Capitolo 5: I never Stopped

Ero in una stanza buia e fredda, talmente buia che, anche se avessi messo le mani davanti il mio viso, non le avrei viste e soprattuto talmente fredda da non riuscire a farmi muovere. Tremavo, tremavo molto. Mi rannicchiai in un angolo e abbracciai le mie ginocchia, tossii, tossii continuamente, ma non mi mossi.

«Sorellina, senti freddo?» Una voce dolce rimbombò nella stanza, riconobbi quella voce.

«James.» I miei occhi si riempirono di lacrime, se solo sentire la sua voce mi rendeva vulnerabili non osavo immaginare ciò che poteva succedere se lo vedessi di persona.

«Piccola Charlotte, senti freddo?» Sentii dei passi pesanti e svelti, poco dopo una mano si posò sulla mia, bruciandomi, di scatto la ritrassi e mugolai dal dolore.

«Ti sei fatta male?» Chiese dolcemente, sentii il suo respiro ma non potei vederlo.

«Si.» dopo la mia risposta sentii una risata amara, poi un senso di bruciore che, dalle mani,  si propagò velocemente su per le braccia, arrivò fino al collo, non mi spaventai, c'era James accanto a me non poteva succedermi nulla di male: ero sicura.

«Non hai paura?» La sua voce diventò lontana, tuttavia non sentii i suoi passi, alzai le mani e le mossi nell'aria per vedere se fosse ancora qui ma non c'era nessuno. Nella stanza, il freddo fu scacciato dalla caloria simile a quella di un camino.

«James.» Urlai allarmata, sentii mancarmi l'aria, dentro quella stanza c'era troppo caldo, il muro, in cui ero appoggiata, mi bruciò la schiena. Mi alzai di scatto ma ovunque toccassi o mettessi i piedi, mi bruciavo.

«James.» urlai in preda al panico, iniziai a tremare più forte, urlai di nuovo il suo nome. Avevo paura. Non respiravo.

«Charlotte.» Sentii il mio nome, ma non era la voce di James. Lo sentii di nuovo, il mio nome, ma la voce era lontana.  Era roca, forte ma nello stesso tempo debole. 

«Scappa.» Urlò quella voce ma non riuscii a muovermi.

«Scappa.» Urlò, ma stavolta la voce non era la stessa, stavolta era di James che fu seguito da una risata amara.

«Non riesci a scappare?» Chiese, disprezzato James. Stavolta sentii dei passi svelti e leggeri.

«Eppure quando sei scappata, lasciandomi solo fra le fiamme, ci sei riuscita, come mai?» Era crudele.

«Mi seguivi.» Urlai con difficoltà.

«Mi seguivi.» Chiusi gli occhi.

«Menti.» Tuonò un'altra voce, la testa la sentii pesante, sentii un peso sopra il petto e le forze mi abbandonarono.

«Aiutami.» Urlai, con quelle poche forze rimaste.

«Aiutami.» Aprii le palpebre.

«No.» Poco dopo un fascio di luce riempì la stanza, velocemente, talmente velocemente che non ebbi il tempo di mettere un braccio davanti gli occhi, per evitare di diventare cieca. Era fascio di luce dalla potenza talmente forte da scaraventarmi in un angolo della stanza, sbattei forte le testa, ma non persi i sensi, vidi che quel fascio di luce si trasformò in una fiamma alta, rossa e ardente. Ebbi paura. L'aria mancò. In un batter di ciglia, venni travolta dalla fiamma come una città veniva travolta da un tsunami.

Aprii di scatto gli occhi, sentii le labbra secche, sentii caldo. Eppure dal getto d'acqua scendeva acqua fredda, come il ghiaccio. Indietreggiai fino a toccare, con la schiena, le piastrelle gelide del box doccia, appoggiai le mani su essa e scivolai lentamente fino a sedermi.

Da quando eravamo arrivati in hotel, non facevo altro che essere immersa in un mondo tutto mio, mi ero infilata nel bagno della camera che dividevo con i miei fratelli e avevo pianto. Stavo annegando nei sensi di colpa, a causa di quel messaggio.

Le lacrime si immischiarono velocemente all'acqua, mi sentii sporca nonostante mi fossi lavata più volte con il bagnoschiuma, mi sentii inutile, sentii le mie mani sporche di un sangue che non era mio. Mi sentii un errore.

I ricordi erano vividi e lipidi, ma i miei tormenti più grandi erano gli incubi. Amavo poggiare la testa sul cuscino e chiudere lentamente le palpebre, immergendomi in un mondo tutto mio. Ma da quando lui se ne andò, il mio mondo fu distrutto: raso al suolo. Ero  in guerra: tra me e me. Continuavo a lottare contro un senso di colpa che mi aveva distrutta, continuavo a fare finta di dimenticare quando, in realtà, l'unica cosa che avevo dimenticato era quella di vivere. Nonostante nella mia mente, ronzavano altre parole, che ogni giorno mi ripetevo per trasmettermi una sorta di forza: Prima o poi tutto aveva una fine, ma dovevo essere abbastanza forte e coraggiosa da continuare a vivere e non iniziare a sopravvivere. Lo ripetevo sempre.

Me lo ripetei ancora, ancora e ancora.

