Capitolo XI - Le ombre (Seconda parte)

Pov Juliet:
Dal vetro della finestra nel soggiorno, con il capo chino sugli infissi in legno, posso scorgere cosa si cela oltre la soglia che separa il calore di questa casa dal gelo della brezza mattutina.

Sistemo un boccolo dietro la schiena, perché non sopporto che siano disordinati.

L'oscurità della notte viene ottenebrata dal lume fioco del primo mattino, che eclissa totalmente le ombre; apre il firmamento in un connubio di colori tra il violetto e il rosso.

La notte porta via con sè il chiarore della luna, per permettere alla luce crepuscolare di posarsi sul prato verde del porticato, sulle pietruzze marroni del terreno, sul vaso di rose ai piedi del portone, sul tetto spiovente e sul pallore delle pareti esterne della casa.

Il brillio del sole accarezza i folti rami dell'albero di Ciliegio. Quest'ultimo è situato in fondo alla strada, che si estende dinanzi alle rose del mio porticato; si distingue dalla retrostante vegetazione per lo sfavillante rosa dei suoi petali, per l'imponenza dei suoi rami leggermente ricurvi verso il basso.

Un calpestio, sempre più vicino, mi distoglie da questa eterea contemplazione, catturando il mio sguardo preoccupato.

Gli scarponcini in pelle nera di Stevie si infrangono sulle mattonelle bianche, intenti a riempire con piccole falcate lo spazio che ci divide.

Oltrepassa il sofà in pelle nero e il divano viola; in preda ad un'ira funesta, la sua gamba - ricoperta da jeans strappati - collide violentemente con la poltrona fucsia; essa viene spostata dall'impeto del suo calcio.

Stringe con ardore la maglia nera dei Led Zeppelin, poi immediatamente riprende la camminata nella mia direzione.

Riduce gli occhi cerulei in due fessure, aggrottando la fronte.

Digrigna i denti in una morsa che ha le fattezze della rabbia più tetra.

<< Ha ricevuto rose nere... >>, le sue labbre - precedentemente serrate - si schiudono nella sinfonia di un suono sordo, primitivo e roco.

<< Sì, perchè? Forse l'avranno turbata, ma possibile che possano turbarla così tanto? C'è qualcos'altro sotto... >>, espongo i miei dubbi << Senti Stevie, non vorrei intromettermi, ma... >>.

<< Non so nulla, Juliet >>, tronca il discorso; si defila rapidamente, sbattendo la porta.

-Perchè ho come la sensazione che non sia così? -

Le gambe, fasciate dai jeans a vita alta, mi consentono di avanzare. Emetto un sussulto nell'urtare la lampada in legno a forma di elica.

La afferro prontamente e per fortuna resta illesa nella mia presa salda, per poi riporla nuovamente sul mobiletto in legno.

Una folta e bionda chioma cotonata spunta da una porta del corridoio, la sua; anticipa l'arrivo di una Adrianna alquanto disorientata.

Sbatte le ciglia bionde proprio nel momento in cui ciondola verso di me.

Le sue iridi nere saettano tra i muri blu, quasi stentasse a rendersi conto di quanto accaduto, quasi stentasse a riconoscere la sua stessa abitazione.

<< Ti ho fatto il brodino caldo >>, proferisco parola per frantumare questa bolla di silenzio sempre più opprimente.

<< Sto iniziando ad abituarmi a quella brodaglia, sai? >>, esordisce con voce stanca.

<< Senti, ho trovato queste >>, la informo cacciando fuori dalla tasca delle pillole.

<< Mh... e quindi? Prendo ansiolitici... e allora? Me li ha prescritti il dottore >>, asserisce con tono piatto e indifferente, spalmandosi sul divano nero.

<< Adrianna, io so che non posso lontanamente capire quel che tu provi ogni volta che... però... >, incomincio a dirle.

Ma non riesco a terminare la frase a causa della sua brusca interruzione:

<< Brava! Non puoi capire, quindi non ficcare il naso nelle mie faccende! >>.

Saetta, velenosa, contro di me in un timbro elevato, pregno di risentimento.

<< Non lo sto facendo, però non è drogandoti che starai bene! Non ti aiuterà e ti darà solo un sollievo effimero >>, tento di farla ragionare, perché vorrei che davvero la smettesse di farsi del male.

<< Ma chi ti dà il diritto di farmi la ramanzina? Chi sei tu, Juliet? Ti ho sentita chiedere a Stevie delle rose nere! >>, scatta, iraconda e insofferente, balzando all'impiedi.

