Epilogo
Camminai lungo corridoi luminosi e spaziosi, un piede dopo l'altro azzeravamo la distanza che mi avrebbe portato in quella stanza, passai una mano sui jeans neri e sulla maglietta a mezze maniche con il logo di Batman, per sistemarmi mentre mi fermavo davanti la porta bianca, aggiustai la coda di cavallo e misi una mano sulla borsetta nera a tracollo, non bussai immediatamente, ricordai l'ultima volta che l'avevo visto:
Arrivai davanti la porta del suo appartamento, con l'ansia a tremila, da sola.
Bussai alla porta e quando essa si aprí, l'immagine del dolore si presentò ai miei occhi, viso scavato, occhi rossi e gonfi, lividi un po' dappertutto e fisico sciupato. Indietreggiai per la visione, sentendomi morire vedendolo in quello stato, lui spalancò la bocca ma venne sostituito da un ghigno.
«Wow, arrivi solo ora?». Mi prese in giro, facendo una piccola risata e tirando su con il naso rosso.
«Perché sei arrivato a questo punto?». Sussurrai, avvicinandomi e alzando la mano per accarezzare il suo viso.
«Non mi toccare». Si allontanò di scatto, procurandomi una stretta nel cuore.
«Perché?». Sussurrai, scuotendo la testa. «Questo non è il modo più sano per raggiungere la felicità».
«Non ti interessa davvero». E invece si sbagliava, mi interessava eccome, mi interessava. L'avevo cercato per un mese intero prima di trovarlo e avevo pregato a mio zio di lasciarmi, sola con lui, un'ora sola.
«Voi uomini avete questo fottuto vizio di dire che a noi donne non interessa, finitela». Commentai, roteando gli occhi. «Mi interessa, e te lo dimostro, se vuoi anche subito».
Chiusi le palpebre per cacciare indietro i ricordi e raccogliendo il coraggio, bussai, nel farlo guardai la punta delle mie converse rovinate e nere, appena udii il permesso, misi una mano sulla maniglia e l'abbassai, aprendo la porta e facendo un passo all'interno della stanza.
La stanza era illuminata ed era totalmente bianca, il letto, le pareti, il comodino tranne la televisione nera, pareva di essere dentro la panna. Un ragazzo osservava l'esterno, i suoi capelli castano scuro erano scompigliati e nella sua tuta nera pareva magro ma non quanto lo ricordavo. Le esili spalle erano rilassate, non più rigide, quando si voltò e incontrai i suoi occhi caramello sereni, annullai la distanza che ci separava e corsi ad abbracciarlo. Lo strinsi abbastanza forte da fargli chiedere di allontanarmi, annuii e gli diedi un bacio sulla guancia non più scavate.
«Come stai?». Domandai, sedendomi sul suo letto, il materasso era comodo fortunatamente, fui sollevata di sapere che dormiva bene, almeno speravo.
«Be' mi sto riprendendo». Scrollò le spalle, mostrando un sorriso, anche il tono che aveva usato era diverso: era vivo. «Sono severi ma è ciò che mi serviva».
«Non hai la minima idea di quanto sia felice di ciò». Risposi, sorridendo.
«Penso che non fossi arrivata tu, sarei morto quel giorno stesso, lo sai vero?». Si sedette accanto a me, prendendo la mia mano e stringendola. Rimasi a guardarla mentre il ricordo continuò:
«Non devi dimostrarmi nulla, non ci sei mai stata finora e pretendi di farlo ora, ma sei seria? È tardi, lo capisci?». Urlò, «Sparisci!». Con ciò chiuse la porta, sbattendomela in faccia. Ma non potevo lasciarglielo fare. Non ora che l'avevo trovato, dissi mio zio di intervenire, così i suoi uomini spalancarono la porta, provarono a farmi restare fuori ma la puzza che sentivo di erba, mi fece entrare, l'appartamento aveva immobili capovolti, tranne un tavolino su cui c'era della polvere bianca.
«No, no, no». Sussurrai, arrabbiata, c'era una porta e chiesi di buttarla giù dato che era chiusa a chiave, fecero come avevo chiesto e la scena che mi ritrovai davanti fu agghiacciante.
«Charlotte?». Sbattei le palpebre e ritornai con i piedi sulla terra, annuii sorridendo leggermente.
«Sono sicura che non l'avresti fatto comunque». Sussurrai, «Perché sei abbastanza forte da decidere di affrontare il tuo passato».
