Capitolo 04
Erano le tre e tredici del pomeriggio quando Axel rincasò. La notte l'aveva passata nuovamente tra le coperte di Monica. Ed erano esattamente quattro giorni che non si faceva sentire e tantomeno vedere dalla sua famiglia ― non che alla madre fregasse qualcosa di lui. Poteva anche essere morto in un fosse che lei avrebbe continuato la sua vita lo stesso, forse pure contenta di non averlo più in mezzo ai piedi.
Sua sorella però gli aveva lasciato una caterva di messaggi e aveva provato a chiamarlo un centinaio di volte.
Axel, ovviamente, non aveva risposto a niente. Non l'aveva fatto perché sicuro che se avesse accettato anche una singola chiamata di Roselyn, sarebbe finito con il litigare con lei quindi aveva preferito non rispondere affatto.
Era stato così bene da Monca, che il pensiero di dover sentire la voce di sua sorella o peggio ancora, di sua madre, gli aveva fatto contorcere le budella nello stomaco, motivo per cui aveva preferito disintossicarsi quei pochi giorni dalla sua famiglia.
Il ragazzo si guardò in giro con circospezione. Voleva correre nella sua stanza senza farsi vedere, ma a quanto pare Dio aveva altri piani per lui. Sua madre uscì dal salotto in quel preciso istante e si ritrovò davanti suo figlio che sembrava quasi un ladro con gli scarponcini in mano e in punta di piedi per non fare rumore.
Il viso rugoso di Elaine Powell si increspò. Le sopracciglia chiare si aggrottarono e gli occhi si ridussero ad una sottile fessura. La pelle le si accartocciò intorno ai profondi solchi delle rughe e ricordarono particolarmente delle ragnatele.
Poi gli puntò il dito contro, «Tu, essere schifoso, dove diavolo sei stato? Tua sorella aveva bisogno di te. Cristo, quanto sei inutile» lo aggredì, abbaiando parole cattive che ormai da tempo Axel aveva fatto l'abitudine di incassare senza restarci male.
Il sangue del corvino iniziò a ribollire per l'incazzatura. Il suo sguardo cattivo, fulminante sprigionava tutto l'odio che provava per quella donna.
Se uno sguardo potesse uccidere per davvero, sua madre non sarebbe più sulla terra da molto tempo.
Strinse i pugni lungo i fianchi. Così stretti che le nocche gli erano diventate perlacee. Non poteva permettersi di toccare quella stronza.
«Ah, ma davvero?» la sbeffeggiò lui. Il suo tono di voce era sarcastico, come la maggior parte delle volte in cui parlava con lei ― adorava prenderla per i fondelli.
Solo quando avevano bisogno di lui, si ricordavano della sua presenza sennò non si mettevano nemmeno a cercarlo. Se fosse sparito per giorni, era sicuro l'avrebbero cercato solamente in caso avessero avuto bisogno di qualcosa da lui, come i suoi soldi.
«Tua sorella ti ha chiamato tantissime volte, figlio ingrato! Dov'eri e perché non hai risposto?» la madre fece per tirargli un ceffone, ma Axel si scansò fulmineo e la inchiodò con uno sguardo trucido.
Non era più il bambino impaurito che davanti ad un alzata di mani chiudeva gli occhi e subiva stando in silenzio mentre si domandava se davvero si meritava tutto ciò. Ora era adulto e sapeva difendersi. Erano anni che sua madre non alzava le mani su di lui. Aveva smesso quando durante una loro litigata per una scemenza come il passare davanti alla televisione, Axel aveva risposto alla sua violenza con altra violenza, spingendola talmente tanto forte da farla finire sopra al tavolino in salotto. Tavolino che poi si era spaccato a metà per via della forte onda d'urto. In ogni caso da quel giorno smise di picchiarlo, ma non di vomitargli addosso tutto il suo odio a cui però era abituato e di cui aveva imparato a fregarsene.
«Mi ha davvero chiamato? Il mio cellulare non ha squillato. Forse anche lui si è stancato di Rose.»
Elaine emise un grido esasperato, mettendosi le mani nei capelli. «Fai schifo! Come puoi essere mio figlio? Sei un mostro.»
Dalle labbra del corvino fuoriuscì un fischietto leggero in segno di menefreghismo. Poteva urlargli contro qualsiasi cosa, tanto a lui non importava più niente. Non una singola parola. Sua madre era un disco rotto ― da quando Axel aveva memoria, gli aveva detto sempre le stesse identiche frasi a ripetizione, come se non sapesse cos'altro inventarsi per ferirlo.
«Sì, sì, okay» borbottò poi.
La donna grugnì infastidita. «In camera di tua sorella ci sono Summer e Margaret, vedi di badare a loro. Io devo uscire.»
