Capitolo 03
La mattina del ballo, Lennon si svegliò di pessimo umore. I suoi vicini di casa avevano avuto la brillante idea di smantellare, segare e spaccare vecchi mobili alle sei del mattino. Era andato a letto molto tardi e di conseguenza aveva dormito poco e niente.
Ora fissava la sua tazza di cornflakes inzuppati nel latte, ormai diventati troppo mollicci per i suoi gusti, col viso contratto in un'espressione di puro furore. Le sopracciglia erano talmente aggrottate che si sfioravano tra loro e le labbra tese in una linea retta bastarono a far capire a sua madre che non era l'umore adatto per avere una conversazione. Era troppo incavolato per non aver riposato il giusto tempo, considerando che quella sera sarebbe tornato a casa molto tardi per via del Prom.
E Lennon non aveva alcuna voglia di litigare con sua madre per una sciocchezza, ma sapeva che se gli avesse rivolto la parola sarebbe sbottato. Primo perché era veramente tanto stanco e secondo perché aveva un mal di testa atroce che lo stava facendo impazzire.
In quel momento preferiva di gran lunga il silenzio.
Quel silenzio dove non volava nemmeno una mosca. Purtroppo però quello non era il suo caso ― i vicini avevano deciso di voler svegliare chiunque nel vicinato col baccano che stavano facendo, anche in quel preciso istante.
Erano le otto e trentasei e tra meno di mezz'ora si sarebbe dovuto incontrare con i suoi amici e lui era livido in volto. Non si era ancora cambiato. Non aveva ancora risposto al messaggio che Lukas gli aveva inviato dieci minuti prima. Non aveva voglia di far niente se non tornare in camera sua e rimettersi a dormire.
Lennon sospirò pesantemente. Le sue dita lasciarono la presa sul cucchiaino che cadde nella tazza e alcune gocce di latte schizzarono fuori e bagnarono il tavolo.
Contò mentalmente fino a tre. Poi si alzò da tavola e andò in camera sua a cambiarsi con qualcosa di comodo, ovvero una canotta e un semplice paio di bermuda neri. Infine decise di rispondere al suo amico con un semplice «arrivo», anche se la sua voglia di uscire di casa era pari alla sua voglia di studiare matematica.
Non era una persona ritardataria, anzi detestava chi arrivava in ritardo eppure quella mattina lo era. Ma il suo corpo era pesante come un macigno e i passi che compieva erano lenti e molleggianti, così come le mosse che stava facendo per cercare le chiavi della sua macchina mentre provava ad infilarsi le scarpe da ginnastica.
«E infilati, porca troia» sbottò in italiano, ficcando con violenza il piede nella scarpa.
Il suo stesso urlare gli fece tornare il mal di testa. Gli pulsavano dolorosamente le tempie, come se avesse dentro la testa qualcuno che continuava a picchiare con insistenza un martello contro le pareti craniche.
Se le massaggiò, ma il male non sparì magicamente come aveva sperato.
Voleva solo dormire, dannazione.
Uscì di casa con l'umore sotto le suole delle scarpe, accompagnato dalla sua amica di vecchia data, l'emicrania, che avrebbe preferito non risentire più.
Prese la macchina e si diresse verso la sua destinazione. Nel frattempo malediceva i suoi vicini di casa, i quali avrebbero potuto scegliere un altro momento in cui smantellare casa e invece no, avevano deciso di farlo alle sei del mattino, fregandosene di chi gli abitava accanto.
Il Green Lights era il bar più frequentato dai giovani. Era un ritrovo per giovani menti, ma non significava necessariamente che gli adulti non potessero andarci, anzi molto di loro erano clienti abituali. Costruito interamente in legno di quercia, con tavolini rotondi e sedie imbottite. Vi era una zona relax, dove chi voleva poteva andare a rilassarsi leggendo un libro, bevendo té e tisane oppure semplicemente per ascoltare un po' di musica, accomodati su poltrone in stile anni sessante, con tessuti floreali sui toni del verde pastello. Quella parte del bar veniva separata da una lunga tenda fatta di perline, anch'essa verde. Dai muri pendevano cascate di lucine bianche come stelle cadenti. L'atmosfera era molto calda, confortevole e proprio per quel motivo i ragazzi amavano passare intere ore a parlare e a ordinare dolci che lo stesso staff del bar preparava.
