Capitolo 4: The boy of LA
Sentii migliaia di voci attorno a me e presa dalla curiosità, aprii lentamente le palpebre. Misi a fuoco la figura davanti a me e incontrai delle iridi scure, sconosciute. Sentii uno sportello sbattere e, poco dopo, venire verso di me un signore sulla trentina, l'autista del taxi che stava per investirmi. Il suo sguardo era un misto tra preoccupazione, paura e rabbia. Tuttavia, rimase semplicemente in piedi davanti a me.
«Stai bene?». Chiese il ragazzo dalle iridi scuri con la sua voce profonda, il suo sguardo era misterioso, cupo.
Era a dir poco bellissimo, aveva la mascella pronunciata, occhi scuri, naso rotondo, capelli neri corti, aveva un accenno di barba segno della pubertà e dei zigomi che mi facevano venire voglia di sfiorarli delicatamente ma ciò che mi fece irrigidire era la sua presa ferrea attorno la mia vita. Alcune persone si radunarono attorno a noi, li osservai velocemente e nessuno di quelle persone aveva un'aria preoccupata, erano semplicemente curiosi di sapere di più di ciò che avevano visto e ciò mi fece adirare.
Il mio respiro era affannato, il mio petto si muoveva su e giù velocemente anche troppo, tremavo, l'adrenalina si scaricò velocemente, la paura si fece da parte e la consapevolezza dell'accaduto mi rese cosciente.
«Si». Risposi con tono fermo, nonostante fosse leggermente difficile. Per poco non mi investivano, mi ripetei nella mia mente. «Lasciami, sto bene». Dissi allontanandolo mettendo le mani sul suo petto, lui lasciò la presa come se avesse preso la scossa. Meritavo di essere investita, non dovevo essere salvata, ero pronta.
«Questo è il ringraziamento dopo che ti ho salvata, eh?». Chiese estremamente calmo, la preoccupazione in cui mi pose la prima domanda era sparita.
«Non ti ho chiesto di salvarmi». Dissi mettendomi seduta sul marciapiede.
«Charlotte». mio fratello Brandon, si fece spazio fra la gente e si inginocchiò accanto a me, mi strinse immediatamente tra le sue braccia. «Stai bene? Qualcosa di rotto? Te la senti di alzarti? Vuoi andare in ospedale?». Mi prese il viso tra le mani, leggevo la sua preoccupazione negli occhi, oltre la paura.
«Sto benissimo, non è successo niente».Dissi leggermente confusa. «Non fare tutte queste domande, mi fai salire l'ansia».
«Lei, non guarda quando guida? Come cazzo guida?». Urlò mio fratello verso l'autista.
«Scusi, ma non l'ho vista, è spuntata dal nulla». Si giustificò, aveva ragione ero presa dalla rabbia, non guardavo dove andavo.
«Ringrazi questo ragazzo che l'ha salvata, se l'avesse investita solo Dio sa cosa le avrei fatto». Sbraitò mio fratello, lanciando uno sguardo di ringraziamento verso il ragazzo accanto a me.
«Charlotte, hai ringraziato...». Mio fratello guardò il ragazzo come se gli avesse chiesto il nome.
«Colton, mi chiamo Colton». Si presentò. «Non devi ringraziami, come ha detto Charlotte non me l'ha chiesto nessuno, ho reagito d'istinto».
Brandon mi lanciò un'occhiataccia. «Scusala, mia sorella ringrazia a modo suo». Disse, alzandosi, mi alzai da sola ignorando la mano che mio fratello mi stava tenendo.
«Senti, Caleb o come cazzo ti chiami, ti ringrazio per quello che hai fatto ma ora ciao». Dissi prendendo la mano di Brandon e andandomene, intorno a me tutto girava vorticosamente ma strinsi i denti e continuai a camminare.
«Charlotte, potresti essere più gentile». Mi consigliò mio fratello.
