Capitolo 35: The real enemy
In un angolo, sul pavimento, con le gambe al petto, gli occhi gonfi e stanchi di piangere, fissavo il vuoto in cerca di risposte. Non provavo nulla, né rabbia, né tristezza, né senso di vendetta, neanche perdita. Nulla, ero vuota. Stanca. Distrutta. Ero sola ed ero morta. Non riuscivo a muovere un muscolo, parevo in uno stato di ibernazione da più di due ore. Da quando la consapevolezza della morte di Colton si era insinuata a me, uccidendomi. Kendall continuava a parlarmi ma la sua voce era un eco lontano, troppo lontano per risvegliarmi, troppo lontano per consolarmi. Aveva provato ad abbracciarmi ma era stato come abbracciare un cubetto di ghiaccio, mi avevano addirittura messo una coperta per riscaldarmi ma, come il riscaldamento, non aveva fatto nulla. Nulla serviva per sciogliere il ghiaccio che stava rivestendo il mio cuore, di nuovo. Non potevo sopportare anche la sua morte, non poteva avermi fatto anche questo. Non poteva. Era stata la mia migliore amica. Un urlo abbastanza forte, attirò la mia attenzione, spostai semplicemente gli occhi sulla figura che si era piazzata davanti a me. I suoi occhi verdi velati dalle lacrime che sgorgavano furiosamente dagli occhi, mi scuoteva le spalle e muoveva le labbra ma non arrivava nessun suono alle mie orecchie, i suoi capelli rossi le coprivano gli occhi per la velocità delle sue azioni, pareva che indossassi delle cuffie e non riuscissi a sentire ciò che diceva, fin quando non urlo di nuovo.
«Charlotte, per l'amor di Dio, non abbandonarci anche tu... Charlotte, mi senti?... Reagisci, porca troia, reagisci! Charlotte!... Char-». Fu interrotta da un singhiozzo.
«-Lotte». Smise di scuotermi le spalle, si accasciò davanti a me, singhiozzando, mi sentii egoista per ciò che stavo facendo e vedere Chloe in quelle condizioni mi fece stringere il cuore, mi misi in ginocchio e abbracciai il suo esile corpo. Non parlai, non fiatai, stetti ferma ad accarezzarle la schiena mentre lei stringeva la mia.
«Non abbandonarci». Continuava a ripetermi, piangendo sulla mia spalla. Ero in un cucina da quando avevo ricevuto quella telefonata e tutti gli altri si trovavano nel salone. Sbattei le palpebre, alzandomi, seguita da Chloe. Dovevo essere forte un'ultima volta. Dovevo trovare Krystal e farle pagare tutto il dolore che aveva riversato sulla mia famiglia. Dovevo farlo per me, per Colton. Ogni passo che mi avvicinava al salone, faceva aumentare la mia collera, il mio desiderio di vendetta. Avevo stretto i pugni e asciugato gli occhi. E quando giunsi nel salone, osservai tutti i volti devastati, la madre di Colton tra le braccia di mia madre, singhiozzava e teneva tra le mani una foto di suo figlio che vietai a me stessa di guardarla, non poteva essere vero. Le mie migliori amiche piangevano, notai che Gabriel e Cassandra non fossero presenti ma, probabilmente non erano ancora arrivati, constai, inoltre, che gli uomini oltre i miei fratelli non fossero lì. Chloe andò a sedersi accanto sua madre per darle conforto, Kendall si avvicinò a me, avvolgendomi in un abbraccio.
«Sono nell'ufficio di tuo padre». Mi confidò, comprendendo la mia tacita domanda. Annuii e mi allontanai, salendo frettolosamente le scale. La porta dell'ufficio era chiusa ma poco mi importava, sentivo borbottare e senza indugiare, entrai.
«Allora?». Tutti alzarono lo sguardo dalla mappa distesa sopra la scrivania, tutti eccetto mio padre. «Avete scoperto dove si trovano?». La mia voce era carica di rabbia, una rabbia che non potevo sfogare. La mia tempesta ormai si era scatenata, il vento mi reggeva in piedi, i tuoni mi davano la scarica di adrenalina e la pioggia... la pioggia erano le lacrime che non riuscivo a lasciare solcare le mie guance. Tutto ciò ero io. Una tempesta indomabile e inarrestabile, che mi stava portando all'autodistruzione.