Un dolore lancinante le logora il viso serrando la sua mascella in una morsa di marmo, inchiodando le sue pupille al vuoto.

Sussulto quando scaglia la lampada a forma di elica sul pavimento.

Respira affannosamente come se il suo respiro venisse risucchiato da una morsa soffocante.

Deglutisco, ansante.

<< Ok, ma è normale, chiunque lo avrebbe fatto. Scusami se ti sei sentita spogliata della tua privacy, mi ero solo preoccupata, e questa ramanzina non ha l'intento di giudicarti, ma... >>.

Lei issa le sopracciglia, esternando costernazione.

Ed improvvisamente, la tensione viene riempita dalle sue risa sguaiate.

<< Preoccupata? Ramanzina? Non mi conosci nemmeno! Ti dico io chi sei... >>, afferma rabbiosamente << Sei solo una ragazzina viziata, repressa, cresciuta in una campana di vetro, e adesso annoiata! Così tanto annoiata che desidera trovare un nuovo giocattolo, che renda la sua vita meno grigia e la faccia sentire meno sola! Allora fingi di provare pena per me, per intrometterti nella mia vita e potermi - poi - criticare con le altre figlie di papà come te! >>.

Queste sue parole, come veleno, si iniettano dentro di me e mi trafiggono ripetutamente come spade.

La mia mascella vibra e si tende verso il basso, figurativa del mio stato d'animo.

-Ha ragione! Sono sola in questo luogo, abbandonata dalla mia famiglia per il desiderio di svincolarmi dalla loro oppressività! Lontana dai miei amici della Juilliard che veri amici non sono mai stati -

La mia mente si perde in un'altra dimensione.

Una dimensione passata in cui io ero alla Juilliard e loro, quelle ragazze piene di sé, mi si avvicinarono mostrando affabilità e ammirazione.

Mi chiesero spiegazioni sul come dovessero suonare un pezzo di Beethoven.

Io mi prodigai in lunghe e logoranti spiegazioni, arrivai a gioire delle loro piccole vittorie contro quegli ostici spartiti.

Mesi dopo, precisamente in seguito al Saggio di Musica, i loro sorrisi e la loro presenza iniziarono a diradarsi; diventarono dei fantasmi.

Avvertii la loro assenza.

La loro falsità mi entrò sottopelle, facendomi sentire così, usata e terribilmente sola.

Ho sempre destato ammirazione per il cognome che porto e per il mio talento con il violino, e non per quello che sono.

Tante volte mi sono sentita vuota, un involucro incapace di generare emozioni nel prossimo.

Ho abbandonato quell'ambiente, perché non ne potevo più di quel mondo così superficiale, frivolo, vuoto, schiacciato dall'oppressività di mio padre.

Ho lasciato la mia famiglia, suscitando l'ennesimo malcontento nel mio genitore, che non ha mai apprezzato alcuni miei modi di essere.

Nonostante io fossi la figlia perfetta, usava demigrarmi facendomi sentire inutile, perché desiderava forgiarmi a sua immagine e somiglianza.

Non tollerava quella che lui definiva supponenza.

-È supponenza non condividere alcuni suoi modi di concepire la vita? È supponenza evitare di offendere chi è diverso o meno fortunato di me? È supponenza desiderare di essere l'artefice del proprio destino? È supponenza frequentare un ragazzo di nascosto, solo perché il proprio padre non accetta che tu abbia una frequentazione con un giardiniere? È supponenza opporsi al fidanzamento forzato con il figlio di un professore della Juilliard, solamente perché ha una posizione di prestigio? -

Sono scappata lontana da loro, ma loro riderebbero se mi vedessero ora.

Sono sola, neanche questi ragazzi mi accettano.

Non mi accettano, perché sono diversa anche da loro.

Non sono abbastanza provocante e disinibita.

Non sono abbastanza simpatica.

Non valgo nulla ai loro occhi.

Sono noiosa e insignificante.

- Rush, anche lui mi vede tale! Mi ha definita banale, vuota, neanche bella! Le mie doti al violino non bastano per valere qualcosa ai loro occhi, se possiedo solo quelle! Nessuno mi ama! -

Realizzando tutto ciò, il mio sguardo si tramuta in un vitreo cristallo.

I miei occhi cerulei stagliano nell'oscurità dei suoi, trovando in essi solo odio.

Le stille del mio dolore sgorgano dalle palpebre, bagnandomi copiosamente le guance.

