Capitolo XVI - Il buio (Seconda parte)
Manhattan, 15 Gennaio 1989
Pov Adam:
_"Alcuni rinunciano facilmente alla propria libertà. Ad altri invece, la libertà può essere sottratta solo con la forza."_
Questa citazione invade la mia mente annebbiata, catapultandola in una strana condizione: l'ordine del caos.
Mi soffermo a riflettere su questo, nel mentre le pozze nere - screziate da striature rossastre - si posano sul divano a cinque posti che è rivestito in pelle marrone.
Me ne sto a petto nudo, indosso soltanto i pantaloni di jeans.
Sono stravaccato qui sopra, con le gambe spalancate, intento a contemplare il soffitto bianco che si tinge di innumerevoli riflessi provenienti dalle luce delle candele, nonostante sia affisso il grande lampadario ricoperto interamente dai cristalli Swarovski.
Lampadario che tuttora è spento.
Regna il buio più assoluto per via delle tapparelle che ho personalmente calato giù ieri notte.
Le candele sono posizionate sul pavimento la cui lucentezza rischiara, esibendo vistosamente un segato in marmo dalle colorazioni rossastre, tipico degli anni 70.
Un'altra è posizionata sul tavolino in legno lucido di fianco a me.
Stanco di fissare quei riflessi, il mio sguardo si posa su altro, dando vita a tutto ciò che mi circonda: un altro divano identico a questo circoscrive lo spazio intorno al tavolino; una poltrona con una piccola spalliera in pelle, costituita da braccia e piedi in legno.
Gli altri due salottini, che occupano l'immenso salone, divergono per la fottuta mania di Rush di dare alla casa uno stile eterogeneo: due poltrone la cui superficie è colorata da cerchi verdi e gialli, un tavolo in legno al centro e tre mobiletti bassi del medesimo materiale; distanziato da questi, è situato un lungo divano a sei posti e due poltrone ai lati in una pelle caratterizzata da increspature.
Avverto una sensazione di spossatezza che mi dà il sentore di non riuscire a prendere coscienza di ciò che mi attornia.
Vago, perso nei miei pensieri, espressione di una mera contemplazione del mio essere, in seguito a una nottata di follia che fatico a ricordare.
Jim Morrison sosteneva che l'ordine e l'equilibrio risiedessero nel disordine, in quel modus vivendi che ti spinge a fuggire da ogni forma di convenzione, dal grigiore della monotonia.
Quest'ultima fa paura e ingabbia in uno stile di vita privo di stimoli, incatena a un destino già scritto, ma mi domando come si possa sfuggire a questo fato che ritrae un disegno tanto inconsistente.
Lui, in un certo qual modo, - con metodi poco ortodossi, azzarderei - è riuscito nell'ardua impresa vivendo al limite.
Purtroppo la sua condizione è stata effimera, perchè quel musicista virtuoso- sopraffatto dai vizi in cui si era rifugiato per vivere e ampliare le porte della sua percezione - si era ritrovato in un vortice di autodistruzione che lo aveva risucchiato tristemente.
- Se neanche Jim Morrison, il Dio del Rock, è riuscito a trovare il giusto equilibrio tra genio e follia... come posso io, un granello di sabbia nel deserto, un misero essere che ha iniziato questo viaggio alla ricerca dell'arte, trovarlo? -
Mi soffermo a ripensare alla mia famiglia, allo sguardo carico di aspettative di mio padre, al suo oppressivo desiderio di rendermi un "Fisico", al suo viso ingrugnito quando lo informai del mio desiderio di suonare la batteria.
Mi disse che il mondo della musica è insidioso, che non dà certezze e stabilità economica, che sarei stato relegato al ruolo di uno squattrinato pieno di illusioni. Ma eccolo qui, un uomo pieno di sogni che ha mollato una famiglia benestante per trovare la sua arte e realizzare il suo sogno: diventare una rockstar.
Ora credo di essere giunto ai primi traguardi, di cui il mio stesso padre era scettico anni prima: la ricchezza, il potere, la fama.
