Capitolo 7: Same Place, Same Sky

Stesso posto, stessa persona, stessi sentimenti, stesso cielo.

Il cielo, quella notte stellato, era incantevole. Certo, il tetto era freddo ma grazie al mio cappotto nero, ne sentivo di meno. Probabilmente, se qualcuno dovesse passare e notare questa figura distesa sul tetto chiamerebbe la polizia scambiandomi per un ladro (era già capitato ben cinque volte, tutte le volte che succedeva, mio padre mi rimproverava mentre mia madre si preoccupava se mi fossi fatta male. Una scena comica). Sgattaiolavo spesso dalla finestra per poi finire sul tetto, mi piaceva stare per i fatti miei prima di andare a letto e soprattutto mi piaceva respirare a pieni polmoni aria fresca, gelida e pungente. Stetti ancora per un po' con le mani sotto la testa e lo sguardo puntato nel cielo, osservavo le stelle, corpi incandescenti capaci di incantarmi. Ero convinta che tra le stelle ci fosse James. Il quartiere in cui abitavo era abbastanza tranquillo, ma quella sera c'era davvero troppo casino, non era male perché a volte il silenzio che occupava ogni singolo spazio del viale, rendevano ogni rumore fastidioso, ma questo leggero suono dei clacson delle macchina bloccate nel traffico rendeva l'idea della tipica di New York e dei suoi quartieri. Quando il sonno aveva deciso di presentarsi sotto forma di sbadiglio, decisi di scendere: scivolai lentamente sulle mattonelle, o meglio sulla neve, per poi finire vicino il tubo, mi misi in ginocchio e afferrai la corda che era poggiata sopra un ramo dell'albero di fronte a casa nostra, era grande e possente ogni ramo reggeva una persona, era svestito in quel periodo ma in alcuni punti era celato dalla neve, la corda a cui mi aggrappai era attaccata saldamente al comignolo del camino, quindi non c'era pericolo che il mio piacere di prendere una boccata d'aria si sarebbe trasformata in una missione suicida, tuttavia misi le possibilità di cadere nel vuoto da parte e mi girai tenendo saldamente la corda, mi misi nella posizione in cui si faceva lo squat: piegata in avanti, sedere all'infuori, braccia in avanti. Misi un piede fuori il tetto e si presentò, come sempre, l'ansia, allungai la gamba fino a che potevo e con la punta del piede toccai il davanzale della mia finestra, la corda era della lunghezza giusta -anche se non fossi arrivata a toccare il davanzale con la punta dei piedi, avrei potuto scendere tranquillamente, tanto si sarebbe fermata all'altezza della finestra ma per sicurezza prima di buttarmi, avevo una certezza- misi anche l'altro piedi fuori il tetto e scivolai, velocemente anche con l'altro piede toccai il davanzale e mi spinsi in avanti, affinché i piedi potessero entrare e in qualche
modo si trasformavano in una specie di gancio così da riuscire ad entrare, mi spinsi ancora in avanti e con l'aiuto dei piedi, riuscii a sedermi sul davanzale, lasciai la corda e mi spinsi, con le mani, dentro la stanza. Lasciai un respiro di sollievo, anche stavolta: era andata. Mi affacciai per prendere la corda e lanciarla in uno di quei rami affinché nessuno potesse vederla. Gli unici a conoscenza di questo aggeggio erano tre: Aaron, Brandon e l'inventore di questo specie di ascensore, James. Rabbrividii quando un'ondata gelida di freddo mi travolse, così decisi di chiudere la finestra. Mi avvicinai alla mia cabina armadio, la aprii ed entrai: presi il pigiama, mi spogliai e misi il cappotto bagnato dalla neve di lato, indossai il pigiama: sentivo tantissimo freddo così misi quello di flanella. anche se i disegni su esso erano infantili. Il pantalone del pigiama era lilla (odiavo quel colore ma era l'unico pigiama che mi riscaldava) mentre la maglietta felpata, dotata di cappuccio, era bianca con due orsacchiotti lilla. Ma la caratteristica che amavo era la taglia: due taglie in più della mia. Guardai la valigia aperta sopra il mobile e fui accecata da un senso di rabbia, come avevo previsto: mio padre non aveva più preso il discorso James-Chloe-Bambino- Nipote. Non che fossi stata nello stesso ambiente con lui per più di un minuto: non avevo neanche cenato. Quando uscii dalla cabina, sussultai vedendo Aaron e Brandon seduti sul mio letto, indossavano una felpa nera semplice, dei jeans neri e le scarpe bianche. Essendoci buio nella stanza,unica caratteristica che li distinguevano era il colore dei capelli. I capelli di Aaron era come se brillassero al buio, come se tra loro ci fossero dei punti luce e quando il buio calava attorno a lui, brillassero, essendo biondi, mentre quelli di Brandon, li adoravo, a differenza di quelli di Aaron, i suoi erano unici. I capelli neri di Brandon, alla luce si individuavano subito, mentre di notte si immischiavano ad essa. Una meraviglia e non lo pensavo perché anch'io avevo i capelli scuri, eh. Forse.