I campanellini sopra la porta tintinnarono quando quest'ultima si aprì nuovamente. Lennon vi fece il suo ingresso. Salutò le ragazze del bar che stavano preparando gli ordini dei clienti poi con passò spedito, si avviò verso il tavolo che ormai da quattro anni a questa parte, lui e i suoi amici occupavano.
«Buong―Minchia che faccia c'hai?». Jason rimase stupito nel vedere l'alone nero che stava avvolgendo Lennon.
Lui in risposta, storse il naso e aggrottò le sopracciglia rosse e folte, infastidito dalla sua voce. Non ne aveva colpa, ma ogni suono in quel momento lo irritava. E qual era il modo migliore per innervosirsi di più se non andare in un bar pieno di ragazzi che starnazzavano già alle nove del mattino? Era un genio. Avrebbe dovuto scrivere a Lukas che non ce l'avrebbe fatta a passare, così da provare a mettersi a dormire per qualche ora. E invece non l'aveva fatto quindi ora si ritrovava con la testa sul punto di esplodere e le orecchie che fischiavano, sovraccaricate da tutti i suoni che riteneva fastidiosi.
«Non ho dormito un cazzo per colpa di quei vicini di merda.»
Lukas gli mise una mano sulla spalla. Lennon percepì le sue dita stringersi intorno alla sua pelle quindi si concesse un sospiro fiacco.
Sul viso del biondo tornò a fargli visita la sua solita espressione di apprensione che mostrava ogni volta che lui, Jason o Lia stavano male.
«Perché non me lo hai scritto? Ti avrei detto di startene a casa a riposare, stupido.»
«Scusa, Lù.»
Lukas alzò gli occhi azzurri al cielo. Tirò fuori il portafoglio dalla tasca dei jeans e l'aprì, prendendo la bustina di medicinali che ci teneva dentro per ogni evenienza, come gli aveva detto tempo addietro e gli passò una pastiglia, «Prendila ora».
Lennon lo ringraziò poi prese la medicina con la tazza di caffè che Jason gli aveva passato, sperando facesse effetto al più presto perché dopo la mattinata con i suoi amici, aveva una cosa molto importante da fare.
«Ah, ieri sera ho sentito Dennis. Noi due ci vediamo direttamente a scuola. Voi invece che fate?»
«Lia mi sta facendo uscire pazzo per colpa del ballo. Stamattina, verso le otto, mi ha chiamato disperata. Stava letteralmente piangendo dal nervoso perché ha scoperto che una sua amica avrebbe indossato il suo stesso abito quindi ha iniziato a dire che non voleva più andarci, che era tutto rovinato. Ve lo giuro non sapevo cosa dirle. È solo uno stupido vestito. In ogni caso, per fortuna, è intervenuta sua madre e l'ha convinta a uscire con lei per cercarsi un abito ancora più bello dell'altro» raccontò Lukas con le mani tra i capelli e lo sguardo stralunato mentre nella sua mente la conversazione surreale avuta con la sua ragazza poco tempo prima tornava più vivida che mai.
«Quindi ora è in giro in cerca di un nuovo abito?» domandò Jason - era stranamente felice di non avere un'accompagnatrice se era quello ciò che avrebbe dovuto passare per avere al suo fianco una ragazza. Tutte quelle seghe mentali per un vestito che avrebbero indossato una sola volta nella loro vita.
Il biondo annuì sconsolato. «Noi verremo in limousine. Ci saranno anche Katie Wu e il suo giocatore di basket, faccia da cazzo.»
Jason sghignazzò mentre Lennon asserì solamente.
Il mal di testa aveva deciso di scemare. Era sul punto di svanire, ma non voleva cantar vittoria. La mancanza di sonno, il più delle volte, lo faceva stare male per tutta la giornata o almeno fino a quando non decideva di riposarsi un po' quindi poteva tranquillamente tornare a dilaniarlo in mezzo secondo.
«Oh, io aspetterò l'ultimo minuto per entrare e farò sclerare i professori» dichiarò il moro con un gran sorriso sornione stampato sulle labbra.
«Tipico di te, Jay. Basta che poi non ti chiudono fuori.»
«Be', ci siete voi che potete farmi entrare se dovesse capitare.»
«Vedremo...»
Lukas ridacchiò e così anche Lennon, soprattutto dopo aver visto nascere un'espressione di incredulità sul viso del loro amico.
«Come "vedremo"? Dov'è la nostra fratellanza?»