Ma ripeterlo in mente era troppo facile, dirlo guardandomi allo specchio era difficile e ancora di più farlo.

I ricordi dell'incubo, si ripeterono in continuazione come una lacrima che scendeva seguita delle altre, sempre la stessa storia.

Misi le mani in testa, alzai lo sguardo e guardai l'acqua che scendeva velocemente dal getto d'acqua, acqua limpida e fredda. Capace di rimuovermi ferite invisibili a qualsiasi altro essere vivente, ma che, io, vedevo benissimo. Sentii il leggero suono provocato da un insieme di gocce d'acqua, era molto buffo come tante gocce facessero tanto rumore quando una sola goccia non ne produceva nessuno. Distesi le braccia lungo i fianchi, le mani sopra le mie gambe vicine al petto, lo sguardo fisso nel vuoto, stetti ferma per più di un secondo, fino a quando non allungai il braccio destro fino a far bagnare le mie esili dita e osservare una goccia fredda e limpida scendere dall'indice, superare il palmo della mano e rigare difficilmente il braccio, inclinai quest'ultimo e la goccia scese velocemente, fino a cadere nel vuoto.

Il viaggio di quella goccia era come la mia vita: tutta in discesa.

Dalle mie labbra uscirono respiri affannati, come se fossi rimasta sotto l'acqua per tanto tempo.

L'immagine dello sguardo implorante ma nello stesso tempo arreso di James, torturava la mia mente. I suoi occhi azzurri pieni di vita, con la consapevolezza di star per spegnersi, per sempre. Quel corpo, ormai in pessime condizioni, disteso su quella barella coperto con una tela blu. Le urla disperate di una madre che era arrivata nel luogo dell'incidente. Lo sguardo distrutto e deluso di un padre che guardava la figlia, un padre che aveva perso un figlio. Le sirene del camion dei pompieri e dell'ambulanza sostituirono quello dell'acqua, dei suoni che diventarono più lontani fino a scomparire, come le persone: madri, padri, figli. Rimasi sola dopo che, anche i poliziotti andarono via. L'immagine della casa rasa al suolo, a causa delle fiamme, fu l'unica cose che rimaneva, l'unica traccia dell'accaduto. Ricordai i miei passi su quel pavimento, che prima era un parquet, le lacrime che cadevano su quello che rimaneva: solo cenere. Ricordai quando il mio corpo cadde a terra, quando vidi la sua collana d'argento, in mezzo a quella terra nera con alcune chiazze di sangue sparse ovunque, ricordai quando mi accascia a terra prendendo la collana tra le mani fino a stringerla al petto. Ricordai e provai quel dolore che continuò a distruggermi. Ricordai le mani nere, il viso rigato dalle lacrime, il mio sguardo rivolto al cielo e il mio urlo. Un urlo disperato, arrabbiato ma soprattutto silenzioso. Urlai dentro di me. Ancora una volta: urlai. Urlai ai miei demoni di smettere di tormentarmi, urlai di uccidermi.

Ma nessuno mi ascoltò. Tutti mi abbandonarono. Fui sola, di nuovo.

Il mio petto continuò a muoversi su e giù, i singhiozzi diventarono più continui e rumorosi, le lacrime non accennarono a smettere. Sussurrai dei <<basta>> continui e soffocati dai singhiozzi, nascosi la testa tra la braccia, dondolai abbracciando le ginocchia e nascondendo la testa tra quest'ultime e il petto.

Sentii dei forti pugni sulla porta, sentii mio fratello, Aaron, chiamarmi ma lo ignorai, avevo chiuso la porta a chiave quando ero entrata nel bagno della stanza. Quando sentii che chiamò mio fratello Brandon, decisi di uscire dalla doccia, chiusi l'acqua ed uscii trascinando con me il mio dolore, presi un asciugamano bianco e avvolsi il mio corpo ricoperto da cicatrici indelebili.

Asciugai le lacrime, guardai un'ultima volta il mio riflesso sullo specchio che era, a dir poco, simile a quello di uno zombie e mi schiarii la voce.

«Cosa vuoi?» Urlai, tentando di avere una voce ferma ma fallii.

«Stai be- stai piangendo?» Chiese, stavo per mentire ma un singhiozzo mi precedette.

«Ho appena finito di fare la doccia.» La voce uscii ferma, ma strinsi gli occhi e le labbra in una linea sottile per trattenere lacrime e singhiozzi.

«Apri questa porta.» Abbassò la maniglia, ma non aprii la porta, non poté.

«Per favore.» Aggiunse, preoccupato. Mi avvicinai alla porta, misi una mano sulla superficie, mi faceva male far soffrire altre persone, ma meno mi vedevano soffrire meno soffrivano loro.

Mi allontanai dalla porta e ritornai a guardare il mio riflesso, sciolsi la coda che avevo fatto per evitare di bagnare i miei capelli, e mi guardai. Ero disgustata da ciò che vedevo. Ero un mostro, sia dentro che fuori.
Mi bloccai, come se fossi stata congelata. A volte, avevo bisogno semplicemente di aiuto per superare certe cose, eppure non riuscivo ad accettare nessun tipo di aiuto, se non il mio.

Facevo così e non avevo mai smesso di farlo: volevo aiutarmi da sola.

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