Capitolo XXVII -Un legame maledetto
Pov Juliet:
Dei brividi di freddo mi attraversano inducendo i muscoli a contrarsi, ciononostante cammino a perdifiato seguita da Neil che come un angelo protettore non mi perde di vista.
Fisso il portone in legno della casa di Adry, per poi sviarlo immediatamente verso le rose nel vaso situato a fianco.
Ancora palpitante e terrorizzata, fatico a riprendermi da quanto è accaduto.
Hanno cercato di affogarmi, ripeto a me stessa quasi faticassi ancora ad accettarlo.
Mi sembra impensabile: il peggiore dei miei incubi.
Non sono in grado di inserire le chiavi nella serratura a causa dell'acqua che gronda dalle mani e dal resto del corpo, per via di tremolìi invadenti.
Le mani di Neil si poggiano sulla mia schiena in un tocco rassicurante, intento a prendere le chiavi. Le inserisce al mio posto, e uno scricchiolio segna l'apertura della porta.
Il buio incombe, così tenebroso e vivido.
Neil, entrato prima di me, accende le luci del salottino; l'ordine dei due sofà nei loro colori sgargianti, la coperta alla rinfusa sul pavimento bianco, mi rassicurano.
Traggo un sospiro di sollievo, mentre altre scosse si propagano dalla schiena alle braccia.
Mi fa segno di raggiungerlo e, trascinando le scarpe gocciolanti sulle mattonelle, lo faccio.
Dopo il corrodoio una volta giunti nella mia stanza, sbirciando nella direzione della stanza della mia coinquilina, noto che il suo letto è vuoto.
Il cavaliere silenzioso mi abbranca dalle spalle allo scopo di aiutarmi a stendermi.
Mi copre e fa per andarsene, ma io non glielo consento: una mano poggiata sulla sua in una tacita richiesta di aiuto, una disperata ricerca di calore.
Annuisce senza dire altro e si sdraia a fianco, quasi con esitazione stringe il mio petto freddo in un abbraccio.
Le sue dita scendono silenziose a delineare le sinuosità dei fianchi e delle cosce.
Io, come immobilizzata, mi perdo nel miele colato dalle sue palpebre.
Si sofferma e indugia sulle cosce, le osserva per poi osservare me, le labbra.
Sembra mi desideri.
Un desiderio che vorrebbe uscire ma trabocca solo dai suoi occhi.
Non capisco il motivo, ma non ho paura di lui.
Forse è perché, inconsciamente, qualcosa nella testa rammenta che mi ha tratto in salvo da morte certa.
Forse perché la sua calma apparente mi ha sempre tranquillizzato e incuriosito.
La curiosità di sapere cosa si cela dietro quella barriera impenetrabile di mistero e fascino mi anima, ma non ho le forze per ascoltarla.
Appoggio il capo sul petto di Neil, posso udire il battito accelerato e la linea morbida delle sue carazze su tutto il mio corpo.
Dovrei arrabbiarmi per queste piccole concessioni che si sta prendendo impunemente, ma non riesco o non voglio.
E in una notte buia e tempestosa che poco ha di felice, l'unica cosa in grado di farmi sentire ancora viva è proprio la presenza di Neil, l'unico abbastanza lucido da proteggermi.
* * *
Pov Rush:
New York, 1973
Ancora supino vago perso nelle riminiscenze di quel passato che mi perseguita anche ora, nello stato di dormiente.
Vivere in questo modo a soli undici anni è una difficile realtà che colora la mia vita di nero.
Un nero che esprime le chiazze di tenebra che mi perseguitano ogni giorno, che ogni giorno mi ricordano quanto io sia insignificante.
Quanto sia misero di fronte al distruttivo vortice che vuole travolgermi.
Queste tenebre mi ricordano il momento in cui la vita era diventata simile a una moto che correva all'impazzata verso una strada sconosciuta e pericolosa.
Impossibile dimenticare quel terreno impervio che a soli undici anni mi apriva, giorno dopo giorno e passo dopo passo, a questo mondo oscuro capace di terrificarmi.
Impossibile dimenticare il suo sguardo di ghiaccio che mi trafiggeva, scatenando una tempesta nello stomaco che travolgeva anche il torace. Una tempesta capace di risucchiare anche la più piccola stilla di ossigeno.
Oggi da adulto ricordo quanto, quel giorno così come oggi, l'aria fosse un liquido che defluiva dai polmoni, goccia dopo goccia, in una beuta a sua volta sigillata nello scrigno che era forgiato dall'ansia.