«Cosa volete?» Chiesi, stanca, realizzai due cose: uno) non avevo chiuso la porta a chiave. Due) avevo sonno.

«È mezzanotte: la vigilia di Natale. Il primo Natale senza lui...». iniziò Aaron, guardando la finestra. Deglutii, mi girai a guardare la finestra.

«James. Ha un nome». dissi a denti stretti, dire il suo nome mi provocò una stretta violenta attorno lo stomaco.

«Abbiamo pensato di andare a trovarlo, ora». Disse Brandon, mi girai di scatto verso di loro. «Vuoi unirti a noi?». Chiese Brandon.

«E me lo chiedete pure? Certo. Mi cambio e torno». Dissi e mi rifugiai nella cabina. Presi una hoddie crop nero, jeans neri e stivali neri almeno io e miei fratelli eravamo uguali. Mentre i capelli li raccolsi in una crocchia disordinata, mi interessava ben poco come mi presentavo. Ritornai in camera con il pigiama in mano, lo misi sopra il termosifone che emanava caloria, almeno quando sarei tornata a casa avrei trovato il pigiama caldo.

«Usciamo dalla finestra?». Chiesi, sospettavo che i miei genitori non sapessero nulla, per un motivo: non ci farebbero mai uscire a mezzanotte. Dovevamo ringraziare Dio se ci facevamo uscire di pomeriggio.

«Senti, ho ancora una vita davanti». Disse Brandon, era la prima volta che uscivamo senza il consenso dei nostri genitori, almeno con loro, eppure dovrei sentire un specie di senso di colpa verso i miei genitori, ignari di tutto ciò, eppure ero carica di adrenalina, il senso di colpa era inesistente.

«Usciamo dalla lavanderia». Disse Aaron, ovvero dal garage, annuii, così presi la chiave della mia camera e un giubbotto nero.

Uscimmo silenziosamente e imprecai mentalmente contro le mie scarpe, che facevano un insolito rumore di gomma a contatto con il pavimento. Chiusi la porta alle mie spalle e infilai la chiave girandola verso destra, si sentì un leggero scatto della serratura, così estrassi la chiave e la infilai nella tasca del mio giubbotto. I miei fratelli avevo già svoltato l'angolo. Nel corridoio in cui c'era la mia stanza, c'era anche quella di James di fronte alla mia, accanto c'era quella di Brandon e accanto alla mia quella di Aaron. I miei fratelli svoltarono a destra ovvero verso le scale, mentre accanto c'era il bagno, invece svoltando a sinistra, nell'ultima stanza c'erano i mie genitori, la camera padronale. Andai silenziosamente dritto e mi appoggiai alla ringhiera e guardai giù, alla fine della scala c'era Brandon che mi guarda spazientito, gli alzai il medio, molto probabilmente Aaron era sotto la scala, perché non lo vedevo. Potevano anche aspettarmi. Stavo per scendere scale,  quando sentii un rumore, lo sciacquone e lo scatto di una serratura, accanto a me: il bagno. Merda. Tolsi il giubbotto e lo tirai giù, feci un segno veloce a mio fratello ma  non c'erano più. Mi sedetti immediatamente sui gradini nello stesso momento in cui si aprì la porta del bagno, ed uscì Aaron.

