò per un polso, impedendogli di scappare. «Ehi, ehi, tesoro, calmati! Hai ragione: non siamo più ragazzini. Scusami.» disse, elargendogli un sorriso che al giovane mise i brividi.

«Niente scherzi, Jeff. A me serve davvero un lavoro. Credevo di essere stato chiaro, ieri sera.»

L'altro annuì e lo lasciò andare, mettendo le mani in tasca. «Seguimi, su.» lo esortò, facendogli strada verso la scalinata di vetro, totalmente trasparente, che conduceva al piano superiore, dove si trovava un soppalco.

Keith odiava quel genere di costruzioni, soprattutto perché gli dava sempre l'impressione di camminare nel vuoto e ciò, unita alla sua innata goffaggine, gli procurava il terrore di moltiplicare all'infinito le opportunità di concludere ogni passo con una rovinosa caduta.

Riuscì ad arrivare in cima alla scala percependo il cuore battergli così forte che temette di stare per avere un infarto.

«Eccoci qui.» disse Jeffrey, allargando le mani come a voler abbracciare l'intero ambiente. Si trovavano all'interno di uno stanzone dall'aspetto industriale. L'unica parete priva di finestre si apriva proprio di fronte a loro, ed era di colore nero. Vi erano state affisse delle cornici che racchiudevano foto di uomini e donne.

La scrivania di Jeffrey sembrava più un tavolo da pranzo per diciotto persone, anche quella di colore nero, mentre la poltrona destinata a lui spiccava grazie al suo intenso colore rosso. Le sedie destinate ai visitatori erano trasparenti e Keith deglutì, pregando che l'altro non lo invitasse a prendere posto lì. Sulla destra si trovavano un paio di divani di pelle, pieni di cuscini di ogni forma e dimensione: alcuni erano zebrati, altri neri, altri ancora erano interamente rivestiti di paillettes metallizzate.

«Dove...?» domandò Keith, senza avere idea di ciò che stava per chiedergli davvero.

«Sul divano!» esclamò Jeffrey, interpretando quella domanda a modo suo. «Le persone speciali hanno posti speciali riservati.» aggiunse l'uomo, avvicinandosi a lui, poggiandogli una mano su un fianco, sussurrandogli le ultime parole in un orecchio.

Keith percepì il cuore schizzargli in gola e si allontanò da lui. Jeffrey si accorse del suo disagio, sorrise con malizia, avvicinandosi al basso tavolino di vetro posto tra i divani, recuperando una bottiglia di vino bianco e un paio di bicchieri.

«Sono le undici.» sbottò Keith e il sorriso dell'altro si allargò.

Si limitò a posare un bicchiere, versando da bere solo per sé. «Sei rimasto lo stesso puritano del liceo?» domandò, prendendo posto sul divano, e parve così spiccare tra l'arredamento a causa dell'elegante completo bianco che indossava, il cui pantalone sembrava essere stato disegnato apposta per mettere in risalto le sue forme. Lo vide battere una mano sulla seduta, proprio vicinissimo a sé, invitandolo a prendere posto accanto a lui. Keith aggrottò la fronte e sedette a debita distanza dall'uomo. Jeffrey sorrise di nuovo, accarezzando il bordo superiore del bicchiere con il labbro inferiore. «Mi rispondo da solo: sì.»

«Non è come pensi, Jeff.»

«Davvero? Allora com'è?» lo incalzò, poggiando il bicchiere sul tavolo, voltandosi verso di lui, protendendosi nella sua direzione con tutto il corpo, diminuendo la distanza che li separava. Keith scivolò un po' all'indietro sul divano, cercando di mantenere, invece, una certa distanza di sicurezza.

«Ho sposato Charity.» disse, assumendo un tono di sfida.

«Charity... Charity... La rossa con le lentiggini? O era la moretta che ti ronzava intorno al terzo anno? Quella con le tette enormi?»

«Ehi!» lo interruppe, sentendosi arrossire.

«La moretta.» dedusse Jeffrey con un sorriso sornione. «E state ancora insieme? Non ha ancora scoperto il tuo piccolo segreto?» chiese, mentre allungava la mano verso il tavolino, recuperando un astuccio di metallo da cui tirò fuori una sigaretta, accendendola subito dopo.

«Non ho segreti per lei.» disse Keith, glissando la sua prima domanda.