«Con il tuo toy-boy, giusto? Meglio una scopata con un ventenne che fare la nonna e badare alle proprie nipoti, vero?» ribatté lui stizzito.
Summer aveva quindici anni e sapeva badare benissimo a se stessa. Margaret ne aveva undici, ma era abbastanza intelligente da seguire ciò che faceva la sorella maggiore quindi sarebbero potute stare tranquillamente a casa sole, ma era ovvio che sua madre voleva solo rovinargli la giornata, trasformandolo in un babysitter.
Non aveva problemi a badare a loro. Il problema stava alle fondamente. Era stata sua madre a ordinarglielo, giusto per infastidirlo come faceva sempre. Se non fosse stato per lei, sarebbe stato anche contento di stare con le sue nipoti, ma in quel caso aveva le palle girate all'idea di perdere mezza giornata a badare a Summer e a Margaret. Soprattutto pensando che alla sera avrebbe dovuto fare una prova generale con Evan nervoso come non mai, prima di suonare al ballo in una scuola che detestava con tutto il suo cuore.
Con Summer aveva un ottimo rapporto. Diciamo che Axel le faceva fare ciò che voleva quando erano insieme. Alcune volte l'aveva anche portata ad un suo concerto senza che Roselyn lo sapesse. In più era abbastanza grande da aver compreso il rapporto tra sua madre e suo padre e quanto quest'ultimo avesse contribuito, in passato, al declino di lei verso la spirale dell'alcolismo.
Con Margaret invece il rapporto era un po' diverso. L'adorava, ma non sopportava quando elogiava suo padre e per quel motivo non aveva mai voglia di passare il suo tempo con lei. Era normale che si prendesse cura di sua figlia eppure per Margaret, lui era un eroe perché la rendeva felice con stupidi regali e parole dolci dette distrattamente per farle credere di essere migliore di Roselyn. Ma era tutto tranne che un supereroe. Un pezzente che aveva abbandonato sua sorella nel momento peggiore della sua vita, tradendola e portandole via anche le figlie invece di aiutarla con la sua sobrietà vacillante. Una persona orribile che non aveva mai voluto essere padre e che più volte aveva supplicato Rose di abortire e invece ora si proclamava come "genitore migliore del secolo".
«Bada a come parli, stupido ragazzino» sibilò Elaine, «Vedi di prenderti cura di loro mentre non ci sono».
Axel alzò gli occhi grigi al cielo, sbuffando sonoramente a pochi centimetri dal viso della madre diventata paonazza per la rabbia. Poi senza risponderle, salì le scale e si diresse verso la stanza di sua sorella da dove sentiva già provenire calde risate e grida allegre.
Sarebbe stato un lungo e snervante pomeriggio. E pensare che lui avrebbe voluto solamente riposarsi un po' prima di quella stupida serata, ma grazie a quell'arpia di sua madre, i suoi piani erano andati in fumo.
✴✴✴
Il batterista fu l'ultimo ad arrivare davanti alla casa di Deacon. Subito dopo il suo arrivo fecero una veloce prova generale e ora gli altri stavano caricando gli strumenti e altre cose sul furgoncino di Evan.
Lui non aveva voglia di fare niente. Non dopo il pomeriggio passato a rompersi le palle con Margaret che gli aveva raccontato vita, morte e miracoli delle sue stupide Barbie, come se a lui fosse potuto fregare qualcosa di quei pezzi di plastica. Non era stata zitta un secondo e ciò aveva portato il suo sistema nervoso ad alterarsi a livelli assurdi. Non sapeva nemmeno lui come aveva fatto a trattenersi dal gridarle contro di stare in silenzio, di non fiatare e di giocare senza fare rumore. Per fortuna, Summer aveva capito un po' la situazione e le aveva detto di lasciare riposare lo zio. Non era comunque riuscito a rilassare neanche un muscolo del suo corpo per via delle grida allegre della bambina.
Era stravaccato sul divano del garage di Deacon e borbottava parolacce a destra e a sinistra mentre i restanti membri della band lavoravano anche per conto suo. Lui non stava muovendo un dito, proprio come aveva annunciato appena arrivato e dopo aver concluso la prova generale.
«C'hai la luna storta?» gli domandò Carter, tirandogli una leggera sberla alla gamba destra, dopo essergli passato davanti per l'ennesima volta. E sempre per l'ennesima volta si era visto incenerire con lo sguardo.
Axel gli mostrò il dito medio, fissandolo di sottecchi. Perché non la smetteva di frantumargli le palle? Perché non lo lasciavano riposare per cinque minuti? Erano tutti così fastidiosi...
«Se non taci, ti spacco la faccia, Terry» sibilò poi, digrignando i denti per il nervoso.
«Ax, basta» lo ammonì Evan, che come ogni volta doveva intromettersi nei loro battibecchi, sicuro che se non l'avesse fatto quei due sarebbero arrivati alle mani per quanto riuscivano a sopportarsi.