«Oh ma vaf-». stavo per sbottare forse con un tono di voce troppo alto, perché Aaron mi mise la sua mano sopra la mia bocca, intimandomi con lo sguardo di stare zitta.  Nonostante il desiderio di ribattere fosse forte, decisi di rimanere in silenzio, ma solo perché lo volevo io e non perché me l'aveva intimato Aaron.
Iniziò a scendere velocemente le scale, silenziosamente. Io, impacciata com'ero, non potevo sicuramente scendere le scale alla sua stessa velocità. Quindi, per salvarmi la vita due volte: 1) se fossi caduta, mi sarei fatta male. 2) se fossi caduta, i miei genitori l'avrebbero sentito perché non cadevo mai in silenzio, decisi di scendere lentamente le scale.

Affiancai i miei fratelli, dopo aver rimesso il giubbotto  e ci dirigemmo in fondo al corridoio, a sinistra. Arrivammo davanti la porta marrone in legno e  Aaron abbassò la maniglia. Aaron e Brandon si muovevano così delicatamente e silenziosamente che arrivai a chiedermi, se la mia goffaggine fosse solo un difetto capitato a me. Poi ricordai le cadute di Aaron e Brandon e mi dovetti trattenere per non scoppiare a ridere. L'ultima ad uscire fui io e chiusi la porta, facendo scattare silenziosamente la serratura. Ed eccoci nel garage, le pareti colorate da bambini che allora avevano sette e nove anni, il primo era grigio (il mio, era uno dei miei colori preferiti) quell'opposta era blu notte (il colore preferito di James) quella alla mia sinistra era verde (il colore di Brandon) mentre, l'opposta a quella verde, la porta basculante e una porta accanto erano bianca (il colore di Aaron). Mia madre aveva avuto questa idea di far scegliere a noi il
colore delle pareti, tra l'altro, si era anche pentita di questa idea. Forse era un gene di famiglia: pentirsi. Be', alla fine, stavamo più tempo nel garage che in casa stessa.  Non c'erano molti mobili accostata al muro verde c'era appoggiata una lavatrice seguita da un'asciugatrice, c'erano tre mobili da cucina (che non c'entravano nulla con lo stile della cucina che avevamo) in cui mia madre conservava cibo scorta e sotto un bancone. Nel garage c'erano due macchine e una moto : il mio suv nero, range rover bianca di Aaron e la Buell Firebolt XB12Re rossa di Brandon, mentre fuori c'era la Mercedes di classe A grigia di mio padre e mia madre. Sentii lo stomaco brontolare, imprecai mentalmente verso di me per non aver mangiato.

«Ragazzi?» Chiamai i miei fratelli che erano vicini la porta. «Ho fame». Sussurrai, imbarazzata.

«Prendi qualcosa da lì». Disse Brandon, facendo un cenno verso il mobile accanto l'asciugatrice. Annuii, apri lo sportello e vidi che c'era di tutto: scatolette di tonno, cornetti, paratine, caramelle, pasta, preparati per zuppe e cose così, tutto ammassato.

Ero convinta che mia madre pensava che, da lì a poco, avremo avuto un'invasione zombi.

Adocchiai un pacco bianco, me lo sentivo: erano biscotti. Mi alzai in punta di piedi e allungai il braccio, era in alto. Mi aggrappai con l'altra mano sulla prima mensola e cercai di alzarmi ancora di più, toccai il pacco con le punta delle dita, così mi alzai ancora di più fin quando non mi ritrovai con il sedere a contatto con il pavimento freddo. Mi feci male, però avevo il pacco, che si rivelò dei biscotti, tra le mani. Esultai mentalmente. Due ragazzi mi affiancarono, piegati in due dalle risate, che cercavano di trattenere. Era divertente, certo, tra l'altro ero caduta in silenzio.

«Fottetevi». Dissi, feci per alzarmi e solo in quel momento mi accorsi della cartella che avevo sulle gambe. C'era allegata un'etichetta, lessi bene ciò che c'era scritto:

Chloe.

«Mica mi fotto con un maiale». Disse Aaron, lo ignorai, presi la cartella tra le mani tremanti. Lo stomaco si chiuse.

«Io di certo non mi fotto con un procione». Ribatté Brandon. «Charlotte? Sei diventata bianca. Che-». non gli feci finire la domanda che alzai la cartella. Aaron e Brandon si sedettero subito accanto a me, erano seri.

«La cartella». Disse Brandon, preoccupato.