Dopotutto, la sua situazione sentimentale non era affare di Jeffrey. L'altro, tuttavia, sembrava possedere dei poteri paranormali in grado di permettergli di vedere ben oltre le parole del suo vecchio compagno di liceo. Ogni cosa che Keith diceva, ogni più piccola parola che gli rivolgeva cercando di essere il più scarno di informazioni, Jeffrey sembrava riuscire a colorarle di infinite sfumature, arricchendole di significati, riempiendo i buchi.

«Quindi sa che sei gay.» disse Jeffrey.

«No, non lo sono.» ribatté Keith con voce tremula, percependo il cuore balzargli in gola.

«Se lo dici tu... »

«Abbiamo già avuto questo discorso, anni fa, e come allora ti ripeto che tra noi non potrà mai esserci nulla, Jeff.» lo interruppe con rabbia, sperando di mettere a tacere le sue speculazioni sulle proprie inclinazioni sessuali.

«Eppure, all'epoca ti è piaciuto.» disse l'uomo, sporgendosi verso di lui, soffiandogli un po' di fumo sul viso.

Keith si tirò indietro, ormai furioso. «È piaciuto a te, non a me. Eri tu ad avere fantasie sessuali malsane sul mio conto...»

«Certo.» lo interruppe Jeffrey. «Infatti, la lingua in bocca me la sono messa da solo.»

«Sei disgustoso!» tuonò Keith, balzando in piedi. «Sono stato uno stupido a credere che tu volessi aiutarmi davvero! Era solo una scusa per completare quello che hai iniziato al liceo, vero?»

«Chi ti dice che penso ancora a te? Sono passati anni d'allora e, ti stupirà sapere, che non sei l'unico uomo al mondo. Keith si morse un labbro, sentendosi arrossire per l'imbarazzo. Jeffrey sbuffò un po' di fumo, spense la sigaretta nel posacenere, con gesti estremamente misurati, carichi di un'eleganza febbricitante di sensualità. Si alzò per andargli incontro e Keith fece un passo indietro, sentendosi sopraffare dal fascino della sua persona. La sicurezza dei suoi movimenti, i gesti aggraziati, lo sguardo severo e gelido mettevano in secondo piano le imperfezioni del viso, e lo facevano sentire calamitato a lui come una falena con la luce. Era un uomo di potere, Jeffrey Major. E lo aveva appena umiliato. Nonostante ciò, si sentiva attratto da lui. «Non ho iniziato nulla al liceo, Keith. Ci siamo baciati. Ero innamorato di te dal primo anno, nonostante tu fossi già allora un adorabile idiota. Quando hai scelto di assumere quest'atteggiamento omofobo contro te stesso, mi sono tirato indietro. Io ho vissuto una vita piena e meravigliosa, non mi pento di nulla. E tu hai sposato Charity... »

«Amo mia moglie!» lo interruppe Keith, con voce stridula a causa del panico che gli mozzava il respiro. «Se fosse come dici tu, non avrei mai potuto... »

«Sì, invece. Ti sei auto-convinto di essere qualcosa che non sei, con una tale violenza che, alla fine, hai sposato Charity.»

Keith contrasse la mascella, facendo digrignare i denti. «Mi dispiace di averti spezzato il cuore, ma io non sono mai stato come te e mai lo sarò. Chiaro?» sibilò, senza distogliere gli occhi da quelli dell'altro. L'espressione di Jeffrey si fece seria. «Non ti ho invitato a venire qui oggi per questo. Non ne ho approfittato per organizzare una scopata con il mio primo amore, nella speranza di avere ciò che allora mi hai negato. Sei tu che hai costruito un film, perché sei spaventato, terrorizzato. Non sarà perché ti senti ancora attratto da me, anche se non vuoi ammetterlo? Io ti solo ho offerto un'opportunità lavorativa... »

«Non ti ho sentito dire mezza parola a riguardo. Ti sei comportato come un maniaco sin da quando ho messo piede qui dentro!» ribatté Keith.

Jeffrey rise, fece un altro passo verso di lui, facendolo sussultare. «Stavo soltanto giocando un po' per metterti alla prova. Capisci bene che non posso assumere uno come te, in un ambiente come questo. Uno che disprezza così tanto persino la propria omosessualità... »

«Io non sono...!»

«Io sì.» lo interruppe Jeffrey. «E non ce lo voglio un omofobo di merda nella mia agenzia.»

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top