Noah teneva una siringa in mano che, tra l'altro, conteneva qualcosa, piangeva e osservava l'oggetto tra le sue mani come se fosse l'unica salvezza, alzò lo sguardo su di me quando urlai di non farlo, chiesi agli agenti di aspettarmi fuori, li pregai e annuirono.
«Noah, non vuoi farlo». Dissi la prima cosa che mi passò per la testa. «Tu non puoi farmi questo».
«Tu non sei nessuno». Annunciò, guardandomi negli occhi, nonostante le lacrime, c'era vera rabbia iniettata nei suoi occhi.
«Ora, forse, ma pensa a chi siamo stati». La mia voce si era inclinata mi aveva ferita più di ogni altra cosa con quelle parole.
«Siamo state persone, ma hai deciso di abbandonarmi. Brava». Mi canzonò, impugnando la siringa.
«Non ti ho abbandonato, secondo te, chi ho cercato? Non ti avrei trovato se non l'avessi fatto».
«Mi dispiace per ciò che ho detto». Sussurrò Noah, strappandomi dai ricordi, gli accarezzai lentamente il viso chiudendo le palpebre.
«Non importa». Non mi importava davvero ciò che mi aveva detto a me importa semplicemente averlo salvato, perché l'avevo fatto. «Sono qui per scusarmi».
«Tu? Dovrei essere io a scusarmi. Sono scomparso senza dirvi nulla, mi sono nascosto perché sono un codardo e tu che mi hai salvato, letteralmente, la vita mi chiedi scusa?». Annuii nell'udire il suo quesito, lasciandogli la mano e alzandomi.
«Noah, avrei dovuto cercarti molto prima e non l'ho fatto. Anche io sono una codarda, vedi. E mi scuso per non essere stata la migliore amica che meritavi». Mi scusai, mettendo una mano sul vetro freddo della finestra.
«Tu sei stata di più di una migliore amica, una sorella al dire il vero e, credimi, hai fatto tanto. Troppo». Sussurrò, mettendosi accanto a me.
«Devo darti una cosa». Dissi, mentre cacciavo la mano in tasca. «Volevo aspettare fossi tu il Noah che ho sempre conosciuto e non il Noah nel quale circolava solo quella sostanza che ti stava uccidendo». Dire droga ancora mi riusciva difficile, non potevo credere che fosse arrivato a tanto. Estrassi la lettera scritta sei mesi prima da Krystal, dandola a Noah. «Ti ho trovato grazie a lei».
«Come hai capito fossi vivo?». Era la prima conversazione che avevamo dopo che l'avevo trovato in quelle condizioni, essendo stato chiuso in una clinica di riabilitazione, mi aveva sconsigliato di vederlo fin quando non fosse stato meglio.
«Krystal mi scrisse che avevi raggiunto la tua libertà e ricordi quella notte in cui andammo al Central Park? Tu dicesti che la vera libertà si raggiunge attraverso la droga, tutti noi fummo contrari ma tu dicesti che, se un giorno avessi deciso di raggiungerla, avresti fatto così. L'ho ricordato appena ho letto le parole». Risposi, malinconica.
«Grazie Charlotte». Strinse la lettera tra le sue mani, passammo altri minuti a parlare fin quando non arrivò il momento di dover andare via, gli promise che sarei tornata ma disse che, chi lo sa, potrebbe essere lui a venire da me.
Raggiunsi l'uscita correndo sapendo già chi ci sarebbe stato dall'altra parte, Colton mi aspettava appoggiato alla sua audi nera lucida, con le braccia incrociate, il corpo fasciato da una maglietta a mezze maniche bianca e dei jeans neri, abbassò gli occhiali da sole per guardarmi come se volesse giudicarmi ma sapevo che non l'avrebbe mai fatto, corsi ad abbracciarlo, rilassandomi tra le sue braccia.