«Andiamo da James, apriamola con lui».Dissi, sicura. Poi sorse un altro problema, se avessimo preso la macchina si sarebbe sentito il rumore e i miei l'avrebbero sentito senza dubbio, almeno mia madre. Mio padre quando dormiva non sentiva nulla.

«Sei sicura? Vuoi andare da James?». Chiese Aaron, mi alzai e posai il pacco di biscotti sopra il bancone, chiusi lo sportello.

«Si». Risposi senza dubbio, sinceramente non ero sicura. Era la prima volta che andavo da lui, non ero neanche andata al funerale. Quel giorno, come dimenticarlo, ero stata chiusa in camera sola. Senza nessuno che mi dicesse che non era colpa mia. Senza nessuno che mi abbracciasse. Senza nessuno che mi consolasse. Senza nessuno che mi urlasse contro. Per quanto triste come pensiero, quel giorno avrei voluto anche qualcuno che mi urlasse il disastro che ero, la tempesta che ero, almeno non sarei stata sola. Sola, vuota.

«I ragazzi ci aspettano alla fine della strada».
Disse Brandon, erano già davanti la porta. Erano veloci e silenziosi.

«Eh? Ragazzi?». Chiesi, felice in parte.

«Si Kendall, Chanel, Noah, Krystal, Jackson...». disse Aaron,  l'ultimo nome l'aveva quasi sibilato. Non era che odiavo Jackson, ma se l'omicidio fosse legale, l'avrei già fatto fuori. Non sopportavo i suoi capelli biondi e ricci. Non sopportavo i suoi occhi verdi. Non sopportavo il ghigno sempre presente sul suo volto. Non sopportavo il suo atteggiamento. «Ovviamente resteranno in macchina, scenderemo noi. E con noi intendo io, te e Brandon.»

«Va bene.» Dissi, stringendo la cartella tra le mie braccia. «Andiamo.»

Ansia, sopra ansia.

Uscimmo dalla porta e Brandon la chiuse e chiave, camminai stringendomi nel giubbotto, stringendo la cartella e affondando i piedi nella neve.  Da lontano potei notare la macchina di Noah, una range rover nera, vidi uno sportello aprirsi e da lì correre fuori una ragazza coi capelli lunghi rossi e un cappotto bianco, come la neve.

Kendall.

Sorrisi, vedendo che correva verso di noi. Aaron allargò le braccia, convinto che si sarebbe catapultata tra le sue braccia, fu così. La chioma riccia e rossa coprì buona parte della testa di Aaron, il quale le cingeva la vita, lei allacciò le gambe alla sua vita. Kendall, carnagione chiara, occhi verdi, naso dritto, labbra carnose, fisico magro ma non tanto aveva le forme nei punti giusti, guardava mio fratello con gli occhi che le luccicavano e le guance rosse per il freddo, sorrise e Aaron la baciò sulle labbra.

Non mi accorsi neanche della figura di una quinta persona, Chanel, carnagione chiara resa più scura dalla quantità di fondotinta che metteva, formosa, occhi marroni, capelli attualmente neri e sulle spalle (le piaceva cambiare colore, alla Michael Clifford), labbra perfette e naso dritto, abbracciava mio fratello Brandon calorosamente. In momenti come questi mi sentivo una sfigata, le mie migliori amiche che non mi cagavano completamente anzi abbracciavano solo i propri fidanzati ed io al centro, la terza incomoda. Camminai verso la macchina, lasciando gli innamorati dietro, dalla macchina uscì una ragazza bionda, menomale che c'era lei, Krystal. Bionda, occhi azzurri, labbra carnose, naso un po' arrotondato, sorrideva verso di me e poi corse ad abbracciarmi. Allargai le braccia tenendo la cartella in una mano,  e Krystal con uno slancio mi saltò di sopra, barcollai inizialmente, poi però la strinsi forte mentre lei stringeva me.

«Ciao.» Urlò euforicamente nel mio orecchio.

«Qualcuno che mi pensa c'è allora.» Dissi, ridendo seguita da lei.

«Ci sono anch'io.» Annunciò qualcuno alle nostre spalle, Noah, il ragazzo di Krystal. Nonché un bellissimo ragazzo, ci guardava con i suoi occhi color nocciola e un sorriso divertito sulle labbra carnose, la sua carnagione non era né chiara e né scura, era bella. Il suo naso era all'insù.

