Capitolo 6: Empty

Domani sarebbe stata la vigilia di Natale e mio padre, non volendo stare a Los Angeles, aveva già prenotato il volo per ritornare a New York. Avevamo provato a convincerlo per andare da sua sorella e provare a chiarire, veramente, ma finivamo per litigare così avevamo preferito evitare. Ieri, quando eravamo ritornati in hotel, (dopo essere stati da mia zia) ero stata completamente in uno stato di trans, ero rimasta in bagno per un bel po', alla fine, era stato Aaron a liberarmi dal bagno: facendosi dare da un cameriere una seconda chiave, dato che molto stupidamente avevo tolto la chiave della serratura- che era dalla mia parte- era stato abbastanza facile liberarmi da quella stanza. Questa volta, in aereo, capitai tra mia madre e mio fratello Brandon, quest'ultimo ebbe la fortuna di capitare accanto il finestrino.
Riguardo i messaggi dal numero privato, non ne avevo ricevuto più, non ne avevo neanche parlato con qualcuno. Alla fine, era solo un messaggio.

Stupido, si era stupido.

Cercai di convincermi, ma mia madre  interruppe i miei pensieri. Mi girai a guardarla.

«Ieri, il litigio tra papà e la zia, mi ha riportato a quando tu e...Tuo fratello litigavate». Capii a che fratello si riferiva, dopo la sua morte non riuscì più a dire il suo nome, come se fosse illegale, come se fossimo maghi e dovessimo nominare Voldemort.  «Eravate così divertenti, prima di poter effettivamente intervenire, io e papà, aspettavamo tantissimo tempo perché ridevamo troppo. Tu dovevi sempre ribattere e, nonostante fossi più piccola, dovevi sempre avere l'ultima parola. Tuo fratello era sempre quello che ci rimetteva e, forse, è proprio per questo motivo che eri sempre quella che finiva per andare in camera con un sorriso soddisfatto». Rise, aveva gli occhi lucidi. Ascoltai ogni singola parola, ma quello che mi faceva più male era che non riuscivo a ricordare nulla di quand'ero piccola.

Mi sentii terribilmente vuota, come se una parte della mia vita fosse stata rubata, come se fossi ignara del mio passato, mi sentii incompleta, tutto qui. Fu davvero strana quella sensazione, non fu neanche la prima volta che la provai. Mi sentivo vuota  quando scrivevo un pensiero su un foglio, quell'inchiostro nero che sporcava quel foglio bianco mi faceva sentire vuota e non libera perché la mia mente si era svuotata, aveva liberato quel pensiero. Mi sentivo vuota  quando fissavo il vuoto e, intorno a me e dentro me, non c'era altro che silenzio. Mi sentivo vuota  quando non trovavo soluzione al dolore. Mi sentivo vuota  quando tutto quello che dicevo veniva etichettato come strano. Mi sentivo vuota quando non ero apprezzata. Mi sentivo vuota quando davo troppe lacrime, in momenti in cui avrei dovuto tenerle me. Mi sentivo vuota quando provavo troppa felicità in momenti che passavano velocemente, anche troppo. Mi sentivo vuota, sola, triste nonostante fossi piena di sentimenti, in compagnia della mia famiglia e nonostante avessi un motivo per essere felice. Questo pensiero mi rattristì ma non lo feci vedere, nascosi la tristezza dietro il divertimento.

«Eh Be'?» Chiese Brandon, alzò le sopracciglia come per chiedere il motivo del ricordo -sempre se così poteva definirsi- di mia madre.

«Ora ti metti ad imitare anche le pecore?» Chiesi divertita, trattenni una risata, ma quando mio fratello mi guardò arruffando il naso e alzando il lato destro del labbro superiore, scoppiai a ridere. Era una risata sincera, in parte.

«Ma Brandon non è una pecora, bensì un maiale.» Sbottò Aaron divertito
dal sedile davanti, si girò alzando il collo in modo da poter guardare noi dietro, era tra mio padre e un altro signore calvo.

«Disse il procione.» Ribatté Brandon divertito, al quel punto scoppiai a ridere, misi le mani sulla pancia per via dei crampi, causati dalle risate. Ridevo così non piangevo. Ridevo per non soffrire, o meglio per nascondere  la mia sofferenza.

«Aaron! Brandon!» Li rimproverò mia madre, che tratteneva una risata.

«Mamma, facciamo cambio di posto? Così te stai accanto papà, io accanto i miei fratelli.» Propose Aaron, alzandosi senza aspettare la risposta, tuttavia mia madre annuì.

«Allora, Charlotte parliamo del ragazzo di ieri». Disse Aaron, sedendosi. Mia madre che stava per sedersi, mi guardò confusa in cerca di spiegazioni ma alzai le spalle e rotai un dito accanto la testa per poi indicare Aaron. Mia madre scosse la testa ridendo, per poi sedersi.

