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L'ufficio si presentava come una grande stanza stipata di scrivanie, sedie, computer, armadietti, carrelli carichi di fascicoli. Coloro che lo avevano ammobiliato sembrava si fossero a malapena ricordati di lasciare tra una cosa e l'altra lo spazio necessario per muoversi al suo interno.

Per sua natura, Keith era una persona abbastanza goffa. Si trovava seduto davanti una scrivania da circa dieci minuti e aveva avuto il tempo di scambiare soltanto un paio di parole con Penny Smith, la donna che sedeva dall'altro lato, mentre quella picchiettava freneticamente sulla tastiera del computer, battendo le unghie e producendo un rumore insopportabile che aveva fatto loro da sottofondo ininterrottamente.

Tuttavia, quei pochi minuti, erano bastati al giovane per urtare con un gomito una pila di scartoffie che erano state lasciate su un angolo della scrivania, finendo per farle scivolare sul pavimento. Penny gli aveva rivolto uno sguardo severo, lui si era scusato e si era affrettato a rimettere le cose al loro posto. Si era chinato a raccogliere i documenti, sbattendo la spalla contro la sedia occupata dal collega della donna, facendolo sussultare per lo spavento, e quello si era rovesciato il caffè, che stava bevendo, addosso, sulla camicia.

Keith aveva iniziato a scusarsi anche con lui, recuperando un fazzolettino imbevuto dalla propria tracolla, aiutando l'uomo a ripulire la macchia. Poi si era voltato per gettare la salvietta in un cestino, urtando la propria sedia e, seguendo l'effetto domino, il mobile si era mosso sulle ruote, andando all'indietro, finendo per urtare la spalliera di un'altra sedia, schiacciando le dita del malcapitato che teneva la mano appoggiata sulla spalliera.

«Signor Coleman!» aveva urlato Penny, battendo le mani sulla propria scrivania, e nella stanza affollata di persone era calato un silenzio innaturale, mentre tutti i presenti rivolgevano degli sguardi ostili nei confronti di Keith.

«Mi scusi.» borbottò l'uomo, in imbarazzo.

«La smetta di scusarsi! Si sieda e non tocchi più nulla, per favore! Allora non avrà motivo di dispiacersi... sempre che non sia in grado di causare altri guai anche stando fermo!»

Keith recuperò la sedia e prese posto, incrociando le mani sulla propria tracolla, stringendosela in grembo.

«Bene.» disse la donna, tornado a controllare la schermata del computer.

«Mi dispiace, signora Smith... È che sono nervoso. Sa, non lavoro da quasi un anno, ormai.» nel dire quelle parole si sporse verso di lei, abbassando la voce, nella speranza di non farsi sentire da altri, ma finì per urtare una tazza che conteneva oggetti di cancelleria, rovesciando sulla scrivania penne, matite, gomme e tutto il resto delle cose che conteneva.

«Se continua così, non credo che le cose per lei possano cambiare!» tuonò Penny, cercando di rimettere ordine in quel caos.

«Mi scusi...»

«Mi sta venendo un'orticaria a forza di sentirla scusarsi! Stia fermo! Altrimenti sarò costretta a concludere questo appuntamento legandola alla sedia!» Keith si morse un labbro e cercò di restare immobile. «Bene.» disse la donna sospirando. «Eviterei ogni attività in cui si ha che fare con oggetti di valore, altrimenti finirà per incassare soltanto debiti. Qualcosa di semplice e meno pericoloso...»

«Io ho già molti debiti.» la interruppe Keith. «Mi serve un lavoro che possa aiutarmi davvero, la prego...»

Penny sospirò di nuovo. «Ho capito, signor Coleman. Mi dispiace che lei si trovi nei guai, ma, sinceramente, comportarsi così con degli sconosciuti non l'aiuta di certo a dare una buona immagine di sé. Io la sto aiutando a trovare un lavoro, ma se lei fosse qui per un colloquio, le assicuro che l'avrei già cacciata via e non riesco a immaginare per quale motivo, qualsiasi altra persona al mondo, non dovrebbe pensarla allo stesso modo.»

«Quindi mi sta dicendo che non ho speranze?»

«Non ho detto questo.» si affrettò ad aggiungere la donna. Stava cercando di essere il più obiettiva possibile, ma quell'uomo la stava facendo diventare matta.

Era apparso come un fulmine a ciel sereno, spuntando dal nulla davanti la sua scrivania. Era stata così impegnata con il proprio lavoro che non si era accorta del suo arrivo. Poi aveva alzato gli occhi, stanchi, arrossati a causa dello stress visivo che le procurava lo schermo del computer al quale restava incollata per più di otto ore al giorno, e le era venuto un mezzo infarto. Si era trovata davanti un uomo bellissimo, con gli occhi più limpidi e dolci che avesse mai visto.