<< Come puoi pensare una cosa simile? Mi hai descritto come una persona superficiale e vuota! Ma io non sono così! E se davvero io fossi così viziata come dici, non sarei mai venuta a vivere in questa casa! Io ho abbandonato la mia casa, perchè ho litigato con mio padre! >>, farfuglio in versi strozzati, lacerati da un pianto silenzioso.

<< Sarà... ma qui nessuno ti vuole, non ti sei integrata e a me andava bene finchè te ne stavi per i fatti tuoi! Ma così no! E fossi in te, mi farei due domande... i tuoi genitori non ti vogliono, noi non ti vogliamo, nessuno ti vuole! >>

Questo malessere è così intenso da espandersi, attraverso una scarica elettrica, sino alle spalle e alla cassa toracica; il cuore inizia una galoppata forsennata

Seguito a versare lacrime, anche se vorrei mostrarmi forte come sempre.

Pur ostinandomi ad apparire forte, controllata e rigida, sono sensibile.

A volte credo che l'eccessiva sensibilità sia una dannazione, perché avverti le emozioni dell'altro amplificate, ti entrano sottopelle e possono anche distruggerti.

<< Mi stai dicendo parole molto offensive, io... >>, boccheggio di fronte al suo sguardo impassibile e annebbiato.

<< Tu cosa? Avanti, parla! Ah... no, ho colpito il segno, vero? >>, mi sbeffeggia, colma di ira.

Un fievole e simulato colpo di tosse arresta il fiume di offese della mia coinquilina.

Rush, appoggiato allo stipite del portone in legno, con le braccia conserte, ci scruta accompagnato da un'aria imperscrutabile.

Indossa dei pantaloni neri e un giubbotto di jeans che lascia intravedere parte del suo petto nudo.

Il giubbotto presenta delle chiazze bianche e delle strisce rosse su una spalla.

-Ma che giubbotto è? -

Ridacchio debolmente scuotendo la testa. Ancora una volta, malgrado io stessa lo riconosca, constato quanto le mie manie di perfezione siano presenti, anche nei momenti peggiori.

Hanno ragione: sono una perfettina.

Gli dò le spalle, non voglio che veda lo stato in cui riverso. Non voglio che si prenda gioco di me.

<< Adry, ti cerca Stevie >>, informa apaticamente.

Ma lo sento, il suo sguardo; brucia sulla mia schiena.

<< Digli che stavo parlando con Juliet e devo finire di parlarle >>, quasi inveisce contro il nuovo arrivato.

Lui trae un profondo respiro.

<< Adrianna, penso che possa bastare. Le hai già detto tutto quello che dovevi >>, le dice inaspettatamente.

Non mi sarei mai aspettata che lui, dopo avermi scacciato, prendesse le mie difese.

Forse vuole soltanto che la smettiamo di urlare.

I suoi passi lenti e cadenzati ne segnano l'avvicinamento.

Mi si mozza il fiato quando lo avverto, dietro di me.

<< Va-vado anche io >>, balbetto.

Senza mai incontrare le profondità dei suoi occhi verdi, tento di andare via, ma mi cinge il polso; mi solleva il mento.

Spinge il mio corpo contro il suo, inducendomi a retrocedere.

Ma non molla la presa.

Non vuole lasciarmi andare.

<< Hai pianto >>, constata, impassibile.

Mi discosto da lui.

<< No, è solo allergia >>, nego l'evidenza per orgoglio.

Odio mostrarmi debole e generare compassione.

<< Mh... e immagino che questa allergia abbia un nome che inizia per "A" e finisca per "drianna" >>, pronuncia con sarcasmo in un sorriso sardonico.

Mi porge un fazzoletto; ci soffio sopra.

Per la seconda volta ho frignato come un infante, davanti a lui.

Mi allontano da lui che mi segue come un'ombra.

Attraverso il corridoio ed entro nella mia stanza.

Le sue pareti bianche, l'assenza di mobili, quell'armadio sgangherato in legno, il letto privo di testiera al centro, esprimono il mio stato d'animo.

Esprimono la mia mancanza di vitalità in questo istante.

Afferro degli abiti e li sistemo nella valigia sotto le sue occhiate perplesse.

<< Cosa fai? >>, domanda, sorpreso.

<< Non vedi? >>, indico gli indumenti nella valigia a bauletto marrone.

<< Mh... è tutta qui la tua determinazione? >>, mi inchioda all'ennesimo indovinello; smetto immediatamente per voltarmi verso Mister Arroganza.