«Arriva in tempo e non rompere le palle.»
Jason sbuffò, «Stronzi».
✴✴✴
Lennon aveva da poco salutato gli amici e ora si stava dirigendo verso la casa della sua anziana vicina per prendere e rimettere in sesto un comodino che gli aveva regalato. Era una cosa di cui andava molto fiero e che amava fare con tutto il suo cuore.
Non stava più nella pelle. Era troppo eccitato all'idea di ristrutturare qualcosa di vecchio e trasformarlo in qualcosa di nuovo. La signora Nelson, l'altro giorno gli aveva comunicato che aveva ritrovato un vecchio comodino in cantina e chiesto se per caso fosse stato interessato nel portarselo via. Lennon aveva accettato subito. Lui amava rimettere in sesto le cose, principalmente il legno, ma anche costruirle da zero come l'armadio in camera sua.
Quel mobile lo aveva ideato lui. Lo aveva tagliato, levigato e dipinto i vari pannelli di legno e poi assemblato il tutto. C'aveva messo quasi tre mesi per via della scuola, ma alla fine era riuscito a portarlo a termine e a metterselo in camera.
Era una passione che gli era stata tramandata da suo nonno materno, un falegname in pensione. Durante le giornate passate a casa dei nonni, a Lennon era stato insegnato (era sempre stato desiderioso di imparare) i mestieri di casa come cucinare, fare il bucato, rifare il letto, lavare i piatti e quant'altro. Ma anche come usare la levigatrice, la sega manuale, il seghetto alternativo e altri strumenti. La nonna gli aveva anche mostrato come pitturare il legno con precisione.
Lennon sentiva di non averli ringraziati abbastanza per tutto ciò che gli avevano fatto apprendere durante la sua infanzia. Amava i suoi nonni materni. I suoi nonni italiani.
Fermò la macchina davanti alla casa della signora Nelson. Era una semplice casa con veranda munita di sedia a dondolo e un piccolo tavolino in legno. La sua dimora era circondata da fiori e dipinta di un rosa pastello che ormai da tempo aveva iniziato a sbiadire, sparendo completamente in un bianco sporco.
L'anziana, come tutti i pomeriggi, se ne stava fuori ad annaffiare le sue piante. Capelli di un bianco candido raccolti in uno chignon degno di una ballerina classica. Indossava una tuta verde fluo più grande di lei di almeno due taglie ― era molto magra e infatti ci navigava dentro. Lennon l'aveva sempre vista con abiti eleganti e con mai un capelli fuori posto poi un giorno gli aveva confidato che ormai aveva rinunciato a vestirsi bene perché erano scomodi per le attività giornaliere che faceva e che preferiva quelli comodi che le portava sua figlia quando l'andava trovare.
Nel quartiere, proprio perché era sempre energica, era conosciuta come la "nonna sprint" e a lei piaceva molto.
«Salve signora Nelson». Lennon le mostrò un grande sorriso. Le ricordava molto sua nonna Teresina.
La donna alzò lentamente il capo dalle sue ortensie che stavano fiorendo attaccate alla parte sinistra della veranda e sorrise a sua volta. «Lennon, caro, sei venuto per il comodino? Jim te lo ha portato in garage, vai pure a prenderlo», la sua voce era stridula e tremolante ma sempre carica di gentilezza.
«Grazie.»
Con il comodino conficcato a fatica nel baule della macchina (si era dimenticato di svuotarlo il giorno prima, infatti era pieno di pannelli di legno e listelli per il suo nuovo progetto), finalmente arrivò da The Home Depot e comprò una vernice acrilica color seppia, dei pomelli per i cassetti e i piedini di supporto placcati in oro.
Un'idea di come ristrutturare quel comodino gli stava già frullando nella mente. E l'immagine che aveva davanti ai suoi occhi era fantastica. Qualcosa di molto elegante. Una volta finito l'avrebbe sicuramente regalato a sua sorella.
Dopo essere arrivato a casa, scaricò tutta la roba nel suo capanno, dove giacevano tutti i suoi strumenti e i suoi altri progetti abbandonati a loro stessi. Se l'era costruito da solo, nel giardino sul retro, per non occupare ancora il garage.
All'inizio per suo padre non era stato un problema lasciarlo giocare con i suoi giocattoli in garage ma poi i progetti erano aumentati e il posto per le macchine aveva iniziato a scarseggiare quindi lo aveva obbligato a trovarsi un altro locale in cui lavorare il legno.