Keith Coleman, il suo appuntamento delle ore dodici e trenta, sembrava uscito direttamente dalla copertina di una rivista. Alto, slanciato, con un fisico modellato che risaltava agli occhi anche attraverso i vestiti che indossava. Nulla di pretenzioso: soltanto una T-shirt a maniche corte, grigia, sopra degli anonimi blue jeans. La pelle ambrata e quegli occhi azzurri che spiccavano nel viso dai lineamenti delicati, in netto contrasto con i capelli scuri.

Non aveva l'aria dell'uomo consapevole della propria bellezza, anzi, le era apparso subito come una persona insicura, dall'aria un po' sognante.

Le erano bastati venti secondi per passare da uno stato di euforia assoluta dove aveva immaginato di sedurre quell'uomo, aiutarlo a trovare un lavoro, invitarlo a cena per festeggiare – possibilmente a casa sua. Farci sesso per ore fino alle prime luci dell'alba, passeggiare mano nella mano per l'immensa spiaggia di Zuma Beach, senza sentire il tempo scivolare via. Sposarlo! Fino a maledirsi mentalmente per la sfortuna di essersi trovata tra le mani quella specie di caso umano che l'uomo si era rivelato.

Un disastro!, pensò Penny, percependo i nervi a fior di pelle, mentre continuava a scorrere gli annunci di lavoro e, nel frattempo, cercava di tenere sotto controllo quel cataclisma che si era abbattuto su di lei e che portava il nome di Keith Coleman.

«Sa...» iniziò a dire l'uomo, attirando la sua attenzione, e Penny percepì un brivido correrle lungo la schiena nell'udire la sua voce dal tono basso e carezzevole. Arrossì, indecisa se essere eccitata o terrorizzata da lui. «Mia moglie mi ha lasciato. Ho passato l'ultimo anno coinvolto in una lotta legale che mi ha sfinito. Ha cercato di spillarmi sino all'ultimo centesimo e c'è riuscita. Adesso mi sento... spaesato, fuori dal mondo.» Keith si lasciò sfuggire una risatina amara. «Temo di non sapere più come si faccia a relazionarsi con gli altri in modo normale, ecco. Ma un lavoro mi serve. Devo ancora finire di saldare il conto dell'avvocato.»

Penny percepì gli occhi riempirsi di lacrime e, per un attimo, tornò a vedersi mentre indossava un abito da sposa, raggiante, al fianco di quell'uomo. Keith si accorse della sua commozione e aprì la tracolla per tirare fuori un pacchetto di fazzoletti. Glielo porse, mentre Penny sentiva le orecchie riempirsi del suono della marcia nuziale.

Keith si sporse verso di lei con un sorriso e la donna perse un battito, immaginando che volto avrebbe avuto il loro primo figlio... poi sentì un rumore, piccolo, apparentemente di poco conto. Tuttavia balzò in piedi nel rendersi conto che l'uomo aveva rovesciato il bicchiere d'acqua che lei gli aveva offerto quando era arrivato, facendo finire quel che era rimasto del suo contento direttamente sopra la tastiera del computer.

«Dannazione!» urlò. «Lei è peggio della peste!»

Keith sospirò sconfitto, uscendo dall'ufficio di collocamento. Scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, schermandoli con una mano, per evitare di farsi abbagliare dai riflessi spietati dei raggi solari, che si infrangevano sulle superfici vitree dei grattacieli che lo circondavano.

Si guardò attorno e individuò presto un chiosco di hot-dogs. Non aveva molta fame, ma sapeva che avrebbe impiegato almeno un'ora, traffico permettendo, prima di riuscire a varcare di nuovo la porta di casa. Dopotutto, l'unica cosa che era stato in grado di prendere in affitto – una casetta indipendente, che contava un'unica stanza più servizi – si trovava a un'ora di auto dal centro di Los Angeles, sperduta nell'estrema periferia, a due passi dal Topanga State Park. In pratica tra il nulla e il nulla cosmico, dove anche per andare a fare la spesa era costretto a salire in auto e viaggiare per qualche chilometro prima di individuare qualsiasi tipo di attività commerciale.

Sbuffò e si avvicinò al chioschetto. Non amava particolarmente gli hot-dogs e si teneva alla larga dal divulgare una tale informazione, consapevole che qualche americano avrebbe avuto da che ridire a riguardo.

Come Charity, pensò con un sorriso, ricordando le volte in cui sua moglie lo aveva preso in giro durante i loro barbecue domenicali in compagnia degli amici, quando lui restava l'unico esonerato dalle loro competizioni tra mangiatori accaniti di hot-dogs.

«Tanto, anche quando avresti partecipato, amore, avrei vinto io!» era solita esclamare con fare esultante sua moglie, al termine di quelle stupide gare, sollevando in aria un bicchiere di acqua frizzante in segno di vittoria.