Era il mio migliore amico.

«Coglione.» Urlai, catapultandomi tra le sue braccia, mi circondò il corpo con le sue braccia possenti ma nello stesso tempo esili. Rise, mi era mancato il suono della sua risata.

«Ciao tappa.» Ma dai, era più alto di me di un centimetro al massimo, alzai lo sguardo su di lui, okay forse un po' di più ma di poco.

«Charlotte, quanto tempo.» Mi staccai immediatamente da Noah, sentendo quella voce calda e familiare davanti a me, Jackson, roteai gli occhio, era appoggiato alla macchina con le braccia incrociate al petto.

«Non sapevo soffrissi di Alzheimer.» L'ultima volta che c'eravamo visti era stato l'ultimo giorno di scuola, tre giorni fa.

«Perché non ci soffro.» rispose con un ghigno, fui presa dai nervi, ma prima che potessi rispondere sentii tirarmi il braccio e poi circondata da tre persone, le riconobbi dai profumi: Kendall, profumava di vaniglia. Krystal di fragole. Chanel di cocco.

«Su! Andiamo.» Annunciò Brandon, ci staccammo dall'abbraccio.

«Sono profondamente offesa, avete abbracciato prima i miei fratelli.» Dissi alle due, mettendo un finto broncio e incrociando le braccia al petto, tenendo saldamente la cartella stretta nella mano.

«Per farci perdonare, domani andiamo a mangiare  la pizza.» Disse Kendall, sapevano sempre come farmi felice.

«Andiamo va.» Dissi ridendo, circondai il collo di Krystal con il mio braccio e ci avvicinammo alla macchina. Jackson era ancora appoggiato ed essa e mi osservava con quel maledetto ghigno, Aaron gli fece un cenno ma lui non si muoveva. Io sostenni quello sguardo, nel mentre tutto salivano.

«Quegli occhi, tra pochi secondi, te li cavo.» Dissi, nervosamente. Odiavo essere osservata.

Jackson sorrise e poi scosse la testa, erano già tutti in macchina. Allungò un braccio verso la macchina.

«Prima le signore.» Un riccio ribelle gli ricadde sul volto, coprendo un occhio. Lo ignorai, nonostante il desiderio di ribattere fosse tanto. Entrai e mi sedei nei sedili posteriori, accanto a Kendall sulle gambe di Aaron, accanto a loro c'era Chanel sulle gambe di Brandon, mentre Krystal e Noah davanti. Mi sedei e salì anche Jackson, che chiuse lo sportello. Misi la cartella sopra le gambe e venni assalita da domande, risposi con un "meno sapete e meglio è", così cambiarono argomento: Capodanno. Volevano uscire tutti insieme, magari andavamo in un locale.

Arrivammo davanti quel luogo buio e tranquillo in poco tempo, scendere era stato un trauma: ma c'eravamo riusciti. Lasciammo tutti davanti l'auto e Brandon mettendomi una mano sulla schiena mi spinse verso l'ingresso, che ovviamente era chiuso. Sapevamo che c'era un guardiano e sapevamo che era grande di età, per giunta la lapide di James era molto lontana dall'ingresso, la famiglia aveva un posto ben preciso: quasi al confine. Il cancello era alto, possente, arrugginito e nero, ma da esso partiva un muretto che mi arrivava alla vita. Così lo scavalcammo facilmente. C'era la nebbia in città e questo non aiutava, tuttavia trovai aspetti positivi anche in questo: il guardiano non poteva vederci subito. Il cimitero, tra l'altro, era grande. Io non c'ero mai stata, ma i miei fratelli sapevamo dov'era la sua lapide. Infatti a passo svelto e sapiente, iniziarono a dirigersi verso una scala con tre gradini in pietra, li seguii a testa bassa e in silenzio facendomi il segno della croce. Non potevo dire di non avere paura, l'avevo eccome. I brividi ne erano la prova. Il cimitero era immerso nella neve, così come le lapidi.
Arrivammo davanti la sua lapide e gli occhi mi diventarono lucidi, diedi la cartella a Brandon e con le mani tremanti pulii dalla neve la lapide, lentamente il nome di James prese forma. In quel momento, si vide la sua foto, si lesse chiaramente il suo nome, la sua data di nascita e la sua data di morte.