Morrison era riuscito ad aprire le porte della sua percezione mediante l'ausilio degli acidi, era riuscito a esorcizzare ogni sua paura, ogni dolore originatosi dalle mancanze del padre, a spezzare le catene della propria anima tormentata con una forza interiore inarrestabile: la forza dello sciamano.
Lo sciamano è l'uomo che ha portato la medicina agli indiani, grazie alle sostanze psicotrope è andato in trance, sino a figurare dentro di sé una visione lungimirante, e la tribù è guarita; lui è un tutt'uno con l'Universo.
Quando assumi sostanze, le porte della percezione si spalancano per permettere a te di esplorare l'immensità del mondo con gli occhi sognanti del bambino inesperto e di liquefare il tuo essere con esso.
Se seguito a indossare i panni dello sciamano, raggiungerò quella lungimiranza inafferrabile, abbraccerò il mio concetto di arte ponendo fine a questo mio spasimare; e allora, l'orco cattivo non potrà più darmi del fallito, sarò quello che voglio essere.
Libero di capitolare nel buio.
Libero di essere me stesso.
Il flusso di questi pensieri martellanti viene interrotto da una visione che mi raggela all'istante.
Stancamente mi tiro su e arranco in quella direzione, verso il fondo della sala che è avvolto nel buio.
Mentre questo lento e continuo ciondolare mi induce a oltrepassare i salottini, quella sagoma assume forme sempre più nitide.
Una galoppata improvvisa nel petto mi travolge quando realizzo che quella figura giace sul pavimento.
Le luci sono soffocate dall'oscurità offuscando la mia visione e sono in grado di fare un distinguo del sesso a causa dei capelli scuri e ondulati.
Il cuore ormai scalpita forsennato, dimostrazione del desiderio viscerale di uscire fuori dal petto.
La sudorazione aumenta nell'intravedere quelle sue curve malcelate da una striminzita camicetta di seta bianca, ora rese sudice dalla chiazza di un liquido viscoso e opaco.
Sobbalzo, e una scarica elettrica mi scuote nel riconoscere i lineamenti delicati del suo volto, nel vedere il pallore innaturale e gli occhi sigillati dalla morte.
Victoria, la mia Victoria è lì, sopraffatta da qualcosa di ineluttabile.
Strillo con tutto il fiato che ho in corpo, a tal punto da avvertire un'infiammazione all'altezza della gola.
Essa è come se esplodesse, dei rigurgiti mi opprimono spingendo il mio organismo a rigettare tutto, anche l'anima. Continuo a sudare, e tutto ciò che c'è intorno a me riprende a girare vorticosamente.
Accorro da lei permettendo alle mie mani di toccare il suo corpo tumefatto che è così freddo.
Lo scuoto nel tentativo di farla rinvenire.
<< Dai Vic, so che sei ancora fatta! S-so che-che sei sveglia! T-tu... se-sei... >>, urlo con voce graffiante, ripetendo l'azione che sospinge il suo viso all'indietro.
Imprimo irruenza nel movimento, perchè lei deve svegliarsi, lei non può dormire.
<< T-tu non p-puoi... no-non puo-puoi >>, i miei toni crollano bruscamente a causa del significato lacerante delle parole rimaste incastonate sulla lingua.
Ha inizio un annaspare frenetico che pare risucchi il mio ossigeno.
<< Es-sere >>, l'ansia mi opprime e incaglia la fluidità della frase.
<< M-morta >>, l'ultima parola vibra via da me e ha l'effetto di tante lame sottopelle.
All'improvviso, come se fossi scottato dal contatto con lei, mi alzo e arretro.
<< Non puoi! Non puoi! Essere morta! >>, gracchio, sgranando gli occhi neri.
L'urto accidentale della pianta dei miei piedi con il vetro freddo di una bottiglia rischia di farmi crollare a terra.
Lo sguardo, precedentemente perso nel vuoto, viene calamitato da essa, consentendomi di constatare che ci sono più di 10 bottiglie vuote sul pavimento.
Aggrotto la fronte; le labbra rosee si spalancano, figurative dell'orrore che sto provando.
Un palpitare si estende al lato sinistro del mio collo e in seguito si propaga anche nella coscia destra.