«Su, Diamante, l'Arizona ci aspetta!». Urlò, emozionato dandomi una pacca sul sedere, meritandosi il medio da parte mia mentre salivamo in auto. Mi lasciai la clinica alle spalle, mentre ci dirigevamo verso l'uscita del Texas anche se il viaggio sarebbe stato molto lungo. Io e Colton avevamo deciso di fare un viaggio insieme, avevamo deciso di scappare insieme, scappare da New York e dalla monotonia dato che ormai Colton si era trasferito lì, poteva capire quando una città grande quando New York potesse farmi sentire stretta. Eravamo partiti a fine giugno, eravamo stati prima da James e Chloe a Miami, la piccola era bellissima, usava Colton come montagna da scalare e me solo per le trecce che provava a fare, era adorabile, aveva i capelli castano chiaro e gli occhi azzurri. Non le piaceva il rosa, l'avevamo capito dopo la ventesima maglietta del medesimo colore che, ogni volta, indossata, Cassie iniziava a piangere fin quando non le veniva rimossa. James avrebbe preso le redini di papà dato che stava costruendo l'azienda anche lì, nel frattempo lavorava da casa, Chloe amava fare la mamma, anzi amava essere mamma, e voleva dedicarsi totalmente alla bambina senza distrazioni. Poi c'eravamo fermati in Texas da Noah, dato che i genitori si erano trasferiti qui così si stava curando qui. Infine ci stavamo dirigendo verso l'Arizona per la gioia di Colton di vedere il Gran Canyon, anche se un po' di curiosità l'avevo anche io. Era l'esperienza più bella che avessi mai fatto, anche se con Colton in qualsiasi posto sarei stata bene, questo lo sapevo. Ed era ovvio. Dormire nei motel, mangiare cibo spazzatura, passare più tempo in auto non mi dispiaceva soprattutto quando guardavo negli occhi di Colton e in essi leggevo la vera felicità.
Mi prese la mano e tenendola stretta sulla mia gamba, mi guardò. Sapevo cosa stava domandando, annuii in risposta facendo un piccolo sorriso.
«È andato tutto bene». Risposi, stringendo la mano a mia volta. Sospirai voltandomi a guardare il finestrino, mentre imboccammo l'autostrada.
Il mio cellulare iniziò a squillare e ciò mi fece aggrottare le sopracciglia, avevo già chiamato mia madre. A casa fortunatamente era tornata la pace, mio nonno aveva accettato di mettere da parte la faida chiarendo con i Sanchez. Ogni Domenica tutti quanti andavano a guardare un partita, inoltre mio padre, Richard e Christian avevano instaurato un'amicizia bellissima. Per non parlare di quelle pettegole di mia madre, Jennifer e Katherine. Comunque capii che non si trattasse di mia madre e quando lessi il nome, ebbi conferma, tra l'altro, neanche era una chiamata normale, ma una video chiamata. Chiusi il finestrino per evitare che il vento disturbasse la mia conversazione, e accettai la chiamata.
«Hakuna Matata». Urlò Kendall, scoppiando a ridere subito dopo, il suo viso occupò tutta lo schermo facendomi sorridere. Hakuna Matata era un'espressione presente nel film "Il Re Leone" e dato che prima di partire io e le ragazze l'avevamo visto, Kendall non aveva smesso di ripeterlo, tradotto era: senza pensieri/ senza problemi. «Bonsoir».
«Ciao finta francesina». Sorrisi divertita, mentre lei metteva il broncio e si allontanava mostrando Aaron.
«Ciao Crik Crok e ciao anche a te Bradipo». Salutò Aaron sia a me che a Colton, non avevo ancora capito perché lo chiamasse con quell'appellativo e sinceramente non volevo saperlo.
«Ciao coglione». Rispose Colton, sorridendo divertito. Ah si, notizia scioccante: Colton, Aaron e Brandon erano praticamente dei migliori amici. Non potevo dimenticare quello scherzo che avevano fatto mettendosi d'accordo, brutte bestie. Kendall disse che stava aggiungendo Chanel e di lì a poco, apparvero anche lei e Brandon.
« Jó Estét!». Esclamò Chanel in ungherese, sorridendo.
«Ciao finta Ungherese». Esclamammo all'unisono io e Kendall, ridendo.
«Belle, sono riuscita a dialogare con tanti ungheresi». Replicò Chanel, facendoci la linguaccia. Roteai gli occhi e sorrisi.
«Come sta andando il viaggio?». Domandammo all'unisono io e le ragazze. Ognuno di noi aveva deciso di partire, Chanel si trovava a Budapest, Kendall a Parigi la città dell'amore e della moda, io a bordo di un'auto. Notai che da entrambe era notte e mi ricordai del fuso orario, Kendall mi mostrò la torre Eiffel, Chanel semplice gli avanzi della cena dato che era ormai nell'appartamento da loro affittato, io mostrai la strada. Dopo circa mezz'ora decidemmo di chiudere per evitare di sprecare tutto l'internet e ritornai a concentrarsi sulla strada, alzai la musica e iniziai a cantare, uscendo la testa dal finestrino, urlando. Lasciando che le raffiche di vento mi colpissero in pieno ma mi lasciassero comunque urlare, Colton rideva e scuoteva la testa.