Un macigno al petto, respiri affannosi che si susseguivano allora, nel bambino che sono stato, e si susseguono adesso.
Resisto, come divorato da uno strano malessere che ha reso il mio corpo quasi un involucro senza vita.
Un automa o un reietto senza personalità che vaga nei meandri di quel mondo che sussiste tra la coscienza e il subconscio, tra la realtà e il sogno.
Mi ritrovo in una realtà passata che esiste tra una perdizione dilagante quanto un mare nero e una speranza sterile quanto un terreno infertile.
In questo ambiente straripante di violenza, la gente vive temendo di dire quella sillaba di troppo che potrebbe rivelarsi fatale.
Ma io, malgrado sia l'ultima cosa che mi è concessa, non posso fare a meno di sperare, sperare inutilmente come tutti.
Come farebbe qualsiasi moccioso di undici anni.
Avverto il terrore farsi vivido nei meandri del mio essere, prendere il sopravvento attraverso una scarica di brividi, e qualcosa dentro di me scatta.
L'uomo vestito in nero, dallo sguardo demoniaco e ceruleo, scruta dapprima me e poi il debole ai suoi piedi, che implorante e lacrimevole, a occhi socchiusi, stringe le sue scarpe di cuoio come se fossero la sua ancora di salvezza.
Un'aura oscura aleggia intorno al carnefice, e sembra voglia inghiottire tutti noi.
Sebbene indossi un cappello nero che copre parzialmente il suo volto, ci terrorizza con la sua sola presenza altera e crudele.
Resto immobilizzato nelle mie stesse membra, ma dei sospiri sfuggono dal patto di silenzio suggellato dalla mia bocca.
Le mani da bambino candido sono invase da scosse e brividi, impregnate da un sudore che determina una consistenza appiccicaticcia.
I suoi uomini col capo chino mantengono inchiodata la vista all'oceano di sangue che da terra invade il bianco della maglia e il nero dei pantaloni della vittima.
Quest'ultima tremola, inspira ed espira.
Inspira ed espira continuamente.
In modo asfissiante.
Piange permettendo a una pioggia di lacrime di scrosciare incessantemente dagli occhi, al solo inutile fine di muovere, nell'uomo di fronte a sé sì fatto di marmo, un sentimento simile alla pietà.
Lineamenti ruvidi e quasi marmorei tingono il viso dell'ombra di un glacialità inespugnabile, assumono una linea dura in un'espressione che viene accesa dal fuoco della collera; mentre due dei suoi uomini colpiscono con calci e pugni l'essere agonizzante sul terreno.
Sospiri e tremiti si propagano nell'atmosfera, lamenti si dispiegano nell'aria come una melodia tormentata, iniettando in essa quel veleno che chiamano dolore.
La mezza luna sogghigna dall'alto e rattrista, di una luce fioca e angosciante, l'asfalto tinto di rosso su cui sono poggiate le ginocchia del torturato.
Proprio quest'ultimo giace ai piedi del dominatore, dell'uomo nero che gongolante lo osserva beandosi di quel suo lento languire.
In quell'orda di uomini pericolosi lui subisce altri calci e pugni.
Nell'incontrare lo sguardo di quel poveretto qualcosa si innesca in me.
Quando, all'improvviso, il despota socchiude la bocca.
<< Basta così. >>
Una voce imperiosa si estende, e punge tutti come tanti spilli appuntiti.
Il fatto che lui abbia fermato questo massacro riaccende qualcosa nel mio animo innocente.
Lo sento dentro di me: il candore di un bambino avvolto in un velo di speranza che abbraccia una scorza di umanità, a sua volta sepolta sotto un cumulo di macerie coprenti il cuore dell'aguzzino.
Proprio lui sfila i guanti che si intonano al suo impermeabile scuro lasciando scoperte le mani ruvide.
Con passi lenti e cadenzati colma la distanza tra noi, aumenta quella con i suoi uomini.
Al rumoreggiare della suola delle scarpe sul terreno sobbalzo, vorrei allontanarmi ma non riesco.
Con un suono sordo che esprime una cavalcata inarrestabile nel petto, con la paura nel cuore e il respiro corto, resto inerme.
Sono incapace di sottrarmi alla sua presa intorno alla spalle, che sono vibranti nel secondo in cui si accosta a me.