Fletto le gambe per afferrare la bottiglia e scagliarla sul pavimento.
Faccio lo stesso con le altre sparse sul pavimento.
In concomitanza a questo respirare frenetico, arresto la mia corsa forsennata da una parte all'altra della stanza per frantumare ogni bottiglia a terra.
Incapace di reggere il mio stesso corpo, delle forza estranee mi spingono giù e mi ritrovo in ginocchio, per poi sedermi e accostare le ginocchia al petto.
-Sono stato io? L'ho uccisa io? -
<< Non voglio più sentirle! Non voglio! Basta! >>, urlo a me stesso e, sperando di bloccare quella voce demoniaca che mi rammenta quella terribile frase, mi copro le orecchie con le mani.
Inizio a dondolarmi spasmodicamente, preda della consapevolezza che Victoria è stata uccisa da qualcuno.
La consapevolezza che quel qualcuno potrei essere stato io quando, vinto dalla forza magnetica e subdola delle sostanze, ero incapace di intendere e di volere.
È come se la mia mente fosse del tutto sgombra, improvvisamente spoglia di pensieri, come se ci fosse il nulla.
Quel nulla che mi impedisce di dare importanza ai contorni che colorano l'ambiente e l'atmosfera, alla superficie fredda su cui è poggiato il mio sedere.
Altre gocce calano, irrefrenabili e fitte, senza che io possa fermarle.
Il pavimento, su cui si poggia la mia testa, ospita una pozza che ha il sapore salato delle lacrime, pregna di una sofferenza che non ha fine.
-La mia Victoria non c'è più! -
Non vedrò più il suo sorriso, non sbufferò più alle sue mille raccomandazioni, non potrò più bearmi dei suoi abbracci, dei suoi baci, del calore del suo corpo.
Quel corpo che è ora così freddo, privo di vita.
Non esiste più alcuna Victoria, esiste solo una persona: l'uomo che l'ha amata alla follia, la bestia che l'ha uccisa.
Quella persona sono io.
Quel mostro sono io.
Avverto un'accoltellata al petto, essa è interiore, mi lacera dentro sino ad annientarmi.
Un senso di soffocamento mi assale e intrappola il mio petto in una morsa da cui è difficile liberarsi.
Tento - invano - di regolarizzare la mia respirazione, ma dei forti sospiri vibrano freneticamente fuori da me, così smodatamente da intrappolarmi in una sensazione apnea.
<< Non posso essere stato io! >>, questo dolore brucia sul mio volto assumendo la forma di tante lacrime che sgorgano sulle guance.
<< De-deve essere un-na... un'illusione, un'illusione del-la sostan-za >>, farfuglio in questo dondolio continuo.
-E-e adesso? Lei è davvero morta o sono ancora sotto l'effetto di sostanze? -, domando a me stesso, ben conscio che non avrò nessuna risposta, conscio della verità.
Una verità sconcertante e inaccettabile.
Un calpestio mi desta dallo stato di apparente immobilità in cui riversavo qualche minuto fa.
Similmente a un film di cui sono il telespettatore impaurito, nel sordo brusio del mio cuore, riesco a udire solo determinate parole:
<< Lei è in arresto per l'omicidio di Victoria Royce >>.
Un uomo in divisa, un poliziotto per la precisione, stringe le manette ai polsi trascinandomi via.
È impegnato ad assicurarsi che la sua presa non mi permetta anche la più piccola via di fuga. Freme all'idea di intrappolarmi in una cella sudicia e fredda.
All'idea di privarmi della vita.
Di privarmi della luce.
New York, Presbyterian Hospital, 1989
Pov Juliet:
Il pavimento bianco dell'ospedale è freddo e lucido, ma i brividi - che mi hanno pervaso in precedenza - mi abbandonano per lasciare spazio ad una sensazione più forte.
Una sensazione forte e intensa, capace di paralizzarmi: la paura.
Qualcosa si è innescato dentro di me quando il dottore ha pronunciato quelle parole terrificanti che concretizzano il mio più grande timore: coma farmacologico.
Una parola che farebbe tremare anche la persona più impavida.