«Si, si trovano in una parte del Bronx, ma tutto ciò ci puzza un po'. Sono riusciti a nascondersi per tanto tempo e ora si fanno localizzare tramite il cellulare? È sicuramente una trappola. Ora tornerò in ufficio per attuare un piano. Voi state qua, sarete al riparo». Spiegò zio Richard, arrotolando la mappa. Pareva che stessero aspettando me, James seguì mio zio fuori l'ufficio per poi dirigersi verso le scale, ma notai che avevano dimenticato un pezzo di carta sulla scrivania. Mio padre e Christian, che pareva aver pianto da poco, uscirono poco dopo spegnendo la luce. Io rimasi ferma, sulla soglia.
«Lottie, vieni qua». Annunciò mio padre, alle mie spalle e mi accorsi in quel momento che non aveva seguito il signor Sanchez. Mi attirò tra le sue braccia. «Mi dispiace non aver fatto abbastanza per salvarlo ma voglio salvare te, quindi non uscire, okay? Anzi scendiamo, dai». Non avevo ricambiato l'abbraccio e non me ne aveva dato il tempo, replicai dicendo che dovevo andare in bagno, infatti scese mentre io feci finta di entrare in bagno. Tornai nel suo ufficio prendendo il biglietto, sentivo l'ansia crescere e mentre leggevo l'indirizzo, la rabbia la sovrastò di nuovo, impedendomi di calmarmi e forse non lo meritavo. Non dovevo lasciarlo solo. Cacciai l'indirizzo in tasca e tornai in camera mia, prendendo le chiavi della mia auto, scesi silenziosamente le scale e mi diressi verso il garage. Realizzai che se avessi preso l'auto, mi avrebbero sentita, così decisi di chiamare un taxi, dargli l'indirizzo della via accanto casa mia, così sarei stata abbastanza lontana. Aspettai che zio Richard e James fossero andati via per mettere la felpa, che avevo preso nella mia stanza, tirare su il cappuccio e uscire, mentre camminavo sul viale, la macchina di Colton si accostò accanto a me, ebbi un tuffo nel cuore ma quando vidi Gabriel e Cassandra mi sentii morire, di nuovo.
«Dove stai andando?». Chiese Cassandra, aveva pianto, come tutti del resto e aveva una cera che mi ricordava un morto. Non potevo permettermi che mi seguissero ma neanche che andassero dagli altri.
«A cercare Colton, so dove si trova». Annunciai, con un filo di voce. Ad entrambi si illuminarono gli occhi e sorrisero.
«Dove? Ci andiamo insieme?». Propose Gabriel, ma scossi la testa.
«No, vi do l'indirizzo, io ho un taxi. Vado con quello». Diedi loro un indirizzo e gli dissi di vederci là, annuirono e partirono. Peccato che non ci saremmo mai visti lì dato che avevo dato l'indirizzo sbagliato. Mi diressi verso il taxi e quando entrai diedi il vero indirizzo al tassista, che partì praticamente subito e mentre la strada sfrecciava non potevo fare a meno che pensare a Colton, al ragazzo che amavo. Al fatto che non avrebbe mai saputo quali sentimenti provassi nei suoi confronti o quali lui provasse nei miei confronti. Non avrebbe mai realizzato il suo sogno, non avrebbe mai capito il vero senso della vita. La sua era stata troncata a diciotto anni, non me lo sarei mai perdonata. Tutto ciò era colpa mia. Non dovevo farlo entrare nella mia vita. Ogni minuto che scandiva era un colpo al cuore, ogni metro che lasciavo alle mie spalle mi avvicinavano a Krystal, ogni secondi la mia rabbia aumentava, ogni colpo al cuore mi immaginavo Colton accanto a me, ogni volta che provavo ad allungare la mano lui scompariva in una nuvola di fumo bianco, ogni volta una lacrima solcava la mia guancia e ogni volta dovevo essere forte per lui. Per noi. Abbassai il cappuccio per evitare di sembrare una ladra mentre il tassista mi lanciava un'occhiata.
«Signorina, va tutto bene?». La domanda del tassista mi fece distogliere lo sguardo dall'ennesima immagina di Colton che si dissolveva in fumo, scossi la testa scoppiando in una risata triste.
«Be' dipende i punti di vista in questo caso». Risposi, legando i miei capelli in una crocchia bassa così da poter alzare il cappuccio in seguito.
Quella sera c'era freddo e un vento capace di farmi volare via, da un lato avrei preferito lo facesse ma sapevo che non sarebbe successo, respirai lentamente e profondamente quando vidi che c'eravamo addentrati nel Bronx, evitai di gettare occhiate sulla strada e mi dispiace tanto la differenza che c'erano nei vari quartieri ma, infondo, in una grande città come in tutte le altre, c'erano sempre state questo tipo di divisioni. Ci stavamo dirigendo verso le industrie e sapevo che stavamo arrivando.