Il suo fiato soffia in un tripudio di brividi all'altezza del collo, intanto stuzzica col suo alito la pelle.
Questa si accappona nel momento in cui porge una pistola alle mie mani che tremanti la afferrano.
Il freddo della canna mi risveglia, il suono della sicura che viene tolta mi fa sussultare.
In uno stato di semi-incoscienza capisco che sono io ad averla tolta in un muto assenso a quanto silenziosamente, in un linguaggio non verbale, mi ha comunicato lui.
Totalmente rassegnato all'idea di non avere altra scelta, di non poter trovare alcuna via d'uscita per sfuggire a quello che è sempre stato il mio terribile destino, annuisco.
<< Spara. >>
A confermare quanto ho pensato arriva la confessione peggiore.
Una parola che scivola quasi lascivamente nell'atmosfera curcostante, mi accarezza come se fosse qualcosa di normale, e mi avvolge come le spire di un serpente.
<< Spara! >>, la sua voce ruvida tuona questa volta, espressione di un imperativo.
Con la paura che si impossessa di me rendendo impossibile la presa ferma sull'arma, congiuntamente a un respirare frenetico come riprova del mio stato d'animo; sollevo il revolver e lo punto in direzione del cuore.
Mestamente sono consapevole che in quel punto vi è lo scrigno che racchiude la vita.
Da lì tutto inizia, da lì tutto finisce.
<< Quest'insetto ci ha traditi. Avanti Rush, dimostragli qual è la punizione estrema. >>
Un comando che si infrange al suolo come un lampo, che si abbatte sulle orecchie come un pugnale rovente.
Svio la direzione dell'arma verso un altra regione del corpo.
E un istante, un solo istante di silenzio.
Poi uno sparo avvolge la quiete precedente.
Il mio.
Un colpo secco alla gamba.
Il liquido viscoso dall'odore ferroso imbratta, ancora un volta, l'umido dell'asfalto appena fresca, e crea la chiazza rossastra che circonda il corpo ansimante.
Non riesco a pensare a nient'altro che non sia il dolore.
Un dolore allucinante che come un vortice risucchia il fiato e anche la più piccola goccia di ossigeno nella gabbia toracica.
Un pulsare mi assale sin nelle tempie in un rimbombo massacrante, quando l'uomo nero mi rivolge un sorriso sardonico.
<< Guarda, qual è il trattamento che bisogna riservare ai reietti come questo traditore. >>
Dei passi si susseguono: un due, un due.
Un andamento ponderato, temerario, in grado di trasudare glacialità da tutti i pori e di gettare l'ambiente circostante in un'oscurità sempre più opprimente.
L'aria, che spingiamo nei polmoni, si fa sempre più pesante al suono di ogni sua falcata.
Non ho mai dimenticato il terrore che quel giorno ha preso possesso delle mie membra, immobilizzandole, che adesso è vivido in questi ricordi.
L'uomo nero afferra la sua caviglia e con una forza intensa lo spinge contro il muro retrostante, strappandolo da quello stato di quiete apparente.
Le vene della gamba del ragazzo sembrano scoppiare, determinando un sanguinamento continuo mentre cade a terra.
Il mondo si ottenebra, la vista si offusca, il fiato pare voglia abbandonarmi.
Per un attimo, la fanciullezza vorrebbe cancellare quanto ha visto con la tacita azione di queste mani che ho posto davanti agli occhi serrati.
Non voglio più vedere.
Non riesco nemmeno a urlare, il respiro affannoso - così ansiogeno - mi fa compagnia.
Quando riprendo a scrutare la scena, trasalisco nel vedere lui che affonda un coltello al centro del metatarso, trancia di netto sino a quasi lacerare la cute, le ossa.
Recide le dita.
Brandelli di pelle putrida e dita dispersi nel sangue che scorre da un ruscello di sofferenza.
Un ruscello che rumoreggia attraverso i versi prodotti dalla bocca dell'uomo.
Quest'ultimo giace a terra agonizzante, col piede lacerato e il corpo esposto alla frescura della notte.
Il pazzo stringe e solleva la lama che si abbatte crudemente sul petto, affonda nella sua carne senza neanche un attimo di esitazione.
Il poveretto si agita come un'anguilla, le sue urla stridono nel timoroso dissenso verso quell'atroce dimostrazione di supremazia.
Il viso è in fiamme, a giudicare dalla colorazione rossastra che ne delinea i contorni.