«Almeno hai la conferma che sto bene». Dissi, fermandomi di scatto. Non ricordavo la strada.
«Andiamo sempre dritto ed arriviamo». Disse mio fratello, come se mi avesse letto nella mente.
«Lo sapevo, stavo controllando se lo sapessi tu, non volevo fare da navigatore». Mentii, iniziando a camminare, ma sentendo il mio nome da lontano mi fermai per la seconda volta, mi guardai al di sopra della spalla ma non vidi nessuno.
«Certo». Ironizzò mio fratello, affiancandomi. «Lo sapevi come sai la legge di dalton». Disse riferendosi ad una legge di chimica, che non riuscivo mai a ricordare. Gli lanciai un'occhiataccia e scossi la testa. «Che hai?». Chiese.
«Ho sentito che qualcuno mi chiamava». Dissi e mi girai nuovamente poiché sentii nuovamente il mio nome.
«Anche se sentissi il tuo nome, non vuol dire che chiamino te. Siamo per strada, esistono tre milioni di persone con il tuo stesso nome». Disse, alzando le spalle. Annuii anche se mi guardai un'ultima volta dietro, ma ancora una volta non c'era nessuno.
Continuammo a camminare fino a raggiungere la casa della zia, anche se aveva qualcosa di strano, sembrava più piccola. Arrivammo dopo cinque minuti, Brandon suonò il campanello, aspettammo altri due minuti, due minuti che sembrarono un'eternità, e infine la porta si aprì, rivelando un uomo sui sessant'anni, basso, magro, pelato.
«Cosa volete?». Chiese bruscamente, stavo per rispondere con il suo stesso tono ma Brandon mi precedette con un tono più calmo.
«Cercavamo la signora Hernandez».
«Abita dall'altra parte della strada, stupidi mocciosi». Disse, chiudendoci la porta in faccia. Spalancai la bocca.
«Stupido babbano». Dissi, facendo scoppiare a ridere Brandon.
«Menomale che sapevi la strada». Sbottammo all'unisono io e Brandon.
«L'hai detto prima tu». Continuammo sempre all'unisono.
«Finiscila». Dicemmo insieme ed entrambi facemmo un verso disperato, alla fine non dicemmo più niente.
«Brandon, per favore non dire niente di quello che è successo. Okay?». Chiesi, non volevo preoccupare nessuno.
«Va bene». Acconsentì, lo ringraziai con lo sguardo.
Stavolta fui io a suonare il campanello, la porta si aprì, ed ebbi conferma che era la casa di mia zia, vedendo Aaron.
«Già di ritorno?» Chiese stupidamente Aaron, facendo entrare Brandon come se fosse il padrone di casa.
«Ma non lo vedi?» Rispondemmo nuovamente all'unisono io e Brandon, ci guardammo negli occhi e scuotemmo la testa, sconsolati. Feci per entrare ma sentii nuovamente il mio nome, la voce sembrava più vicina e conoscente. Tuttavia mi fece venire i brividi. Mi girai nuovamente e stavolta vidi una persona correre verso di me, quando si fermò davanti riconobbi la persona, era il tizio che mi aveva salvata. Si piegò e mise le mani sulle ginocchia, respirava affannosamente. Socchiusi la porta rassicurando i miei fratelli con lo sguardo.
«Finalmente ti sei fermata». Riuscii a dire tra una boccata d'aria e un'occhiata. Prese un respiro profondo e si alzò.
«Eri tu che mi chiamavi?». Chiesi, la voce non me la ricordavo così, ma infondo quando mai ricordavo qualcosa?
«No, la mia voce.» Rispose con l'ombra di un sorriso. «Comunque mi chiamo Colton, non Caleb.» Stavolta nel suo viso si formò un sorriso, che non ricambiai.
«Sei venuto fino a qui per dirmi come ti chiami?» Chiesi, scocciata incrociando le braccia al petto.