Con passi frenetici, segno di un'ansia asfissiante, oltrepasso la soglia della porta di entrata e attraverso gli immensi corridoi dell'ospedale.
In una manciata di minuti raggiungo il luogo desiderato.
E avverto le mie gambe gravarmi come piombo; tutto ciò funge da ostacolo alla fluidità della mia andatura.
I jeans bruciano e un fastidioso calore mi pervade.
Strofino, per l'ennesima volta, le mani, le une nelle altre.
Il mio sguardo, colto da uno spasmodico desiderio, si posa sul luogo circostante: persone stazionano, comodamente sedute sulle sedie di plastica nere; i bianchi corridoi sono così immensi, da infondermi il sentore che possano occultare tante verità indicibili; l'illuminazione fievole irradia le porte del medesimo colore delle pareti.
A causa della mancanza di posto a sedere, mi abbandono alla pavimentazione strisciando la schiena sul muro, per poi portare le ginocchia al petto.
Adrianna, nel suo completo interamente di jeans, se ne sta sulla sedia al mio fianco con le gambe accavallate l'una sull'altra.
Mi osserva apaticamente.
<< Adam? >>, un sussurro lieve e basso, quasi impercettibile, il mio.
<< Ha passato la notte con Victoria, se la sono spassata >>, mi informa, atona.
<< Si sono riconciliati? >>, esprimo tutto il mio sbigottimento.
<< Per l'ennesima volta, forse... che cazzo ne so, quei due sono più lunatici di noi donne mestruate! >>, esprime il suo parere con nonchalance, poi - animatasi di una luce beffarda - aggiunge << Un po' come te e Finlay >>.
Mi concedo un profondo respiro carico di frustrazione.
<< Io e Finlay non siamo una coppia, non più. Emily ha stravolto ogni cosa... >>, tento di dirle.
<< Stronzate! Rush non ti ha mai mollata completamente, non è mai riuscito a lasciarti andare anche se c'era quella baldracca di Emily! >>, la sua voce squillante sulla mia, così fievole e insicura.
Quello stesso riso beffardo ora abbonda sulla mia bocca, come se quest'ultima fosse incapace di trattenerlo.
<< Certo, come no! Voleva ritornare con me, ma non lasciava Emily! >>, pronuncio in una vena di sarcasmo pungente.
<< Non la lasciava, perché era tutto complicato, la situazione lo era. Ci sono molte cose riguardanti lui e la Band che non sai >>, mi preannuncia cripticamente.
<< Dove si è cacciato Stevie? >>, chiede lentamente, lei.
<< Non so. Tutto ciò mi rammenta quei giorni in cui tu eri scomparsa e poi... >>, non concludo la frase temendo di toccare un nervo scoperto in lei, rievocando il ricordo di quel che ha fatto.
Ma resta impassibile limitandosi a sospirare.
Serro gli occhi e i ricordi si susseguono, materializzando in me l'immagine vivida di quella notte tempestosa in cui, preda di un terribile attacco di panico, cominciai ad agitarmi nel letto.
Ero arrivata in quell'appartamento da soli quindici giorni ed era accaduto di tutto, in particolar modo quei giorni: Stevie aveva spaccato il basso inspiegabilmente, Adrianna si era dissolta nel vento in seguito alla misteriosa vicenda delle rose nere, Rush aveva cercato di andare a letto con me a causa della sbornia e, come se ciò non bastasse, avevo ricevuto un altro terribile sms anonimo.
_"Attenta alla lingua"_
Mi ero ritrovata a girovagare alla ricerca di qualsiasi persona che potesse alleviare quella paura.
L'unica persona fu proprio quella più impensabile: Rush. La testa ritorna a quella notte in cui feci qualcosa di impensabile.
***
Southern Bronx, 15 Gennaio 1987
<< Toc toc! >>, lo sbattere del mio pugno sulla superficie della porta rumoreggia.
In questa attesa snervante la vista saetta da una parte all'altra delle pareti gialle di questo lungo corridoio nella Pensione.
Uno scricchiolio mi coglie di sorpresa, inducendomi a sobbalzare e a stringere la camicia da notte che scende morbidamente fino alle ginocchia.