Ma l'espressione di puro terrore nel volto della vittima non basta per fermare quella furia omicida.
Non basta per fermare quel braccio che solleva adesso una lama lunga, che penetra sempre più affondo.
Uno, due, tre, quattro volte.
-È una spada! Ha lasciato il coltello! -, realizzo, proprio nel momento in cui il cuore prende due battitti in un millisecondo.
Colpisce sempre più giù, sempre più in profondità, trapassa le membra, le ossa, i vestiti, il cranio.
Il liquido scarlatto fuoriesce a schizzi proprio dal cranio, mentre il resto del corpo martoriato giace a terra in un lago di morte.
Altri quattro affondi senza pietà nel suono fievole dei miei respiri strozzati dalle lacrime.
Ho paura che senta questo lacrimare, ho paura che mi infligga una punizione anche peggiore a causa della mia debolezza.
Sono un bambino e non riesco a sopportare tutto ciò.
Infine, non avendone abbastanza, assetato di violenza com'è, recide la trachea.
Mi perdo a fissare il malcapitato, ma la sola vista mi fa raggelare.
Gli occhi ancora sgranati e intrappolati in una morsa senza vita; i pezzi di dita staccati; liquido rosso che, partendo dai rivoli sul viso, dagli sgorghi sul collo e sul corpo tagliato, ha imbrattato tutta la strada.
Le labbra, attraversate da un pallore di cui si tinge tutto il volto, restano immobili, aperte.
Mentre, Lucifero, per mano di questo diavolo che ha le fattezze così simili alle mie, arriva al cospetto di noi tutti per accogliere in un abbraccio quel cadavere mutilato, mucillato e ora privo di vita.
E pensare che è lo stesso uomo a cui mostravo a soli sei anni con timore reverenziale quei disegni raffiguranti lui e la mamma, lo stesso che mi ha donato la vita.
Mio padre.
Colui che è conosciuto da tutti come Jared Arold Roman Larson, il Boss della Mafia New Yorkese.
* * *
Le prime luci dell'alba investono un me ancora preda del sonno; mi sollevo di malavoglia ancora sudato.
Le lenzuola sono riverse a terra, trattengo uno sbuffo.
Ogni notte ritorna a farmi visita questo ricordo terrificante, e una martellante domanda prende forma:
-Possibile che quell'uomo avesse fatto un qualcosa di così imperdonabile alla famiglia? -
Non erano affari, era qualcosa di peggiore, di lacerante, di personale.
Rammento il mio cuore frantumarsi quando, qualche ora prima della sua esecuzione, venni messo al corrente di quale segreto legava quel tipo a me.
Non potetti accettarlo, e non posso farlo neanche ora, sebbene la sua dipartita mi logori ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni istante.
-Perché? - mi chiedo - perché ci ha colpiti dove fa più male? Non sapeva che nel nostro mondo il perdono non esiste? -
A petto nudo e con dei soli pantaloni di una tuta a coprire le parti intime, esco dalla stanza.
Ho dormito da Adrianna, perché ero troppo ubriaco per poter tornare al mio appartamento.
Alla visione dal corridoio i cocci delle bottiglie sul bianco opaco della pavimentazione, sogghigno.
Ma la mia attenzione viene catturata da un brusio proveniente dalla stanza di Juliet.
La porta è semiaperta, mi limito a raggiungerla per poterla chiudere.
Scuoto il capo mentre mi accingo a farlo, ma la vista di una scena assurda causa un sussulto.
Juliet e Neil dormono avvinghiati l'uno all'altra.
-Neil e Juliet? Ma cosa... -
Il particolare, che mi sconvolge maggiormente, è il loro corpo celato dal piumone.
-Che siano nudi? No, non è possibile! -, un pensiero che martella nelle tempie in modo ossessivo.
Quella santarella non può farsela con Neil, non può.
L'idea che lui possa aver assaggiato quel corpo illibato causa una sottospecie di malessere alla bocca dello stomaco.
Lei non è nulla per me, eppure non sono indifferente a questa scenetta stucchevole.
Sbatto la porta urtando il muro adiacente in un rimbombo che li avrà fatti svegliare sicuramente.
A grosse falcate me ne ritorno da dove sono venuto sperando di cancellare le braccia di Juliet sul torso nudo di Neil dalla mente.
Tuttavia, qualcosa sussurra che non riuscirò a scacciare quest'immagine dalla testa tanto facilmente.
Probabilmente è solo l'inizio.
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