«Aspetta, vorresti offendere il mio cervello?». chiese Aaron, mettendo il broncio.

«Non voglio offendere qualcosa che non hai». Dissi,  tentando di avere un tono serio.

«Severo ma giusto». Si intromise Brandon, divertito.

«Ma...» Iniziò Aaron scioccato, ma divertito. «Zitto tu, maiale.» Scoppiai a ridere, dopo la sua affermazione.

«Zitto procione.» Ribatté Brandon, alla fine scoppiarono a ridere.

«Fate silenzio». Dissi, prendendo il libro dalla borsa, se continuavano così andava a finire che avremmo riso per tutto il viaggio.

«Non c'è motivo». Sbottarono all'unisono e scoppiarono nuovamente a ridere.

«Capisco che il suono vi echeggia nel vuoto, ma quella non era una domanda ma un ordine». Dissi, aprendo il libro che, grazie al segnalibro,  era rimasta nella pagina in cui ero arrivata. L'avevo iniziato ieri, ma ero già a pagina trecento ne mancano cento per finire. Quindi approfittai del tempo rimasto del viaggio per leggere.

«Cosa leggi?». Chiesero all'unisono i miei fratelli.

«Cosa non capite?». Chiesi, poi non diedi il tempo di rispondere che risposi alla mia stessa domanda.
«Ah già, tutto». Sorrisi divertita mentre alzavo lo sguardo dal libro.

«Charlotte, lo vedi?» Chiese Aaron, indicando il suo occhio.

«Cosa dovrei vedere?» Chiesi confusa, anche se sapevo avrebbe risposto che non gli interessava o cose così.

«Che non mi interessa?» Chiese Aaron, allargando la palpebra dell'occhio destro facendo vedere maggior parte dell'occhio.

«Non ti interessa capire?» Chiesi, l'ultima parola dovevo sempre averla io.

«No, non mi interessa ciò che pensi». Ribatté Aaron.

«Non ti interessa essere preso per stupido?» Chiesi, sbigottita.

«Ma la vuoi finire?» chiese, divertito.

«Di fare cosa? Di descriverti?» Chiesi altrettanto divertita.

Dalla sua bocca uscì una risata ironica, poi però non disse più nulla, mi lasciò in pace, così potei finire di leggere il libro in santa pace. Certo, non ero stata tanta coerente con me stessa, poiché una volta finito il libro, dire che sembravo una sclerata era un eufemismo, ma non era di certo colpa mia se la scrittrice aveva deciso non solo di porre fine alla storia, ma anche alla vita dei protagonisti facendoli disgraziatamente, ingiustamente e terribilmente morire, sta di fatto che avevo preso il braccio di Aaron, immaginandola la faccia dalla scrittrice così sfogai la rabbia sul suo braccio, ma anche Brandon non aveva avuto scampo, immaginai il suo braccio come i collaboratori che aiutarono la scrittrice a scrivere il libro. «Continua, non fai niente. La tua forza è uguale a quella di un criceto.» avevano detto, così per vendicarmi avevo dato, ad entrambi, un pugno abbastanza forte da fargli portare una mano sul punto indolenzito, ma dettagli.

Quando scendemmo dall'aereo, in un primo momento fu come tornare indietro nel tempo, esattamente ieri eravamo arrivati a Los Angeles e ora ero nuovamente a New York. In un secondo momento, in macchina, un pensiero mi fece ritornare con i piedi per terra e mi fece schiaffeggiare la fronte: i regali. Non avevo comprato niente. In un terzo momento, quasi giunti a casa,  mi tranquillizzai e mi presi per egoista. Solo sei mesi fa, mio fratello era morto e pretendevo di festeggiare il Natale? Con quale coraggio avevo pensato quella cosa?
Tra tutte le case schierate una accanto all'altra, la mia era quella più spenta, vuota e fredda. Senza addobbi, senza luci, senza tutte quelle cose che metteva mia madre ogni anno per rendere la casa a tema natalizio.  Dentro casa, il clima era freddo, così come il rapporto con i miei genitori -i quali erano andati a fare la spesa, lasciando a noi valigie e tutto il resto- sembrava che fosse una giornata come le altre, un periodo come gli altri, come se tra due giorni non fosse Natale, una festa che avevo sempre amato, ora sembrava fosse una delle più odiate. Come se tutta l'allegria che si doveva avere in quei giorni, fosse un veleno.

Forse lo era.

Quando attraversai il parquet che portava alle scale, fui attraversata da un brivido, il mio sguardo cadde sulla porta aperta accanto le scale: il salone.