«No, sono venuto per restituirti questo.» Disse, mettendo la mano dietro la schiena poco dopo estrasse qualcosa e mi passò il mio cellulare.
«Oh grazie.» Dissi prendendo il cellulare.
«Aspetta cos'hai detto?» chiese, divertito.
Questo qua mi da sui nervi.
«Non ho intenzione di ripeterlo.» Dissi, acidamente.
«Okay okay, solo che è molto buffa la cosa, insomma ti salvo da un tour all'ospedale e non ringrazi, ti porto il cellulare e mi ringrazi.» Disse, alzando le sopracciglia.
«Buffo.» Commentò.
«Va bene, ciao.» Tagliai corto, mi girai ma mi fermò avvolgendo il mio braccio con la sua mano. Mi girai di scatto e allontani la sua mano.
«Abito qui vicino e non ti ho mai vista in giro, sei nuova?» Chiese, curioso, incastrando le mie iridi azzurre nelle sue castane nuovamente.
«Ti lascio nel dubbio.» Mi girai, misi la mano sopra il pomello e lo spinsi leggermente per poter entrare, guardai un'ultima volta Colton. «Se non mi hai vista non vuol dire che non abito qui, magari non hai mai guardato bene.» Dissi così da lievitare la sua curiosità.
«Ciao Colton.» Dissi entrando, mi misi dietro le porta e inizia a chiuderla, quando sentii che aveva ricambiato il saluto, la chiusi definitivamente.
«Chi era?» Sussultai sentendo la voce di Aaron alle mie spalle. «Brandon mi ha detto che lo conosci più o meno.» Mi girai e vidi Aaron con le braccia incrociate al petto e, dietro di lui, Brandon che rideva sotto i baffi.
Aaron era molto geloso, a differenza di Brandon che sapeva regolare la gelosia nei miei confronti. Misi il cellulare in tasca.
«Mi ha-» non volevo dargli ulteriori preoccupazioni, quindi evitai di dire quello che avevo scoperto e quello che stava per succedere. «Riportato il telefono, ero caduta e mi era caduto». Mentii, mi dispiace farlo ma dovevo. Aaron sospirò e forse mi credette.
«Vabbè vabbè, lasciate stare. Volevo chiedervi una cosa sto organizzando una sorpresa...» Disse girandosi così da non dare più le spalle a Brandon. «...a Kendall, dato che tra dieci giorni circa facciamo un anno pensavo di fare quelle sorprese che piacciono a lei, che definisce "tumblr" » disse minando le virgolette sull'ultima parola.
«Ma se l'unica cosa "Tumblr"che conosce è l'applicazione che ha nel cellulare.» Dissi, mimando le virgolette su Tumblr e scoppiando a ridere.
«Bene, hai scelto il tuo destino.» Urlò qualcuno dall'altra parte del corridoio, sentii sbattere una porta. Quando vidi mio padre venire verso di noi, arrabbiato con un passo svelto, mi ricordai perché ero scappata dal bar, perché stavo correndo, perché stavo per essere investita.
«Andiamo ragazzi.» Disse mio padre, superandoci. Mia zia era in fondo al corridoio, con i pugni stretti lungo i fianchi e le lacrime agli occhi. Mia madre uscì dalla stanza mettendosi accanto mia zia.
«Josh.» Urlò mia madre, circondando il collo di mia zia con il braccio. Mio padre appoggiò la mano sulla maniglia rimanendo di spalle. «Non puoi scappare, ogni qualvolta che qualcosa non ti va giù. Non puoi diventare come i tuoi genitori, che preferiscono la fama alla famiglia. Non puoi perdere la caratteristica per cui mi sono innamorata di te, ovvero: la bontà. Hai sempre perdonato tutti con facilità, certo ricostruire un rapportato non è mai stato facile. Ma la tua bontà ha sempre messo in primo luogo la felicità. Per favore, rimaniamo e conosciamo nostro cognato, perdona tua sorella.» Lo supplicò mia madre, avvicinandosi.