«Mi chiedo come faccio a meritarti». Mi confidò, urlando sopra la musica, entrai e abbassai di scatto quella canzone che amavo ma che non conoscevo.
«Perché siamo perfetti insieme». Risposi, ovvia, anche se la sua domanda mi aveva messo curiosità.
«È che non avrei mai pensato di innamorarmi di te e grazie per questo e per tutto». Disse, facendomi sorridere, mi sporsi per dargli un bacio sulla guancia.
«Grazie a te di esistere, amore mio». Non era la prima volta che lo chiamavo con quell'appellativo ma lo chiamavo raramente così, ciò mi fece arrossire. Sorrise, guardandomi di sbieco. Infine, rialzò la musica iniziando a cantare con me.
Durante il viaggio pensai a come c'eravamo conosciuti, al nostro primo bacio, al nostro dolore, alla nostra prima volta e lo guardai, avevamo superato tutto quello grazie alla forza ricavata dal nostro amore, questo era ciò che pensavo e nessuno avrebbe potuto dirmi il contrario. Ci fermammo solo due volte per mangiare, per poi rimetterci in auto, era ormai notte e il cielo era meraviglioso, stellato, tra l'altro. Con Colton ero cresciuta, caduta, rialzata, innamorata, stavo vivendo. E gli sarei stata grata per questo per tutta il resto della mia vita, la nostra vita in pochissime settimana era cambiata e ancora non riuscivo davvero a realizzare, pareva un sogno, un bellissimo sogno.
Il mio ragazzo decisi di accostare, entrando dentro un terreno isolato per osservare il cielo stellato, aveva esaudito il mio desiderio ancora prima lo pronunciassi. Scendemmo dall'auto per distenderci sul parabrezza, mi accollai sul suo petto e in silenzio osservammo le stelle, eppure la mia mente viaggiava altrove.
«Devo confessarti una cosa». Sussurrò, guardando la mia mano e torturando le dita.
«Dimmi pure». Sussurrai, sospirando, non ero ansiosa almeno non quanto lo sarei stata prima di incontrarlo.
«Ti ricordo che prima di partire sono andato a trovare Cassandra?». Sussurrò, annuii perché dopo di lui anche io ero andata da lei, era sepolta in un cimitero di Los Angeles, avevamo incontrato anche i suoi genitori praticamente distrutti dal dolore, avevano già perso un figlio e poi anche l'altra, sua madre ormai era in cura da uno psicologo, nonostante andasse ogni mattina al cimitero sedendosi accanto le lapidi dei suoi figli e stesse ore a parlare con loro, pareva che si stava lentamente riprendendo. Suo padre lavorava tantissimo per non pensarci, arrivava a dormire solo due ore ogni due giorni. Sapevo tutto ciò perché sua mamma mi aveva dato il numero, ogni giorno chiamava me o Colton per raccontarti un aneddoto della vita di Cassandra, avevo sempre saputo che fosse una ragazza meravigliosa e sentire ciò che faceva: dal volontariato in chiesa ai viaggi in Africa per i bambini, e il suo sogno nel cassetto di adottarne uno, mi fece stringere il cuore. Era un Angelo, nel vero senso della parola. Più volte piangevo la sua morte e molte ma molte volte pareva rispondermi, attraverso piccoli segni e spesso le parlavo in sogno. Colton si sentiva in colpa per averla fatta venire qui e l'aveva detto ai suoi genitori, ma sua mamma gli aveva detto che sua figlia era incredibilmente testarda e che sarebbe andata a cercare il ragazzo che amava anche in capo al mondo. L'altro suo figlio era morto in un incidente auto in cui, tra l'altro, c'era stata anche Cassandra. Entrambi erano stati in coma e solo la sopracitata ragazza si era risvegliata. Volevo bene a Cassie, ancora pensarla mi rendeva vulnerabile. Sapevo che se avessi continuato a pensare a lei, sarei scoppiata in un pianto disperato, per questo distolsi l'attenzione dai pensieri per riportarla a Colton. «Poi sono andato da Gabriel». Alzai lo sguardo su di lui, mettendomi a sedere. Nessuno aveva consigliato di andare lì, ma stavamo parlando di Colton e quello che c'era dietro le sbarre era stato pur sempre il suo migliore amico. Gli strinsi la mano, comunicandogli con lo sguardo di andare avanti. Lui sospirò tristemente, alzandosi, sfuggendo dalla mia presa. «Sono morto appena l'ho visto e dovevi vederlo». Colton mi dava le spalle e dovetti distogliere lo sguardo per via dei ricordi.