Un tremito attraversa la schiena nell'incontrare Rush a petto nudo, con un paio di jeans.
Si appoggia allo stipite concedendomi una completa visione delle goccioline d'acqua che imperlano tutto il suo addome e il tatuaggio dell'aquila.
Le sopracciglia inarcate palesano tutto il suo sbigottimento di fronte alla mia inaspettata presenza.
<< Juliet... cos'è, vuoi replicare la performance di prima? >>, mi punzecchia in un tono beffardo.
Un'espressione di puro compiacimento e malizia si dipinge sulle sue labbra carnose.
Incrocio le braccia al petto, in preda dall'imbarazzo.
<< Io n-no! Ma come puoi pensare una cosa simile, tu sei uno scostumato! >>, inveisco contro questo screanzato.
<< Mh... allora perché sei qui? >>, parla con estrema cautela, azzarderei riluttanza.
<< H-ho pau-ra >>, balbetto annaspando.
Si acciglia sgranando quegli smeraldi che gli illuminano il volto, e mi fa entrare.
<< Perché respiri affannosamente? Stai bene? >>, indaga con un velo di preoccupazione << Hai preso qualcosa per placare questo strano malessere? >>.
<< Sì, diazepam, soffro di attacchi di panico. E adesso, dopo tanto tempo, ho paura del malessere, non voglio stare da sola. Tu sei l'unico che conosco qui. Stevie era drogato e... >>, gli confesso con un filo di voce quasi impercettibile, con lo sguardo fisso sulle mattonelle rosa antico della stanza.
Lui si stende sul letto, batte una mano sul posto al suo fianco.
<< Vieni qui, avanti >>, mi invita con nonchalance.
<< Co-cosa? Rush ma sei uno scostumato e perverso! >>, reagisco automaticamente, gonfiando le guance in uno sguardo truce.
Ridacchia scuotendo la testa, per poi farfugliare: << Ma che hai capito! Intendo dire che devi sederti e parlarmi, parliamo di tutto quello che vuoi >>.
Con le guance fumose e ardenti dell'imbarazzo più acceso, mi avvicino lentamente, quasi calcolassi cautamente i passi che ci dividono. Lui non distoglie lo sguardo, neanche per un istante, come se non volesse perdersi ogni mio gesto, esitazione, respiro. Mi assale il ricordo del nostro primo incontro, quando mi sono avvicinata a lui con lentezza disarmante per rendergli la tovaglia.
Adesso, però, è un contesto completamente diverso, una situazione spinosa in cui non saprei davvero come reagire.
Avendo appurato di cosa è stato capace qualche ora fa, nonostante la nostra conoscenza breve e limitata a soli quindici giorni, tremo al pensiero di quello che potrebbe fare ora, su quel letto.
Posiziono cuscini bianchi l'uno sull'altro sul materasso ad una piazza e mezza, precisamente tra me e lui.
Mi adagio rigidamente nel secondo in cui il signorino porta le braccia dietro il capo.
Incapace di trattenersi, ride sguaiatamente; si volta permettendo ai cristalli vividi sul suo volto di bruciare su ogni singola parte del mio corpo.
<< Una muraglia cinese di cuscini, mi temi? >>, mi sbeffeggia.
<< Parlando di questioni più serie, da quando ne soffri? >>, aggiunge subito dopo, deponendo la sua solita sfacciataggine.
Emetto un ennesimo sospiro.
<< Avevo 14 anni, mio padre mi pressava e... >>, incomincio a raccontargli, ma mi interrompe velocemente: << Volevi essere la figlia perfetta e sicura di sé >>.
<< Ma la realtà è che non mi ha mai fatto sentire all'altezza, mi metteva troppa pressione addosso, non potevo provare paura, insicurezza, non potevo sbagliare, dovevo essere la figlia perfetta, punto. >> arresto le parole nel tentativo di prendermi un profondo respiro, dopo continuo << Ma l'ansia si attanagliava in quei meandri più nascosti di me e quindi... >>.
<< Si scatenava in quei malesseri improvvisi >>, desume tranquillamente, lui.
Dopodichè, all'improvviso, si sporge verso di me spingendomi ad arretrare.