«Keith Coleman!» si sentì chiamare e si volse in direzione della voce di uomo che aveva attirato la sua attenzione, strappandolo dai ricordi.

«Sì?» domandò, fissando il tizio che lo guardava con un sorrisino malizioso a incurvargli le labbra sottili.

Keith non aveva idea di chi fosse. Lo scrutò da capo a piedi, esaminando con scarso interesse il suo aspetto, soltanto con l'intenzione di provare a rammentare la sua identità.

Dopotutto, si era rivolto a lui chiamandolo con nome e cognome, quindi era quasi scontato che si conoscessero.

L'uomo indossava un elegante completo di colore chiaro, dall'apparenza costosa. Lo calzava come un guanto, mettendo in risalto la vita sottile e le spalle larghe. Il suo fisico pareva fare a pugni con il viso, dato che tanta bellezza muscolare veniva un po' sminuita dai lineamenti poco armonici del volto: il naso era prominente e ingobbito, gli occhi piccoli, dalle iridi azzurre; i capelli erano chiari, radi sulla fronte e tagliati molto corti – forse nel tentativo di celare quella prematura stempiatura. Sembrava avere non più di trent'anni, forse gli era addirittura coetaneo.

«Ci conosciamo?» domandò dopo un po', sentendosi in imbarazzo.

L'altro allargò le braccia nella sua direzione, piroettando su se stesso con un'espressione parecchio soddisfatta. «Non mi riconosci?» chiese e il suo sorriso si allargò. «Sono Jeffrey Major!» esclamò entusiasta, come se quello potesse spiegare tutto.

Keith aggrottò la fronte, scervellandosi su chi diavolo fosse quell'uomo.

Poi udì un clacson improvviso provenire dalla strada.

Le auto, in coda a un semaforo, attirarono la sua attenzione per la frazione di secondo e, come se fosse stato colpito da un fulmine, ricordò.

«Jeff!» disse, tornando a fissarlo, rivolgendogli un sorrisino tirato.

«Amico mio! Quanto tempo!» esclamò l'altro, mentre Keith si sentiva impallidire. «Non ci vediamo dai tempi del liceo! Ti ricordi? Bei tempi, quelli! Ma come stai? Dimmi, dimmi! Sono curioso, sai? Parlavo proprio di te la settimana scorsa a un gruppo di amici. Keith il conquistatore! Quante conquiste! E ricordi? Eri così goffo in seconda, che rischiavi di rimanere vergine fino al diploma, ma poi è arrivato il bacio del principe azzurro e...»

«Sì!» lo interruppe Keith, urlando, cercando di mettere a tacere quel fiume di parole, terrorizzato dall'idea che qualcuno potesse sentirlo. Si passò una mano sugli occhi, maledicendosi mentalmente. Sembrava che i pianeti si fossero allineati al fine di rendere quel giorno il più catastrofico possibile. Non solo l'incontro con la tizia dell'ufficio collocamento si era tramutato presto in un disastro epocale, ma aveva persino finito per incontrare l'ultima persona sulla faccia della Terra che avesse desiderio di rivedere.

E dopo nove anni! Nove anni, dannazione! Se non è iella questa!, si disse, imprecando, e subito la mente gli tirò l'ennesimo tiro mancino, facendo riaffiorare in lui il ricordo terrificante del suo primo bacio.

E il suo primo bacio glielo aveva rubato proprio Jeffrey Major.

Represse a stento un conato di vomito, sforzandosi di sorridere. «Ci vorrebbe una vita per riassumere quegli anni.» disse, cercando di essere gentile. «Tu come te la passi?»

«Benissimo! Gestisco un'agenzia per modelli. Sto qua in giro perché ho un appuntamento di lavoro. Se mi avessero detto che avrei finito per incontrare te...!»

«Ah!» esclamò Keith, compiendo un passo indietro nel notare come, invece, Jeffrey si fosse mosso verso di lui, con fare troppo confidenziale per i suoi gusti. «Mi dispiace, sono molto impegnato. Io sto cercando lavoro, un casino di cose da fare...» cercò di giustificarsi.

L'altro mise le mani in tasca, senza mai abbandonare quel suo sorrisino, si dondolò sui talloni, rivolgendogli uno sguardo che finì per fargli correre un brivido di terrore giù per la schiena. «Nessun problema.» disse, ed estrasse un biglietto da visita da una tasca della giacca, per poi passarlo a lui. «Se hai bisogno, chiama.» aggiunse e gli si fece vicino, restando a un palmo di naso dal suo viso. Keith deglutì sonoramente, sentendosi come pietrificato. «Per uno come te... c'è sempre posto.»

Gli fece l'occhiolino e subito dopo si congedò, lasciandolo solo, in mezzo al caos dell'ora di punta di Los Angeles, confuso e un po' disgustato.

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