Non conoscevo bene Gabriel ma Colton lo conosceva abbastanza, il suo tradimento l'avevo ferito troppo. Una volta mi aveva confessato che per lui, il suo vero migliore amico, era morto. Era morto quando quella sera aveva deciso di stipulare un patto con il signor Brown, quello che era stato con noi era semplicemente un Gabriel che non conosceva, nel quale scorreva solo odio. Ma ciò che non riusciva a capire era perché, perché aveva fatto tutto ciò?
«Da quel tradimento, ho passato ogni notte a torturarmi, mi ha tradito è vero, ma volevo sapere la verità. Cosa l'aveva spinto a voltarmi le spalle, cosa l'ha spinto ad odiarmi a tal punto di volermi morto? Non riuscivo ad accettarlo, Char, ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Stavo male e sapevo che scoprendo la verità lo sarei stato il doppio, il triplo forse, ma dovevo saperla, meritavo di saperla». Si mise davanti a me, prendendo le mie mani come se volesse giustificarsi ma non ne volevo, io accettavo qualsiasi sua scelta, sarei stata ugualmente accanto a lui, anche se avesse deciso di allearsi con Lucifero.
«Non devi giustificarti». Gli ricordai, accarezzandogli il viso dopo essermi liberata dalla sua presa.
«Vedi? Come ho fatto a meritarti? Un'altra mi avrebbe sicuramente mandato a quel paese per non essere riuscito a farmi i fatti miei». Sussurrò, abbassando lo sguardo.
«Prima di tutto non sono un'altra e poi sono d'accordo con te, meritavi una spiegazione. Io sarò dalla tua parte fino alla fine». Quando alzò lo sguardo e incontrai i suoi occhi, mi parve che ci fosse una tempesta lì dentro, mi avvicinai fin quando non appoggiai la mia fronte sulla sua. «Lo sai, vero?». Fece un piccolo sorriso, permettendomi di alzarmi, così gli allacciai le braccia al collo per non farlo allontanare.
«È pentito per tutto ciò che ha fatto, mi ha detto che non mi avrebbe chiesto scusa perché non merita il perdono, che quello che ha fatto è stato troppo brutto da parte di un essere umano, che non era in sé, il padre di Krystal gli aveva fatto il lavaggio del cervello così bene che mi odiava, ma quando aveva visto Cassandra morire tra le fiamme... era morto e, credimi, era davvero morto. Ormai Gabriel è senza vita, mi ha detto che avrebbe preferito se non tornassi, che avrei dovuto dimenticarlo, che ormai la sua vita si trovava tra quelle mura e dietro le sbarre, che l'amore l'aveva distrutto e gli bastava sognare Cassandra ogni notte per essere vivo, ha aggiunto che merita tutto quello, gli errori si pagano e li sta pagando. Probabilmente se fosse scappato, si sarebbe suicidato, sono state parole sue. Ormai la sua vita è nera». Abbassò la testa affinché i nostri nasi si sfiorassero, gli accarezzai nuovamente la guancia, osservandola. «Sono fortunato ad averti incontrato».
«Anche io, non sai quanto». Sussurrai, di nuovo come sempre, eravamo entrati nel nostro piccolo mondo. Accadeva all'improvviso e quando meno ce l'aspettavamo, il rumore del motore delle auto ormai non giungeva più ai nostri timpani. Colton mi strinse la vita, avvicinandomi di più a lui.
«Sai cosa ho sempre dimenticato di dirti? Non sei una tempesta qualunque, sei la mia. Mi hai travolto senza darmi il tempo di realizzare cosa stava accadendo attorno a me, i tuoi occhi freddi e vuoti come diamanti mi avevano intrappolato in una dimensione in cui i problemi non esistevano, forse è solo una sensazione ma è ciò che provo quando sono con te: la sensazione di essere vivo». I nostri respiri erano sincronizzati, i nostri petti si sfioravano e, nonostante fossero passati diversi mesi, le emozioni non erano mai cambiate: brividi, zoo nello stomaco, gambe tremolanti.
«Non è solo una sensazione, è ciò che provo anche io. È assolutamente irrazionale tutto ciò, com'è possibile?». L'avevo sempre chiesto a me stessa, senza mai trovare una risposta.