Appoggia le mani sul lenzuolo ai lati delle cosce, si spostano sulle mie spalle; trasalisco.
Non capisco cosa stia pensando mentre l'immensità, che giace nei suoi occhi, brucia nei miei.
Accarezza interamente il mio braccio, e un secondo brivido mi scuote mozzandomi il fiato.
Si spinge sino al mio collo, producendo su di esso una carezza ripetitiva che percorre ogni singolo millimetro di esso.
Il mio petto inizia a fare su e giù avvertendo il suo soffio al mio orecchio, nel tentativo di dare voce a ciò che gli sta balenando in testa: << Mi stai suscitando pensieri per nulla casti, dovresti coprirti >>.
Indica col capo il punto scoperto della mia coscia sinistra per via di un rialzo della camicia da notte.
<< Ah... s-sì, scu-scusami >>, mormoro in un timbro di voce fievole, affrettandomi a tirarla giù e celare la mia pelle dal suo sguardo perverso.
Sogghigna sussurrando: << Bene >>, resta nella stessa posizione sconveniente, ad un millimetro di distanza dal mio viso, intento ad invadere il mio spazio nel letto.
Un fremito permea sulla pelle della schiena mentre Rush si appressa sempre più a me.
Le sue labbra carnose, ad un soffio dalle mie: << Sai, ho una mezza idea di quello che potremmo fare ora >>, un sussurro caldo, roco e soave.
Delinea, con quelle dita tentatrici, dei cerchi immaginari sul tessuto che mi ricopre lo stomaco.
Mi beo del tocco dell'altra mano, così delicato, deciso e ardente, sul dorso, sulle spalle, sul collo per poi giungere al mio labbro superiore.
Ne traccia il contorno tra una palpitazione e l'altra.
<< Dormiamo? >>, mi propone, e la luce di un'insolita dolcezza illumina quei lineamenti delicati.
<< Co-cosa! Tu ti riferivi a questo? >>, esclamo, sgomenta e ancora accaldata, sgranando gli occhi.
<< Sì. Cosa credevi? >>, mi domanda con una punta di perplessità e serietà, strisciando lontano da me.
<< Ti piace sempre prendermi in giro >>, lo redarguisco paonazza, ma è capace di strapparmi un sorriso che lui ricambia con complicità.
<< Non sono un animale, Juliet. So benissimo che tipo di ragazza sei, so benissimo che quel che è accaduto qualche ora fa non si ripeterà più perché non sei una mia groupie. Abbiamo due concezioni di relazioni differenti, ne ho preso atto e lo rispetto. Siamo due mondi destinati a collidere. >>, mi confessa con un velo di imperscrutabilità.
<< Inoltre, ora non sei nelle condizioni di ricevere determinati assalti, hai soltanto la necessità di rilassarti tra le mie braccia, sentire che non sei sola e vedrai, quel maledetto attacco di panico finirà. >>, mi spiega dolcemente.
Inavvertitamente sussulto quando le sue dita si articolano intorno ai miei ricci, allo scopo di afferrarmi la testa. Delicatamente la appoggia sulla sua spalla, palesando delle carezze di conforto che mi infondono una sensazione di sollievo, almeno per un attimo.
E tutto ciò che mi angustiava scompare, per permettere al calore emesso dalle sue braccia di avvolgermi. Sfiora con inaspettata dolcezza le mie spalle, quasi temesse di rompermi.
Esistiamo solo io e lui; luce e buio di un luogo sconosciuto; acqua e fuoco; così opposti e al contempo complementari.
Le nostre labbra si incurvano all'insú, per un attimo mi sembra di essere in una bolla in cui il cielo è sereno e gli uccellini cinguettano, un luogo in cui dimenticare tutto ciò che mi fa paura.
Ricerco il suo calore così rassicurante e caldo, aggrappandomi a lui come se fosse un'ancora di salvezza.
Non diciamo più nulla, non esiste più nulla, solo io e lui.
Nel momento in cui il sonno inizia a cullarmi, avverto solo un sussurro:
<< Conosco bene quel dolore che ti porti dentro >>.
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