Non era una cosa positiva per la band il fatto che due di loro non potevano scambiarsi mezza parola senza litigare, ma Evan non sapeva che altro fare. Axel era il suo migliore amico ed era bravissimo a suonare la batteria, ma del resto pure Carter era impeccabile col suo strumento e per questo motivo non se la sentiva di cacciare nessuno dei due quindi si ritrovava costantemente ad interromperli per evitare una tragedia.
«Ma basta cosa? Sono incazzato, va bene? Lasciatemi stare» sbraitò il corvino. Le budella presero a ribollire nel suo stomaco e le mani incominciarono a prudere sotto allo sguardo critico di Evan.
«Stasera dobbiamo suonare, ricordi? Non puo-»
«Certo che mi ricordo che dobbiamo esibirci. Lo hai ripetuto per due settimane di fila, rompendo i coglioni come non mai» ribatté acidamente.
Non ne poteva più di risentire la stessa identica solfa da giorni. Era stanco di tutto ciò. Lo aveva capito che dovevano suonare a quel dannato ballo, non serviva ripeterlo in continuazione. Gli stava stressando l'anima.
Non poteva lasciarlo stare per qualche minuto? Era troppo difficile per Evan? Cazzo, aveva passato un pomeriggio orribile e quella stronza di sua madre aveva avuto pure il coraggio di trovargli da dire perché quella sera sarebbe stato nuovamente fuori.
Che poi, che diavolo le importava di ciò che faceva se per tutta la vita gli aveva dato meno del minimo indispensabile per vivere? Axel proprio non si capacitava di come funzionasse la mente della madre.
«Sei proprio un stronzo di merda quando fai così». Evan scosse il capo con disappunto.
A volte non capiva proprio il suo migliore amico. Gli aveva offerto una via di fuga da quella casa tossica, invitandolo a stare da lui per tutto il tempo di cui aveva bisogno (i suoi genitori erano d'accordo con l'ospitarlo) eppure lui l'aveva rifiutata con la scusa banale di non voler disturbare. Aveva paura che l'amico sentisse il bisogno di farsi del male quotidianamente, vivendo in quella casa e con quella famiglia che per tutta la sua vita non aveva fatto che trattarlo male. Lo avevano ridotto ad un essere traboccante di rabbia, di desiderio di violenza e di odio.
La verità, almeno per Evan, era che quel povero ragazzo avesse semplicemente bisogno di stabilità. Di una famiglia che lo amasse sul serio. Di trovare la persona giusta con cui condividere la sua vita. Ma Axel nemmeno se ne rendeva conto. Non si rendeva conto che per stare bene avrebbe dovuto riaprire il suo cuore e trovare qualcuno che l'avrebbe reso una persona migliore. No, perché era accecato dall'ira.
In sé aveva sentimenti buoni eppure prevalevano quelli cattivi. Avevano preso il sopravvento su tutto.
«Se magari mi lasciaste in pace, non saremmo qui a discutere per stronzate.»
Il cantante strabuzzò gli occhi azzurri, scioccato da come il suo migliore amico avesse appena definito la loro passione e la loro dedizione a quella band che avevano creato insieme.
«Stronzate? La nostra esibizione è solo una stronzata per te?» sbraitò con il suo accento inglese molto marcato. La sua voce era già di per sé molto acuta, in quel momento raggiunse un livello ancora più alto e stridulo, come il suono delle unghie passate sulla lavagna. In più, quando Evan era molto arrabbiato tendeva a parlare in modo molto veloce e facendo così finiva col mangiarsi metà delle parole. Lo si doveva interpretare per capire cosa stesse dicendo.
Axel si tirò su e si mise a sedere poi fissò nello sguardo il suo migliore amico che sembrava volesse ucciderlo, «Non intendevo quello e lo sai».
«Allora cosa?»
Il corvino, stufo di quella conversazione, alzò gli occhi al cielo poi diede uno spintone ad Evan e il suo grugnito infastidito gli arrivò dritto nelle orecchie, «Minchia, Van, basta scassarmi i coglioni. Non intendevo dire che la band è una stronzata, punto. Sono solo molto stressato, okay?».
Evan lo mandò a farsi fottere. Col viso deformato dalla furia, tornò a caricare il resto della roba. E nel frattempo sperò che quello stronzo del suo migliore amico si desse una calmata.
«Quando cazzo sei scorbutico» si intromise il bassista, scuotendo la voluminosa e mossa chioma color cioccolato, poi subito dopo lo avvisò che erano pronti per partire.
«Chiudi quella fogna, Deaky», sibilò adirato Axel, superandolo e raggiungendo velocemente il furgoncino di Evan.
Voleva che quella serata finisse il prima possibile perché non ne poteva più di sentire parlare di quel ballo e di quell'esebizione.
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