Non era il momento di tirare in ballo quel discorso.
«Lasciate stare, non cambierà mai.» Sbottò mia zia, venendo verso di noi. Il suo tono era fermo, nonostante le lacrime che le sgorgavano dagli occhi.
«Katherine...» Mio padre fece un passo verso di lei.
«No, tu non sai cosa si prova e forse non lo saprei mai. Sai, in questi anni ho provato ad andare avanti per me, per mio marito e per mio figlio ma non ci sono riuscita. È brutta, sai? Quella sensazione che ti opprime il petto fino a farti sentire male, fino a non farti respirare. È brutto sapere che la tua famiglia è viva ma ti ha dimenticata, è brutto sapere che innamorarsi è male, ma non tanto il fatto che mi sono innamorata, ma il fatto che mi sono innamorata di un Sanchez, importa solo di chi mi sono innamorata. Non avete mai provato a conoscerlo, a capire cosa mi ha fatto innamorare...» urlò, singhiozzò e sorrise malinconicamente ricordando qualcosa.
«Va bene così, se la tua scelta è quella di andartene potevi non venire, potevi evitare di farmi stare male di nuovo. Potevi evitare. Ora vai, esci da questa casa e continua ad odiarmi, a dimenticarmi ma soprattutto continua ad allontanarti.» Singhiozzò. Mio padre, con gli occhi lucidi, si avvicinò a mia zia, non le diede il tempo di allontanarti che la abbracciò. Mi sentivo in imbarazzo, ma evidentemente non ero l'unica. Mia madre, guardava altrove e teneva le mani dietro la schiena. Incrociò il mio sguardo e sorrise amaramente, aveva gli occhi lucidi. Il suo sorriso mi riportò ad un ricordo che non potei fare a meno di lasciare scorrere. Questo mi fece male. Un ricordo, che aveva in mano un pugnale e lo conficcò violentemente nel mio cuore.
Era inutile negarlo, lui sarà sempre presente, mi farà provare sempre quel senso di colpa fino al resto dei miei giorni. Quel senso di colpa che mi opprimeva il petto. A distogliermi dai miei pensieri, ci pensò mio padre.
«Katherine, io non sono pronto. Loro hanno fatto solo del male alla nostra famiglia, non come azienda ma come persone.» Disse mio padre.
«Preferisci perdere una sorella perché non riesci a perdonare altre persone?» Le parole uscirono da sole, guidate dalle rabbia e dalla delusione. Non potevo credere che mio padre non riuscisse a perdonare sua sorella.
«Charlotte, non sono fatti che ti riguardano.» Disse, non degnandomi neanche di uno sguardo.
«Quindi neanche il fatto che Chloe sia viva mi riguarda, giusto? Per questo non ne hai parlato con noi, giusto?» Chiesi ironicamente, mio padre si girò di scatto verso di me, mia madre si coprì la bocca con la mano.
«Cosa stai dicendo?» Chiese mio padre scandendo ogni singola parola.
«Sto dicendo che tu ci nascondi molte cose, non solo il segreto della zia e della famiglia, ma anche segreti che riguardano noi. Sto dicendo che non sei sincero con noi, noi i tuoi figli, la tua famiglia.» Precisai.
«Non ve ne ho parlato perché non c'era niente di sicuro.» Si giustificò mio padre mettendo una mani in tasca.
"Niente di sicuro, papà? Ci sono le prove, e anche molte, cosa ti serve per essere sicuro?" Si intromise Brandon, che prontamente prese la mia mano e la strinse nella sua. Forse per rassicurarmi.