James Hernandez.

Un tuffo nel cuore. Altro dolore.

Cosa ti ho fatto?

Toccai le lettere del suo nome.

«Apriamo la cartella?» Sussurrò Brandon, e dalla sua bocca uscì una nuvoletta bianca. Mi sedei sulla neve, non gli avevo neanche portato un mazzo di fiori. Non avevo mai pulito la sua lapide, pianto su ciò che rimaneva di lui, pregato per lui. Mai. Niente.

«Charlotte?» Sentii una mano sulla mia gamba, ma fissavo dolorosamente la foto.
«Lo sapevo, non era una buona idea portarla qui.» Parlò con Aaron. Era Brandon. Sentii una lacrima solcarmi la guancia. Non ora.

Capii: lapide, James, cartella, Chloe.

Era tutto collegato. «Voi non mi avete portato qui solo per vedere James, vero?».

«Charlotte, dobbiamo dirti una cosa. Te l'abbiamo tenuta nascosta per troppo tempo.» Disse Aaron. «Questo è il posto perfetto.»

Mi girai verso di loro. «Me l'aspettavo.» Sbottai. «Sul serio? Il cimitero?» Chiesi sbigottita, sapevano, o meglio pensavo che l'avevano capito, che solo pensare James mi faceva stare male, perché dirmi qualcosa davanti la sua lapide?

«Noi speravamo di trova-» non feci finire la frase a Brandon.

Mi alzai di poco e strappai dalle mani di Brandon la cartella, la aprii bruscamente.

«Cosa sperate di trovare? Cosa?» urlai disperata, li guardai con gli occhi lucidi.
«Di trovare una ragazza incinta di un ragazzo che non vedrà mai il figlio? un ragazzo ucciso dalla sorella? una sorella che continuerà ad affogare  nei sensi di colpa?» Sfogliai tutti quei documenti, foto, parole, velocemente, li sparsi ovunque. Brandon si abbassò per raccoglierle velocemente, così anche Aaron. Nella cartella rimase solo una foto. Una sola. La presi, chiusi le palpebre e le riaprii così da avere una vista più nitida.

«Charlotte, calmati.» Brandon mi mise una mano sulla gamba.

«Vedi? Questo volevi vedere?» Chiedi girandola verso Brandon, il quale, dopo averla guardata per un attimo, sorrise.

«Aaron...» mise una mano sul braccio di mio fratello Aaron, il quale alzò lo sguardo e sorrise.

«Abbiamo trovato ciò che speravamo. Abbiamo trovato la speranza, che avevamo perso, la felicità che ci è stata strappata dalle mani. Abbiamo trovato qualcuno.» Sorrise Aaron.

Girai la foto verso di me, si vedeva chiaramente Chloe con una pancia rotonda, segno della gravidanza in una stazione di rifornimento, appoggiata alla macchina e davanti a lei, c'era un ragazzo incappucciato, con la testa abbassata. Il mondo mi cadde addosso.

Chloe stava con un altro?

Sentii ardere qualcosa dentro di me, forse speranza o molto probabilmente rabbia. Le mani tremavano, non per il freddo, per il nervosismo. Sentii salire un conato di vomito in gola.

«Siete contenti di aver trovato Chloe?» Chiesi indignata.

«Siamo contenti di poterla vedere viva, quel bambino potrebbe essere di James. L'unico ricordo che ci lega a lui.» Disse speranzoso Brandon.

«Ma guardatela! Sta con un altro. Ha dimenticato James!» Urlai, rammaricante.

«Chloe si è ritrovata in dolce attesa, sola. Magari quello è solo un amico.» Disse Aaron.

«Amico o no, dovrà dirmelo di persona.» Dissi alzandomi.

«Cos'hai in mente?» Chiede preoccupato Aaron, gli passai la cartella.

«Di non vivere più nel mistero. Voglio la verità, ma per il momento, lasciatemi sola.» Dissi, così girai i tacchi e corsi immergendomi nel buio, confondendomi tra le ombre, immergendo i miei stivali nella neve, le guance solcate dalle lacrima ma che volevano volano via e congelarsi prima di toccare la neve. Lo stavo facendo di nuovo, stavo scappando dai miei problemi.

Non volevo affrontare la realtà.

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