«A quest'ora questa zona è molto pericolosa, lo sa?». Replicò il tassista, alzai lo sguardo su di lui e annuii.
«Non posso farne a meno». Risposi, quando accostò. Estrassi due banconote da trenta dollari anche se sapevo che il costo sarebbe stato di meno e gliela misi in mano. «Grazie».
«Aspetti, il resto!». Alzai il cappuccio e aprii lo sportello.
«Tenga pure il resto, arrivederci». Chiusi lo sportello, stringendomi nella felpa. Il taxi partì e lo osservai con la coda dell'occhio, fin quando non sparì.
Quando alzai lo sguardo davanti il cancello che permetteva l'ingresso a quel magazzino, mi parve che i miei occhi diventassero fiamme e avrei potuto carbonizzare il cancello. Avevo lasciato il cellulare a casa, di conseguenza non potevo usufruire della torcia, dovevo farcela da sola. La catena era spezzata, ovviamente, così entrai e iniziai a camminare verso l'entrata del magazzino. Avevo paura, era senza dubbio una trappola, non c'era nessuno fuori ad aspettarmi e sapevo che fossero dentro. Il magazzino era l'unica struttura presente in quel terreno, ma c'erano alcuni rottami sparsi qua e là e prima di entrare come la paladina della giustizia, mi nascosi. Si, mi nascosi. La paura mi aveva bloccata, quel maledetto momento mi ricordavo ogni incubo che avevo fatto, quel momento mi sembrava averlo già vissuto e la storia non doveva ripetersi. Non di nuovo. Mai più doveva ripetersi.
Ora o mai più.
Uscii dal nascondiglio, prendendo un respiro profondo e mi ritrovai i ragazzi che avevano minacciato Colton la notte del nostro primo bacio. E la mia mente fu invasa dai ricordi. Il nostro primo bacio. Il rosso fece un passo avanti mentre il biondo rimase fermo.
«Ci si rivede, bambolina». Notai che possedeva un coltello nella mano destra, avanzava mentre io indietreggiavo.
«Che sfortuna, vero?». Domandai, serrando i pugni e la mascella. Sorrise maleficamente e avanzò.
«Sei nel campo del nemico. Sei in trappola, piccola». Una voce alle mie spalle mi fece frenare, ero fottuta.
«Essere in trappola era ciò che volevo». Un colpo alla testa mi fece crollare a terra, sentivo un dolore lancinante e prima che potessi rendermene conto la vista venne oscurata. Mi avevano appena messo un sacco in testa, mi alzarono con la loro forza e infine un pugno sulla guancia mi fece voltare la testa, poi un pugno alla pancia mi fece piegare in due e quando fui colpita nuovamente alla testa, persi i sensi.
Correvo. Scappavo da qualcosa che non riconoscevo, correvo fin quando non inciampai sui miei stessi passi e mi procurai una ferita sulla caviglia, il dolore era così forte che dovetti appoggiarmi alla corteccia di un albero. Che ci facevo in un bosco, di notte?
«Sai, la luna la paragono alla mia anima spenta così spenta che riflette la luce del sole, che a parer mio, la illumina per far vedere a tutti la bellezza del suo amore perduto». Una voce attirò la mia attenzione, la conoscevo sia la voce che la frase. Mi voltai per osservare tra gli alberi e vidi che davanti a me c'era un piazzale e lì c'erano Colton e una me del passato. Era un ricordo. Vidi che la me del passato annuiva e ricordavo di aver compreso il significato. «Lo so, ti porto sempre in posti rovinati, ma tu riesci a trovare la bellezza di questi posti? Io li ho sempre paragonati alle anime distrutte dal dolore, prima splendevano e poi sono stata distrutte così tanto che hanno perso tutta la loro lucentezza». La me del passato annuì e involontariamente lo feci anche io.
«La rovina è sempre data dalla troppa speranza che si da». Sussurrammo insieme io e la me del passato, quest'ultima stava giocando con un sassolino che era capitato tra le sue converse. Vidi Colton avanzare verso di lei, alzò lo sguardo e in pochi minuti si ritrovai tra le sue braccia, la prese davvero alla sprovvista infatti barcollò un po', tuttavia ricambiò immediatamente l'abbraccio. Invidiavo me stessa. La invidiavo tanto. Ricordavo che avevo lasciato che tutte le emozioni che provavo con lui, prendessero il sopravvento, facendomi tremare le gambe e portandomi a credere che avrebbero ceduto da lì a poco, infatti mi ero aggrappata alle sue spalle.