<< Non c'è determinazione che tenga di fronte ad alcune situazioni >>, confesso in un sussurro quasi impercettibile << Rush, tu hai già espresso quello che pensi di me. Lo ha espresso Adrianna, adesso. Per voi sono una ragazzina viziata, vuota, che si intromette nelle faccende altrui per combattere la noia >>.

<< Sì, sei una principessina, ma... >>, concorda lui, lasciando che le labbra carnose si incurvino all'insù in un sorrisino di scherno.

<< Ti prego non dire altro! Me lo hai già detto! Ho capito che non sono ben accetta, perchè beh... qualsiasi cosa io faccia ha chissà quali terribili fini, perchè sono viziata, perchè sono una bacchettona, perchè non mi sballo come fate voi, perchè provo pudore e timidezza, perchè sono una maledetta perfettina >>, mi sfogo e tutto il dolore straripa via da me.

Lui resta impassibile in un mutismo denso di significato, l'unico significato possibile.

Concorda con tutto quello che ho detto: non sono benvoluta.

Chiudo la cerniera della valigia e mi affretto ad uscire dalla stanza.

<< So che per questo non mi sopportate, dunque tolgo il disturbo. Tranquillo, non dovrai più sopportare la mia petulante moralità >>, concludo questo patetico monologo per sgusciare via dalla sua figura.

Ma non sembra essere della mia stessa idea, perché chiude la porta in un tonfo.

Volgo lo sguardo sul suo viso, indispettita.

<< Che tu sia una bacchettona, rigida e insopportabile... è innegabile >>, asserisce sorridendo.

<< Bene! >>.

Mi accingo ad aprire la porta ma lui - aderendo completamente ad essa - me lo impedisce.

Si frappone tra me e l'uscita per impedirmi di andare.

Cerco, invano, di spingerlo via.

<< Ehy, aspetta! >>, un sussurro roco e vivo vibra via da lui.

Nel mentre circonda le mie spalle, intrapolandomi al suo petto.

Sono braccata dal suo respiro che si confonde con il mio, dalle sue labbra che quasi sfiorano le mie a causa della distanza, da quegli smeraldi ardenti che sono causa di ogni singolo brivido.

Con un respirare affannoso, lo osservo in attesa della sua prossima mossa, non sapendo minimamente cosa aspettarmi.

Le sue mani percorrono la mia schiena, provocando uno strano ansimo in me.

-Che mi succede? La sua vicinanza mi rende tesa, inerme, come se fossi creta nelle sue mani... -

Non è solo la sua bellezza.

Lui ha un'attrattività particolare, un connubio di sicurezza, sfrontatezza, audacia, carisma e sensibilità.

Mi trasmette le stesse sensazioni di quella volta in cui l'ho visto all'opera con la sua chitarra e il suo pianoforte.

Scaccio dalla mia testa al più presto questi pensieri pericolosi, per altri di una maggiore portata.

-Perché? Perché mi trattiene a sé? Cos'è che vuole da me? -

<< Tu sei tutto questo, ma noi siamo un fetido casino! Ognuno di noi ha le sue ombre, nessuno è migliore di nessuno. La tua incrollabile e petulante moralità non è poi così male, non è così tanto insopportabile, Principessina >>, mi sibilla soavemente, soffiando sul viso. Mi sorride dolcemente, intento ad asciugare ogni mia lacrima.

Le sue dita sono così delicate, impegnate a lasciarmi delle lievi carezze.

<< Riguardo il tuo fare da Principessina, me ne farò una ragione. Sai, sopporto Stevie ogni giorno. Ho una soglia della sopportazione molto alta >>, scimmiotta leggermente roteando gli occhi al cielo in una nota falsamente teatrale.

E ridacchiamo, per la prima volta insieme, per la prima volta complici.

Mi perdo ad osservare i suoi lineamenti angelici, la mascella squadrata e i ricci che ricadono sulla sua fronte.

Il rumore di una porta sbattente ci fa sobbalzare; ci separiamo all'istante.

<< Rush, mi accompagneresti tu al Club? Stevie non può! >>, urla, Adrianna.

Lui, in un muto assenso, esce dalla stanza.

Pov Adrianna:

Voglio arrivare a quel fottuto Club, fare quel che sono costretta a fare e dormire.

Questa giornata è stata fastidiosamente incasinata, come ogni giorno della mia miserabile vita.

Sbatto il tacco sul pavimento; il palmo della mano si precipita ad allisciare freneticamente il vestito nero che porto.