E lui se l'era montato in meno di due giorni, lasciando suo padre esterrefatto.
Le sue lunghe dita tracciarono una linea sulla superficie del comodino, portandosi dietro uno spesso strato di polvere. Non era in pessime condizioni, come ben presto constatò. Doveva passare la levigatrice per togliere tutte le imperfezioni. Metterci un prodotto antimuffa perché chissà da quanto tempo era stato nella cantina dei Nelson, prima di portarlo nuovamente alla luce per fargli prendere un po' d'aria. Dare un gran bella pulita all'intero comodino, ovviamente. E poi finalmente si sarebbe potuto dedicare alla pittura e successivamente al cambio dei pomelli e piedini. Non era un lavoro lunghissimo quindi non c'avrebbe messo tanto a completarlo.
Dopo una quindicina di minuti passati ad organizzare il lavoro, Lennon si decise a rientrare in casa. Aveva sentito sua sorella e sua madre gridare per qualcosa e lui voleva sapere di cosa si trattasse, anche se temeva potesse c'entrare Jensen. Anzi, era sicuro ci fosse di mezzo quel cretino del suo ex cognato.
«Zio» gridò allegramente Charlotte, sua nipote.
Le sue trecce rosse rimbalzarono nell'aria quando gli saltò addosso. Lennon la prese al volo e l'abbracciò con affetto, stringendola contro il suo petto mentre lei gli spiaccicò un bacio impastato di lucidalabbra sulla guancia.
Lennon aveva un bellissimo rapporto con Charlotte. Forse perché la prima volta che l'aveva tenuta tra le braccia fu quando lui aveva solamente sette anni e lei era nata da poco più di un mese. E gli era bastato osservarle il piccolo viso paffuto e arrossato e i suoi grandi occhioni azzurri che poi nel corso degli anni erano diventati del suo stesso colore, per affezionarsi a lei. Per trasformarsi nello zio che si faceva fare tutto da lei: acconciarsi i capelli, farsi truccare nei modi più assurdi e persino giocare alle principesse.
Gli importava solamente di renderla felice e di proteggerla dal male che albergava nelle strade.
«Piccola Lottie, come stai?»
La bambina tornò con i piedi per terra poi fece una piroetta e la sua gonna di sangallo rosa svolazzò nell'aria mentre la sua dolce risata riscaldò l'ambiente, «Tutto bene. La nonna ha detto che possiamo restare per il pranzo».
«Ma è fantastico, almeno posso torturarti un po'» esclamò contento, muovendo le dita davanti a sé per farle capire che le avrebbe fatto il solletico.
Sua madre non avrebbe mai detto di no a Greta e di certo non avrebbe rinunciato a passare qualche ora con sua nipote.
«Posso scegliere io il film da vedere questo pomeriggio?»
«Tutto ciò che desidera la mia Lottie» Lennon le baciò una guancia e le lasciò una carezza sulla testa, «La mamma?» domandò infine.
«In cucina con la nonna e stanno parlando di papà.»
Non appena sentì che stavano parlando proprio di Jensen, il suo viso cambiò espressione per qualche secondo ma dovette trattenersi per via di Charlotte.
«Ah...» mormorò con un filo di voce, digrignando i denti poi continuò a parlare: «Ti va di andare in camera mia a guardare i cartoni animati, eh?».
«Sì» strillò la bambina e in meno di mezzo secondo, la vide schizzare su per le scale per andare in camera sua, tutta contenta.
Lanciò un'ultima occhiata alle scale, tendendo l'orecchio. Quando udì la musichetta di uno dei cartoni animati che sua nipote guardava, abbozzò un sorriso che svanì una volta entrato in cucina, dove sua madre e sua sorella stavano discutendo a voce bassa.
«Ciao Greti, che succede con lo stronzo?» domandò di punto in bianco, tant'è che notò sua madre sobbalzare per lo spavento, ma non disse nulla.
«Leni!!» Greta corse ad abbracciare il fratello tra le lacrime, «Jensen vuole portare Lottie in vacanza con lui e la bambinetta» strillò tra un singhiozzo e l'altro. La sua voce era tremolante, incrinata per la sofferenza.
Vederla in quello stato, spezzò il cuore a Lennon e gli fece odiare ancor di più il suo ex cognato e Tiffany.