La scena cambiò velocemente, vidi Colton imprecare e avvicinarsi al tronco per dargli un ogni, l'altra me si precipitò accanto a lui. Era stato dopo che erano arrivati Cip e Ciop.
«Hey, calmo, va tutto bene». Stava dicendo l'altra me.
«No, non va tutto bene. Loro sono il mio passato, Charlotte, ti rovineranno la vita come hanno fatto con la mia». Diede un altro pugno e un altro ancora, fino a quando le sue nocche non sanguinarono a quel punto l'altra me decise che aveva sfogato abbastanza. Lo fermò e gli prese le mani, conducendolo verso la mano, si sederono sulla sella mettendo i caschi a terra, lui si sedette verso di lei. Non mi guardava negli occhi, ero come se fosse troppo stanco per tenere la testa alzata, così gliel'alzò lei.
«Colton, il passato è sempre qualcuno che decide di prendere il cellulare e chiamarti, poi sta a te decidere se rispondere o meno, altre volte, è un'ancora che ti trascina nell'acque più profonde dell'oceano, altre ancora è la strada su cui vuoi passare il resto della tua vita, altre volte è un labirinto da chi non puoi uscire. Ha diverse sembianze, ma tu sei sempre lo stesso. Per essere passato, devi essere riuscito a salire a gala, a uscire dal labirinto quindi se ci sei riuscito una volta, puoi riuscirci una seconda, una terza, una quarta volta». Mi ricordavo ancora quelle parole dette da me stessa.
«Il mio passato non è mai passato. Le cicatrici che ha lasciato non posso cancellarla, non posso dimenticarle soprattutto in momenti come questi. Momenti in cui mi sembra di rivivere gli stessi errori, nella stessa trappola. Trappola costruita da persone di cui mi fidavo. Rivivo momenti che non voglio rivivere più, perché vivono già nella mia mente come se guardassi costantemente una foto e, nonostante quest'ultima fosse sbiadita, rimarranno sempre vivi». Il suo tono di voce era così disperato che mi fece stringere il cuore, lei prese nuovamente le sue mani e le portò vicino la mia maglietta per asciugare il sangue sovrastante che sgorgava da quelle piccole ferite. «Che fai?».
«Quello di cui hai bisogno: ti curo». Sapevo che entrambe ci sentivamo terribilmente in colpa, poiché se fossi stata zitta probabilmente non avrebbe sfogato la sua collera contro quel tronco, sentii gli occhi lucidi poiché ancora una volta avevo rovinato tutto. Colton ritrasse la mano leggermente e le alzò lo sguardo, si avvicinò lentamente al mio viso e ciò fece congelare all'istante entrambe. Mi sembrava di sentire il suo tocco, di nuovo.
«Devi andartene, stai sbagliando a stare con me». Sussurrò quando fu a un centimetro dalle sue labbra, lei deglutì e si inumidì le labbra con la lingua.
«Non sarei io se facessi la cosa giusta». Disse, socchiudendo le palpebre. E poi avvenne il primo bacio. Venni trasportata violentemente in un vortice di ricordi, tutti riguardavano me e Colton. Sentii l'appellativo che mi aveva affidato implorare di svegliarmi, ma mi pareva difficile che fosse davvero reale, eppure sentii una mano afferrarmi e tirarmi fuori da quel vortice.
Una luce accecante mi spinse ad aprire gli occhi, lentamente misi a fuoco e non impiegai due secondi per capire che le mie mani fossero legati e dietro la mia schiena, la stanza era ben illuminata e piena di scatoloni, pensai di essere sola se non quando sentii nuovamente l'appellativo dato dal mio ragazzo proprio di fronte a me, alzai lo sguardo avvertendo un dolore lancinante al collo e un dolore più forte al cuore quando incontrai i suoi occhi.
«Diamante, che ti hanno fatto quei bastardi?». Provai a liberarsi ma un dolore troppo forte, ai polsi, per essere sopportato mi fece fermare.
«Pensavo fossi morto». La mia voce si inclinò e sentii ogni mio muscolo implorare aiuto, non potevo reggere quella gioia. Mi sembrava un sogno.