Non riuscii a guardare mio padre negli occhi, ero ferita, così guardai altrove: davanti a me. Non avevo visto lo specchio appeso al muro, rifletteva solo la parte superiore del mio corpo. I miei capelli castani scuri erano leggermente goffi, questa mattina erano lisci ma non avendo passato la piastra nel modo giusto erano diventati goffi, i miei occhi azzurri erano messi in risalto dal mascara che avevo messo.
«Ne riparleremo a casa.» Tagliò corto mio padre, con tono autoritario. Io continuai a guardare il mio riflesso, sembravo tranquilla, con i miei occhi ingenui, il mio viso dai lineamenti dolci ma nello stesso tempo duri, con il mio naso arrosato dal freddo e le mie labbra screpolate, sembrava che dentro di me non stessi lontano contro qualcosa.
«Spero che quel "ne riparleremo a casa" non si prolunghi per molto.» Disse Aaron, quasi in un sussurro.
Spostai lo sguardo su mia madre, che aveva la bocca serrata e lo sguardo fisso su mio padre.
«Mamma.» La chiamai, attirai non solo la sua attenzione ma di tutti i presenti.
«Tu sapevi tutto? Sapevi della zia, di Chloe e di tuo nipote?» Chiesi incastrando le nostre iridi.
Fece un respiro profondo. «Charlotte...»Iniziò, dal tono che aveva usato capii la sua risposta e sapevo che avrebbe aggiunto altro, ma fu interrotta da mio padre.
«Andiamo.» Sbottò mio padre.
«Stava parlando la mamma comunque.» Disse Aaron, indicando mia madre.
«Continuerà a parlare ma non qui.» Obbiettò, si diresse verso la porta e la aprì non girandosi neanche una volta a guardare la zia, che aveva gli occhi chiusi e le labbra serrate, mio padre sospirò ed uscì di casa.
«Aaron, Brandon prendete le valigie.» Disse mio padre di spalle.
«Non stai provando neanche ad aggiustare il rapporto.» Disse mia zia, delusa.
«Come hai detto tu: non dovevo venire.» Disse mio padre sempre di spalle.
Mia zia aprì lentamente le palpebre, aveva gli occhi lucidi e rossi, guardò me e i miei fratelli.
«Seguite sempre il vostro cuore.» Sorrise dolcemente. «L'aspetto fisico, il passato, la situazione economica, il cognome, il carattere non conta. Perché l'amore cambia, l'amore ti rende migliore, ti distrugge a volte ma ti rende forte, ti tende la mano e ti rialza. Credetemi, l'amore aiuta. È inutile dire che nessuno ama perché ognuno di noi ha la traccia dell'amore dentro, basta semplicemente riuscire a spolverala e usarla nel modo giusto.» Ammiravo il suo coraggio, ammiravo lei come persona, ammiravo mia zia perché nonostante tutto non si pentiva di niente, anzi, era felice con la sua famiglia.
Mia madre sorrise malinconicamente per poi uscire seguita da Aaron e Brandon, dopo aver preso le cinque valigie. Mia zia aggrottò le sopracciglia vedendomi ferma a guardarla.
«Anche se questo implica rimanere sola?» Chiesi, forse il suo coraggio non era altro che una maschera, forse non era dietro quel sorriso dolce c'era qualcosa che tentava di nascondere, insomma i suoi occhi parlavano da soli. Stava male per colpa di mio padre.
«Sai che ti dico? Si anche se questo implica rimanere sola. Nella vita ci sono anche le delusioni, non è tutta rose e fiori.» Disse convinta, alzando il tono di voce.
«L'ho imparato a mie spese.» Dissi duramente, mia zia aggrottò le sopracciglia ma non aggiunsi altro, mi girai e mi incamminai verso la porta. Mi fermai davanti la soglia di quest'ultima, girai la testa e guardai mia zia appena sopra la spalla.
«Mi dispiace per quello che ha fatto mio padre.» Dissi e mi girai per guardare mio padre, spazientito, mia madre malinconica e i miei fratelli impassibili davanti a tutto ciò, tra cui Aaron che aveva il cellulare all'orecchio. «E mi dispiace per quello che sto per fare io.» Dissi mettendo un piedi oltre la soglia.