Ignorai i miei fratelli che mi chiamavano, perché volevano essere aiutati. Entrai dentro quella stanza, camminai lentamente come se fosse un luogo sconosciuto anche se sapevo la collocazione di ogni mobile. La prima cosa che si vedeva era la doppia porta a vetri che dava nel giardino. Poi si notava che era diviso in due parti, entrambe avevano le pareti grigie, un grigio scuro e il parquet, da un lato c'era un mobile bianco appoggiato al muro lungo quanto la parete, sopra esso c'erano tre cornici le cui foto mi fecero stringere il cuore, c'era uno specchio alto quanto una parte superiore di una persona e lungo quanto il mobile sottostante, c'era un tavolo in vetro con dodici sedie imbottite grigie, decorato con un lungo centrino rettangolare grigio e al centro un vaso basso e largo bianco con dei fiori finti, era perpendicolare al lampadario di cristallo. D'altra parte invece, c'erano tre divani grigi  (uno a tre posti, due da uno) entrambi rivolti verso i tavolino basso bianco al centro, davanti essi c'era un camino spento, con la legna che avevano bruciato prima di partire, accanto esso c'era alcuni pezzi di legna e sopra una finestra, addobbata con una lunga tenda bianca. Sorrisi malinconicamente guardando la stanza.

Qualcosa mi spinse ad avvicinarmi a quelle cornici, le uniche cose davvero colorate nella stanza. La prima, a destra, raffigurava una famiglia felice e giovane, la cui moglie aveva dato alla luce il suo primo bambino. Lei distesa su quel letto, sempre scomodo, che teneva un bambino avvolto in una coperta celeste e tra le braccia, aveva il viso stanco ma felice, aveva le bozze sotto gli occhi ma sorrideva all'obbiettivo, lui con le lacrime che gli sgorgavo dagli occhi, che circondava con un braccio il collo della moglie, e si poteva vedere il braccio con cui teneva la macchina fotografica: era felice mia madre, era emozionato mio padre, era appena nato James.

Sorrisi felice.

La seconda mostrava una famiglia altrettanto felice, la stessa donna era sempre distesa su quel letto, ora con un braccio teneva un bambino riscaldata da una coperta blu notte, i lineamenti erano più stanchi del solito, ma era felice, l'altro braccio l'aveva disteso e aveva chiuso la mano a pugno alzando solamente il pollice. Accanto a lei, c'era suo marito che teneva un bambino con la coperta celeste tra le braccia, a differenza della moglie guardava l'obbiettivo con uno strano luccichio negli occhi, ma non erano solo loro: sul letto, accanto le gambe di mia madre c'era un bambino biondo, che teneva tra le braccia una bambina dato che aveva la coperta rosa, non guardava l'obbiettivo, guardava la creatura che stringeva tra le braccia. Non sapevo chi avesse scattata la foto, ma era un bravo fotografo.

Sorrisi malinconicamente.

La terza era la peggiore o forse la migliore. Al centro c'era un ragazzo biondo che guardava verso l'alto con la toga blu notte, dotata di cappuccio, che tendeva verso l'alto il braccio con cui stava lanciando un cappello blu di forma quadrato verso il cielo, con cui aveva coperto per un lungo periodo di tempo i suoi capelli biondi, sorrideva era felice davvero: si era diplomato, James. Accanto a lui, c'era una ragazza con i capelli castani scuro che lo guardava sorridente, io. Accanto a lei, c'era un ragazzo moro, che aveva alzato il medio verso l'obbiettivo ma sorrideva, Brandon, dalla parte opposta alla sua c'era un ragazzo biondo che tendeva le braccia verso di lui con un'espressione scioccata e divertita nel volto, per sottolineare la stupidità del moro, Aaron. La donna con i capelli neri, mia madre,
accanto al biondo, che nelle foto precedenti era distesa su un letto, ora aveva un'espressione di rimprovero verso il moro, mentre accanto a lei c'era l'uomo, mio padre, che aveva sempre sorriso in tutte le foto, ora rideva con le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi per il divertimento. La mia famiglia era sempre stata così: un misto di allegria e divertimento. Stanchezza e felicità.

Sorrisi tristemente.

Mi mancò il respiro, mi sentii male. Mi accasciai a terra. Era colpa mia. Solo ed esclusivamente mia se quella felicità era stata distrutta. L'avevo capito, ma perché continuavo a torturami? Perché continuavano a torturami? Perché il passato doveva sempre distruggere tutto? Perché? Perché se era passato?
Forse la risposta la troverò più avanti. Guardai il vuoto. O forse non la troverò mai. Avvertii di nuovo quel forte dolore al petto, quel dolore mi fecero tornare in mente le parole di mia zia Katherine e ancora una volta mi fece sentire vuota.

«È brutta, sai? Quella sensazione che ti opprime il petto fino a farti sentire male,  fino a non farti respirare».

Eccome se era brutta.

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