«Lo so ma devi sapere tante cose, non è ciò chi ci aspettavamo che fos-stanno tornando». Annunciò, sconsolato e voltandosi verso destra. Seguii dolorosamente il suo sguardo e vidi che si era spalancata la porta, entrandovi Krystal mi guardò triste e pentita.
«Charlotte...». Pronunciò il mio nome con una tristezza così vera che mi fece arrabbiare ancora di più.
«Brutta Troia, appena mi libero ti strapperò tutti i capelli, uno a uno. Ti farò soffrire, dannata». Esclamai, adirata. Stava avanzando ma iniziò ad indietreggiare.
«Non sono stata io, non sono stata io». Scoppiò a piangere, crollando sul pavimento.
«Non è vero, sei una vipera, Krystal. Una vipera. Brucia all'inferno!». Le urlai contro, reclamando tutta l'energia rimasta.
«È vero, Diamante, lei non c'entra nulla. Non è stata lei». Si intromise Colton, guardandomi pietosamente.
«Ma che cazzo stai dicendo? Ti hanno drogato?». Chiesi, indignata. Era palese che fosse stata lei.
«Amico, parli troppo». Una terza voce attirò la mia attenzione e quando lo guardai il mondo mi crollò addosso, non poteva essere vero.
«Benvenuta Charlotte, nella mia bellissima dimora. Prendervi in giro è stato facile». Annunciò, ridendo davvero divertito da ciò. Si avvicinò a me, con delle chiavi che intuii servissero per le manette che circondavano i miei polsi.
«Perché tu?». E perché mi stava liberando?
«Be' il vero nemico è sempre quello più vicino, no?». Mi venne da sputargli ma vedendo la pistola nella sua cintura, evitai. Non perché avessi paura per me ma per Colton, Krystal si era rannicchiata in un angolo e guardai il mio ragazzo, pregnante di lividi e tagli.
Mi dispiace, amore mio.
«Sei un lurido bastardo, tutti noi ci fidavamo di te!». Mi tolse le manette e mi fece alzare tenendo saldamente i miei polsi, i suoi capelli biondi gli andarono davanti gli occhi ma li potrò violentemente indietro. Il ghigno che dominava il suo viso mi fece innervosire e quando mi posizionò al centro della stanza, davanti Colton, dovetti reprimere il desiderio di liberarmi dalla sua presa.
«Ecco, ora ti spiego le regole tesoro...». Lo interruppi, guardando Krystal.
«Dov'è Noah?». La risposta non tardò ad arrivare e a gelarmi il sangue.
«Oh Noah, lui sta bene e ormai è libero. Sai, pensava che foste tutti morti. Un'esplosione». Rispose il biondo, ridendo maleficamente. «Facile prenderlo in giro, vero?». Guardò con disprezzo Krystal, che si era alzata e guardava in cagnesco Gabriel.
«Brutto bastardo». Gli saltò di sopra ma non lo fece muovere di un millimetro, poi tutto avvenne in un secondo, Gabriel estrasse la pistola e le sparò. Krystal si accasciò a terra tenendo la mano poggiata sulla pancia, per fermare la fuoriuscita di sangue, urlai. Urlai allontanandomi da Gabriel e gettandomi su Colton, constatando che i suoi polsi fossero legati da una corsa, feci per sciogliere il nodo ma fui afferrata dai capelli e trascinata via.
«Lasciala!». Urlò Colton, mentre ficcavo le mie unghia nelle mani di Gabriel. Mi lasciò, obbligandomi ad alzarmi. Quelli che mi avevano aggredito entrarono nella stanza seguiti da Cassandra che aveva il viso pregnante di lividi, anche lei una vittima. Piangeva e quando mi vide pianse ancora di più. Lanciarono, letteralmente, Cassie nella stanza e presero Krystal, ancora viva, in braccio.
«Portate questa puttana nel mio ufficio, lasciatela lì». Annuirono e portarono Krystal che lentamente perse i sensi, via. Volevo urlare ma mi ritrovai senza forze.
«Perché? Tu non sei così, perché?». Urlò Cassie, avvicinandosi al suo ragazzo, ricevette uno schiaffo abbastanza forte da farle girare la testa, si portò una mano sulla guancia e lo guardò ferita.
«Statti zitta o farai la fine di quella». Replicò, velenoso. Cassandra, ferita e tremolante, uscì a testa bassa fuori la stanza. Gabriel si occupò di me, estrasse la pistola con cui aveva colpito Krystal e fece per andarmela.
«No». Aveva ucciso la mia migliore amica con quella. «No». Non potevo fare una cosa del genere. «No».