-Non può essere lui! Quel maledetto! Quella frase... mi fa pensare a lui e a loro! A quei maledetti che non voglio più rivedere! -

Trattengo a stento uno sbuffo nella lunga attesa.

-Ma cosa diavolo combina Rush? Che avrà di così importante da dire a quella snob di Juliet! Non sarà che quei due se la fanno insieme? -

Ed eccolo, finalmente, raggiungermi e aprire il pandino.

Lancia un sogghigno a Juliet, ricambiato timidamente da quest'ultima.

-Hai capito alla santarellina! Alla faccia della perfettina casa e chiesa! Te la fai con Finlay, Juliet? -, vorrei dirle, ma tutto ciò resta relegato nei mie fetidi pensieri.

Farei bene a farmi gli affari miei.

Ci accomodiamo e la marcia ingrana.

Gli alberi schizzano ad una velocità indicibile; mi ricordano le sensazioni che provi quando assumi determinata roba, roba buona.

<< E Stevie, perchè non è qui? Di solito mi accompagna lui. >>, decido di interrompere questo mutismo, perché mi ha stufato.

Ovviamente non è di mio interesse sapere cosa fa quel cazzone.

Ma, cazzone o no, siamo amici; non posso negare di tenere particolarmente a quella testa bacata e crespa.

<< Aveva da fare. >>, dice cripticamente, Finlay.

Alcune volte pare abbia un groppo in gola che gli impedisce di parlare.

Ha la loquacità di un pesce.

<< Mh... ok. >>, sputo dalla bocca la mia più totale indifferenza.

Ma io, se voglio, sono stronza quanto lui; non intraprenderò conversazione con un pesce.

<< Hai più visto le rose nere? >>, mi pone una domanda, il pesce.

<< No. >>, risposta secca, la mia.

<< Bene, nel caso riappaia... >>, si intuisce chiaramente la terminazione della frase.

<< Non voglio pensarci. Non voglio pensare a quella persona, a quello di cui potrebbe essere capace. Ma tu questo dovresti saperlo meglio di me... sai cosa significa sfuggire a persone capaci di fare qualsiasi cosa... >>, una luce sinistra adombra il mio volto e il suo, intrappolando quest'ultimo in una morsa che ha le fattezze della rabbia più vivida.

<< Già. Ma se la persona di cui parli tornasse a tormentarmi, la ucciderei. >>, sentenzia in un'aria truce e sinistra; mi fa rabbrividire perchè so che lo farebbe.

<< Per qualsiasi cosa tu lo necessiti, noi ci siamo, Adry. >>, mi rassicura nell'istante in cui l'auto inchioda.

<< Grazie, Finlay >>, lo ringrazio, mollandolo per salire le scale.

La mia vista scatta sulla scritta lampeggiante in una luce viola:

_"Hard Rock Club"_

-Che vita di merda! Potevo nascere figlia di un banchiere e avere un montagna di soldi rigirandomi solo il pollice? E invece no! -

Anziché entrare dal portone principale, svolto a sinistra per accedere alla porta grigia sul retro.

Al centro di uno spazio ristretto si trova una scala stretta a chiocciola, in ferro.

L'incidere dei tacchetti su di essa, produce degli scricchiolii.

Al termine di quella che ha delle rassomiglianze con una sfacchinata, mi ritrovo nel corridoio.

E camminando, mi conduce alla mia porta laccata in giallo.

Ma proprio quando sono intenzionata ad aprirla e a dare vita ad un'altra terribile giornata, un suono sommesso mi fa trasalire.

Non riesco a capire da dove provenga.

<< Jim! Sei tu? >>

Il nulla più assoluto regna sovrano.

<< Chi c'è qui? >>, insisto.

Inizio a correre a perdifiato; le pareti azzurre scorrono velocemente.

Il catorcio, che ho come cellulare, non si accende, privo di batteria.

Mi serro rapidamente in un'altra camera.

<< Oh, grazie a Dio! >>, esclamo non udendo più nessun rumore.

Ma due guanti neri premono sulla mia bocca e mi spintonano con violenza contro un petto a me sconosciuto.

Mi divincolo, ma questa persona è più forte di me.

Non riesco a vederla in volto, perché, dietro di me, mi ha intrappolato.

Con un altro guanto preme un panno sul mio naso; un qualcosa di pungente e intenso viene inalato.

Avverto solo le sue braccia stringersi a me e poi...

Il buio.

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