«Charlotte, andiamo.» Sbuffò mio padre.
«Certo perché solo questo riesci a fare.» Sbottai uscendo di casa, sentii dei passi dietro di me, sentii un singhiozzo e poi la porta chiudersi.
«Andartene sempre. Non riesci a sopportare il dolore, la rabbia, l'amore, la famiglia. Solo i segreti, vero?» Chiesi arrabbiata.
«Charlotte, non fare così andiamo.» Disse dolcemente mia madre avvicinandosi.
«No, non deve andarsene papà. Dall'altra parte della porta c'è qualcuno che sta soffrendo e sta dimostrando il dolore, e in caso te ne fossi dimenticato, quel qualcuno è tua sorella.» sbottai.
«Charlotte, non fare storie, andiamo.» Ripeté mia madre ma non volli ascoltarla, incrociai le braccia al petto.
«Non mi muovo di qui.» Protestai, mio padre fece un respiro profondo.
«Basta così, sto perdendo la pazienza.» Per poco non urlò mio padre, sentii la collera nel tuo tono di voce.
«Disse urlando.» Feci un'espressione divertita.
«Charlotte.» Urlarono divertiti in coro Aaron, Brandon e mia madre.
«Va bene Charlotte, hai vinto. Non vuoi camminare? Non camminerai. Brandon...» Mio padre fece un cenno a Brandon che lo guardò accigliato. «Prendila.» Mio fratello non se lo fece ripetere due volte che si avvicinò a me, non ebbi il tempo di spostarmi che mi ritrovai a testa in giù, caricata sulla spalla di Brandon.
«Hey, scendimi.» Mi lamentai dando dei leggeri pugni sulla schiena di Brandon. Aaron davanti a me, divertito, iniziò a scattare una serie di foto.
«Senti, capisco di essere favolosa ma evita di fare tutti questi scatti. Mi sciupi.» Mentii, non ero favolosa, né quanto meno bella, forse mi avvicinavo vagamente a quello che si poteva definire decente e forse neanche quello. Bastava guardarmi allo specchio per vedere l'orrore che ero, sia dentro che fuori. Bastava guardami allo specchio per odiarmi.
«Scendimi.» Mi dimenai.
«Ecco i taxi, papà dai a noi l'indirizzo dell'albergo?» Chiese, ma notai che le valigie non le aveva prese nessuno.
«Scusate le valigie?» Urlai in modo da farmi sentire, sentivo un forte dolore alla testa stando con essa rivolta verso il basso.
«Papà le sta caricando nei taxi.» Disse Aaron, io mi preoccupai, avevo paura che tra i due tassisti, tra loro, ci fosse quello che stava per investirmi.
«Va bene, scendimi, per favore, farò la brava.» Dissi in tono supplichevole, mi faceva male la testa.
Brandon mi ascoltò ma appena misi piedi sul marciapiede, rischiai di cadere ma allungai ugualmente il collo per vedere i tassisti e, fortunatamente, nessuno dei due era quello con cui avevo avuto lo spiacevole incontro.
«Ho controllato prima io di te.» Mi sussurrò Brandon con un piccolo sorriso, che di riflesso, ricambiai.
Nello stesso momento in cui sul mio viso si formò un sorriso, il mio cellulare vibrò, lo presi e lessi un messaggio da parte di un numero che non avevo salvato tra i contatti e che, tra l'altro, era un numero privato. Ma ciò che lessi mi mise i brividi e fece scomparire il sorriso. D'istinto alzai le testa e guardai ovunque ma non vidi nessuno, lessi nuovamente il contenuto per essere certa di vederci bene e di leggere bene. Ma le parole erano lì: scritte in nero e in grassetto.
«Con che coraggio torni a sorridere?»
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