«Si, tesoro. Secondo te, perché è vivo? Bene, te lo spiego subito: devi essere tu ad ucciderlo, Tesoro. O uccidi lui o la tua casa salterà in aria, decidi tu. Ah, non provare a fare la furba, sono stato chiaro? C'è un mio caro amico pronto ad ucciderti in caso non dovessi farlo e pronto a premere il pulsante a far scoppiare la bomba». L'immagine della mia famiglia nel salone di casa mi fece rabbrividire. Dovevano essersi accorti della mia assenza, mi staranno cercando. Dovevano essere fuori quella casa, no? Dovevano essere fuori.
«Non posso». Mi colpì con la pistola, facendomi cadere, di nuovo. Notai che la stanza non avesse finestre e mi preoccupai nell'annusare la puzza di gas.
«Diamante, devi. Fallo, ti prego. Uccidimi, non sarà colpa tua. Uccidimi e salverai tutti gli altri, fallo. Ti prego». Mi supplicò Colton, piangendo. Mi alzai, guardandolo, presi la pistola.
«Non posso». Risposi lentamente, guardandolo. Me la puntai alla testa e non feci in tempo a premere il grilletto che Colton si scaraventò contro di me, era riuscito a liberarsi. La pistola finì in un angolo della stanza e Colton si alzò da me per gettarsi sopra Gabriel, visibilmente scioccato. E iniziarlo a calpestare di pugni. Cercai la pistola e mi affrettai a prenderla.
«Fermi, non sparate!». Urlò Cassandra, sulla soglia della porta, contraddittoriamente tenebra un accendino in mano, aveva gli occhi lucidi e tremava. «Ho appena buttato la benzina lungo il corridoio, basta un po' di fuoco».
«Amore...». Gabriel si era alzato e si dirigeva verso la sua ragazza con le mani alzate, Cassie guardò me e Colton, poi estrasse una pistola e sparò a Gabriel, colpendolo sulla gambe.
«Scappate, questo edifico prendere fuoco tra poco. Scappate!». Urlò, io e Colton non ce lo facemmo ripetere due volte mentre Cassie accendeva l'accendino. Colton mi afferrò la mano e mentre uscivamo da quella porta notai i ragazzi che mi avevano aggredita terra, tempo che mettemmo piede fuori la porta che tutto scoppiò, fummo scaraventati a terra, persi il contatto con Colton. Mi alzai con fatica e vidi Colton inginocchiarsi accanto a me, mi afferrò il viso e mi baciò.
«Krystal». Urlai. «Krystal e Cassandra sono dentro!». Urlai, sentii buttare giù il cancello e vidi entrare diversi suv. Erano arrivati i soccorsi.
«Vado io». Urlò Colton, correndo verso l'entrata. Guardai l'edificio in fiamme, tutto si stava ripetendo. Era un loop senza fine, un dolore senza fine.
«No». Urlai, alzandomi e sentendo il mio nome alle mie spalle. Corsi dietro Colton che ormai, tolto la maglietta e usato per respirare meglio si era addentrato dentro l'edificio in fiamme, lo seguii a ruota, pentendomene immediatamente, imboccai un corridoio semplicemente invaso dal fumo e iniziai a respirare irregolarmente, provai a coprirmi il naso con la felpa ma era tardi, ero troppo stanca per affrontare tutto ciò. Crollai a terra e guardandomi indietro, vidi due ombre uscire, capii che si trasse di Colton con qualcun altro, urlai il suo nome ma tutto ciò che uscii fu un nuvola di fumo, tossii. La storia si stava ripetendo, crollai definitamente sul pavimento caldo, la mia faccia si scottò e capii di aver perso. Smisi di vedere ciò che mi circondava. Sentii due braccia afferrarmi saldamente e trasportarmi fuori, era James.
Mi stavo riprendendo. Tornai a respirare quando misi piede fuori, l'unica cosa che vidi fu il corpo di Colton, mi accasciai su di lui e quando toccai il suo polso era senza battito. Era morto. Non provai niente, di nuovo. Era un dolore simile al vuoto, un dolore che prosciugava ciò che era rimasto di te, un dolore che ti uccideva. Smisi di vedere ciò che mi circondava, persi Colton, persi l'amore della mia vita, persi la ragione, persi la voce che squarciò quella notte in un urlo disperato, persi la mia stessa vita, persi tutto di nuovo. Ciò che si presentò davanti a me fu una luce accecante. Persi anche il buio.
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