«Non lo so». Sussurrò, scuotendo leggermente la testa e strofinando la punta del suo naso con il mio.
«E se non ci fossimo mai incontrati?». Chiesi, alzando lo sguardo per incrociare i nostri occhi.
«Penso che il destino ci avrebbe fatto incontrare». Alzai di più lo sguardo, osservando le stelle ammaliata. Sentivo lo sguardo di Colton su di me, ma ormai iniziavo ad abituarmi abbastanza da non arrossire.
Mi persi nei pensieri osservando il cielo sereno. Pensavo alla tempesta che ero, ai segreti che avevo scoperto, alla rabbia che avevo provato, alla felicità che avevo sfiorato, al fratello che avevo ritrovato, alla storia che mi aveva sorpresa, al primo bacio vero che le mie labbra avessero mai provato, alle amicizie che avevo perso, al dolore che avevo sopportato, alle braccia di Colton che mi avevano sorretto, al mondo che avevamo creato, ai tradimenti che ci avevano feriti, alle cadute che avevamo fatto e alle rialzate in cui eravamo più forti, le persone che avevamo perso, che si erano sacrificate per noi, a quelle invece che eravamo riuscite a salvare.
Erano stati mesi terribili, mesi in cui nel dolore avevo trovato l'amore, mesi in cui mi era parso più volte che la tempesta che aveva messo le radici in me avesse travolto tutto in maniera inesorabilmente accettabile, mesi in cui pensavo che non sarei mai e poi mai uscita dal tunnel, invece eccomi qua, alla fine del tunnel e della tempesta.
La storia non doveva ripetersi e io e Colton dovevamo stare lontani, era vero, c'eravamo quasi distrutti ma eravamo ancora vivi, nella distruzione, era nato un fiore segno del nostro amore. E quel fiore stava crescendo dentro ognuno di noi, dimostrandoci che anche da un caso disperato, l'amore poteva mettere radici.
«Ti amo più di ogni altra cosa, Diamante». Sussurrò, abbassai lo sguardo su di lui sorridendo leggermente.
«Mi soffermerei su "più di ogni altra cosa"». Affermai, abbassando le braccia per poter mimare con le dita. «Insomma potresti amare la pizza così oppure un libro, tu hai detto cosa e non "più di chiunque altro", quindi per quanto ne so, potresti tradirmi benissimo». Parlai abbastanza velocemente che sperai mi avesse capito, allontanandomi da lui per esporre la mia teoria. Colton scoppiò a ridere, scuotendo la testa, afferrandomi il polso e attirandomi nuovamente a lui.
«Sei tremenda». Non mi sarei mai stancata di udire la sua risata, risi pure io per il suo commento, allacciando nuovamente le braccia al collo.
«Ti amo di più di chiunque altro». Annunciò, sorridendo divertito.
«Ti amo anche io». Annunciai, soddisfatta.
Il sentimento che univa me e Colton era un filo che univa i nostri cuori, poteva sembrare impossibile ma avevo quella sensazione, noi due eravamo riusciti a creare un nostro mondo dove nessuno, se non noi due, poteva penetrare all'interno. Un luogo in cui neanche il nostro passato poteva raggiungere.
Appoggiò la sua fronte sulla mia. La tempesta era finita, finalmente era giunta la quieta da tutti tanto bramata, finalmente potevamo deporre le armi perché la guerra era finita e goderci quello che ci restava della vita. Godercela per davvero, senza paure, senza segreti, senza muri pregnanti di crepe, senza odio e senza rabbia. Godercela fino alla fine. E l'amore aiutava davvero tanto. Dovevano farlo per i caduti, per Krystal, per Cassandra. E per tutti gli altri che erano stati distrutti dal dolore.
Chiusi le palpebre mentre avvicinava le sue labbra alle mie. Non sapevo se il mio amore per Colton sarebbe durato fino alla fine dei tempi, ma sapevo che, comunque sarebbe andata, sarebbe rimasto il suo nome sul mio cuore, perché oltre essere stato il primo era raro, era vero amore.
Ci baciammo sotto le stelle, baciammo le nostre anime, ciò che ci completava, con lui avevo iniziato la mia vera vita, non sapevo dove ci avrebbe portato, forse lontano o forse no, ma ciò che mi importava era lui. Se fosse stato bene e felice, avrei accettato qualunque cosa. E ci baciammo sotto le stelle perché loro erano le vere e uniche testimoni del nostro primo e vero atto d'amore.
Fine.
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