Greta aveva ben dodici anni in più di Lennon, ma ciò non aveva mai reso il loro rapporto fratello-sorella diverso da quello dei suoi coetanei. Amavano punzecchiarsi quotidianamente ma anche confidarsi l'uno con l'altro.
«Quando?» domandò a denti stretti, ingrugnendo il viso della rabbia.
La donna si lasciò scappare un sospiro dalle labbra tondeggianti e piene poi si passò una mano sul viso pallido, macchiato di tantissime lentiggini e scosse il capo, esasperata.
«La seconda settimana di luglio. La settimana del mio compleanno!» il suo viso si colorò di rosso per la collera e involontariamente strinse i pugni sopra le spalle larghe e tempestate di lentiggini di lui.
«Bastardo di merda» sibilò Lennon.
Sentiva le mani prudergli dalla rabbia. La bile corrodersi dall'ira. Il viso in fiamme per la furia. Nella sua mente, nel frattempo, gli stavano passando davanti tanti modi in cui poter fare del male a Jensen. E molti non erano nemmeno così tanto legali e quasi sicuramente lo avrebbero fatto finire dietro lo sbarre.
«Lo odio. Come può farmi questo? Come può? Dopo avermi tradita ha anche il coraggio di usare nostra figlia per farmi un dispetto» continuò a piangere sua sorella e a sfogarsi. La sua voce si spezzò a metà frase per poi riprendersi in un flebile lamento disperato.
«Vuoi che gli parlo io?»
«Leni, no. Se voi finiste col mettervi le mani addosso, quel bastardo lo userebbe contro di me per farmi passare come una cattiva madre o peggio ancora: proverebbe a togliermi Lottie.»
«Posso sempre prenderlo tra il chiaro e lo scuro» ammise Lennon con ovvietà, alzando le spalle con nonchalance.
Il fatto di non potergli fare niente, faceva infuriare Lennon. Avrebbe tanto voluto massacrarlo di botte, ma sua sorella aveva ragione ― le avrebbe tolto la bambina per farle un dispetto quindi gli toccava stare calmo e buono. Non era facile fingere che non c'erano problemi perché c'era di mezzo la felicità di Greta e Charlotte e quando qualcuno toccava le persone che amava diventava una furia, ma lo doveva fare per sua sorella.
«No, non farlo. Ci parlerà la mamma, okay?»
«Come volete» borbottò infine, chiudendo così il discorso.
Dopo aver smesso di parlare di quel pirla, la famiglia pranzò in giardino all'aria fresca e con il sole caldo. Lennon raccontò loro del fatto che sarebbe andato al ballo con un suo compagno di corso gay, ricevendo indietro solo complimenti per aver lasciato fuori i pregiudizi delle persone e aver scelto di aiutare un amico.
Poi nel pomeriggio guardarono il film scelto da Charlotte, "Angry Birds", anche se lui dormì per quasi tutta la durata.
Quando giunse l'ora del ballo, si fece aiutare da sua sorella con la cravatta poi salutò le donne delle sua vita ed uscì di casa col sorriso che sparì non appena si ritrovò faccia a faccia con l'unica persona che avrebbe preferito non rivedere mai più.
Gli spense l'allegria.
«Che cazzo ci fai qui, Tiffany?» ringhiò il ragazzo con lo sguardo assetato di sangue mentre si chiudeva la porta alle spalle per non far vedere a sua sorella chi avevano davanti a casa sennò l'avrebbe presa per i capelli.
Lennon stava cercando di calmare i pensieri furenti perché se avesse aperto in quell'istante la bocca, avrebbe certamente buttato fuori, come un fiume in piena, una miriade di parole che lo avrebbero fatto passare dalla parte del torto.
Non era una puttana come molti suoi compagni di squadra sostenevano. E più volte aveva detto loro di smetterla di chiamarla in quel modo, ricevendo indietro espressioni scioccate o frasi come: «Sì, che lo è. Ti ha messo le corna. Solo le puttane lo fanno» e lui replicava con: «Quindi tutti voi che avete tradito le vostre ragazze cosa siete? Puttane pure voi?» che mettevano a tacere tutti.
Lennon, quelle parole non le aveva mai usate e non aveva intenzione di farlo nemmeno in futuro, ma altre meno pesanti, adesso che stava fronteggiando Tiffany, gli veniva voglia di buttarle fuori.
Era una sfasciafamiglia. Una falsa. Una traditrice. Una stronza. Una bastarda che lo aveva usato senza ritegno nell'ultimo anno per ottenere ciò che voleva. Una persona spregevole. E la detestava. Tanto.
Lennon serrò le labbra quando Tiffany gli mostrò un enorme sorriso. Uno di quelli falsi che solo lei era capace di spacciare per veri, ma lui non sarebbe più caduto nella sua trappola. La conosceva troppo bene e non si sarebbe fatto fregare una seconda volta.
«Non sei felice di vedermi?» domandò lei, mordicchiandosi il labbro inferiore in modo sensuale e iniziando a giocherellare con una ciocca di capelli bionda.
«Neanche un po'» ammise stizzito.
«Che cattivo che sei, Lenny». Tiffany mise il broncio e gli tirò una sberla sul braccio.
In risposta, Lennon alzò gli occhi al cielo e si domandò se fosse sempre stata così fastidiosa o se ora che non stavano più insieme, gli erano spariti anche i prosciutti dagli occhi e la vedeva per ciò che era. Una persona cattiva e subdola.
«E tu invece sei una grandissima stronza.»
Gli occhi celesti di Tiffany si spalancarono, ma era chiaro fosse semplicemente un'espressione fasulla come quasi tutta la sua personalità, a quanto pare.
«Perché? Oh, per quello?» il tono di voce ironico che usò, mandò in bestia Lennon.
Era livido in volto. Le narici dilatate come un toro e il respiro affannoso.
Il ragazzo esplose poi in un'improvvisa risata sprezzante, passandosi una mano nella chioma rugginosa e dandosi un brusco strattone ai capelli per il nervoso che lasciò basita la ragazza.
«Giusto, come se fosse una cosa da poco scoparti mio cognato e rovinare un matrimonio. Jensen ha tutte le colpe del mondo, ma tu mi hai usato per arrivare a lui!»
Era la seconda volta che si confrontavano su quell'argomento. La prima volta fu quando Lennon scoprì il tradimento e da quel momento in poi non le rivolse nemmeno mezza parola. E ora si ritrovava a volerle dire tante cose, ma non sapeva come farle uscire senza incazzarsi come una bestia.
«Io ti ho amato, ma ora amo Jensen e poi non sono venuta qui per litigare.»
«Ah, no? Non vuoi litigare? E che cazzo ti aspetti che faccia? Che ti lecchi il culo? Che ti faccia un applauso perché vai a letto con il marito di mia sorella? Cosa vuoi, Tiffany?» la mandibola di Lennon si contrasse bruscamente mentre stringeva con forza i denti per il nervoso.
«Oh, niente, ho saputo che andrai al ballo con il gay.»
«Dennis. Si chiama Dennis, cretina.»
Tiffany gli mostrò un sorriso beffardo che lui ricambiò con uno sguardo truce, «Dennis, certo. Sai, ero conscia del fatto che fossi un loro sostenitore, ma non pensavo potessi esserlo anche tu, gay.»
Lennon le puntò un dito contro, «Senti, stronza di merda, non puoi permetterti di venire qui a prendermi per il culo e a giudicarmi dopo ciò che hai fatto. Io sto aiutando un amico, tu ti stai scopando mio cognato» sibilò, facendo due passi verso di lei, la quale dovette alzare il capo per incrociare il suo sguardo, «E ora vattene dalla mia proprietà».
«Ora» gridò rabbiosamente quando vide che Tiffany non voleva muoversi di un millimetro. Deciso ad ignorarla, le passò accanto, testa alta e petto in fuori, pronto per andare al ballo di fine anno per divertirsi con i suoi amici e con Dennis.
«Sei solo uno sfigato» strillò lei furibonda. Nessuno poteva avere l'ultima parola se non lei.
Lennon le mostrò il dito medio come risposta, continuando a darle la schiena. Poi incominciò a fischiettare, non ascoltando il fiume di parole che la sua ex ragazza gli stava gridando contro mentre raggiungeva la sua macchina.
Pochi secondi dopo la vide correre verso la sua automobile col viso rosso dalla rabbia mentre parlava al cellulare con qualcuno.
Lui sorrise compiaciuto. Poteva aver avuto l'ultima parola, ma Lennon sapeva quanto la sua ex odiasse essere ignorata quindi alla fine aveva vinto lui quella insulsa battaglia.
E ora era giunto il momento di divertirsi, o almeno lo sperava vivamente.
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