Capitolo 3: Question of looks
"È questione di sguardi"
Una volta avevo letto questa frase, be' in quel momento mi sembrava l'unica frase che potesse descriverlo. Tuttavia, ero sempre stata del parere che gli sguardi fossero frasi, che gli sguardi avessero un linguaggio proprio, unico, raro, un linguaggio che non si poteva studiare, tantomeno trovare nei libri. A volte non era neanche comprensibile, proprio come il linguaggio del cuore, dell'anima e della mente. A volte era... personale. Gli sguardi erano silenziosi e proprio il silenzio li rendeva perfetti. Ovviamente tra gli sguardi di una donna e di un uomo non c'erano paragoni. L'uomo riusciva a fare capire il proprio stato d'animo attraverso gli occhi, ma la donna riusciva a camuffare la tristezza con la rabbia, non era sincera era vero, ma come avevano cercato di uccidere lei con i fatti, lei li uccideva attraverso gli sguardi.
Gli sguardi erano intensi.
C'era un silenzio abbastanza imbarazzante, la zia ci fece accomodare in assoluto silenzio, nel salotto. Pensavo che la casa avesse uno stile rustico, ma sbagliavo. Era tutto elegante e soft. Il salotto era grande, un caminetto acceso rendeva l'aria più calda e dava alla casa, insieme alle decorazioni che la ornavano, l'aria natalizia. Un albero bianco, alto, grande, luminoso e abbastanza sfarzoso riempiva un angolo della salone, accanto al camino, di fronte un divano Bordeaux di pelle. Accanto ad esso, c'erano altre due poltroncine del medesimo colore da entrambi i lati. Le pareti erano bianche e il pavimento era un parquet, oltre il camino, in cui sopra c'erano tre calze, l'albero e i divani c'era anche una televisione davanti essi e altri mobili che fungevano o per riempire i spazi vuoti o semplicemente per ogni evenienza. Il silenzio, lo amavo, ma quella volta! Quella volta mi dava sui nervi. Mia zia ci fece segno di sederci. I miei si accomodarono in imbarazzo, io scossi la testa in segno di disapprovazione.
«Avete presente i cimiteri? Luoghi silenziosi che mettono i brividi? Lì c'è più rumore di qui». pensai ad alta voce, mi ignorarono. Mio padre si schiarì la voce guardando mia zia.
«Katherine». Iniziò ma si fermò, portandosi due dita sopra le labbra e le strusciò in forma circolare. Scoppiai a ridere, ma ridere fino a sedermi sul pavimento, non riuscivo neanche a camminare. Le lacrime sgorgavano dei miei occhi. Non reggevo questo silenzio imbarazzanti perché li trovavo divertenti. Mi chiedevo se bastasse solo un nome o una persona per mettere in imbarazzo qualcuno. Mi dispiaceva per mia zia, mi aveva appena visto e aveva già conosciuto la mia risata, simile a quella di capra, sempre se le capre ridevano.
Continuai a ridere per altri secondi, sentivo lo sguardo scioccato di tutti quanti su di me ma non potevo farci niente, fino a quando un'altra risata si unii a me, era nuova, non l'avevo mai sentita. Mi bastò fare due più due per capire che si trattava di zia Katherine. Poco dopo si unì la risata di Brandon, seguita da quella di Aaron. O ridevano perché ero seduta a terra o per la mia risata.
«Basta ora, stiamo affrontando un argomento importante». Sbottò mio padre, alzandosi e lanciandomi sguardi assassini. Mi asciugai gli occhi, odiavo il suo tono severo.
«Se quello che stavi facendo tu lo definisci: affrontare i problemi. Be' allora devo chiarirti un po' le idee». dissi alzandomi, mi ricomposi.
«Oh Josh non cambi proprio mai, eh?». Mia zia si asciugò le lacrime, si alzò e si avvicinò a me.
«Katherine sono venuto a parlarti, mia figlia non capisce quando arriva il momento di fare silenzio, ti chiedo scusa da parte sua, ma ora dobbiamo seriamente parlare». spiegò mio padre alzandosi. Mia zia era accanto a me, fui sorpresa quando mi cinse le spalle con il suo braccio.
« Perché dovresti chiedere scusa per mia nipote? Tra tutti gli sbagli che avete commesso te e i tuoi genitori, vai a chiedere scusa per qualcosa che non mi ha dato minimante fastidio?». Chiese, poi si girò verso di me. «È sempre stato così autoritario, pure con voi è così?». Sussurrò facendomi ridere lievemente, mi sentivo leggermente in soggezione.
"Te e i tuoi genitori" non erano fratelli?
«A volte».Sussurrai, mia zia scosse la testa con un piccolo sorriso sul volto.
«Sono anche i tuoi genitori». Disse mio padre, facendo un passo verso di noi.
«I genitori non rinnegano la loro figlia, non rifiutano il suo amore, la sua felicità, il braccio destro, non si vergognano della propria figlia, Josh...ma perché ne parlo con te?». Si allontanò da me. «Tu che sei stato sempre il preferito, quello bravo, il figlio modello. Perché dovrei parlarne con te? Te che quando me ne sono andata, mi hai voltato le spalle per sempre, anziché aiutarmi...aiutare tua sorella». Disse tranquillamente, avvicinandosi a lui.
«Perché? Perché sono tuo fratello!». Sbottò mio padre, la vena del collo gli iniziò a pulsare più velocemente.
«Non la pensavi così diciassette anni fa». Disse mia zia, passandosi una mano tra i capelli.
«Possiamo parlarne solo noi, da soli?». Chiese mio padre, sospirando.
«Non cambia niente, con o senza la tua famiglia». Disse mia zia. «Ma va bene, andiamo nello studio di mio marito. Voi se volete potete andare nel giardino, c'è un canestro, magari potete giocatore a basket sempre se vi piace».Propose mia zia, forse fu una mia impressione ma calcò la parola marito come se volesse metterlo in evidenza.
«E io che avevo portato i popcorn». Disse Aaron fingendosi dispiaciuto.
Tuttavia io e i miei fratelli annuimmo e una volta ascoltate le indicazioni ci avviammo verso il giardino. Uscimmo dal salone e andammo in fondo al corridoio, verso la cucina, entrammo e notai con un pizzico di apprezzamento che era grigia e bianca, moderna e abbastanza bella. Uscimmo dalla porta in legno bianca dalla cucina e ci ritrovammo in giardino. Era più piccolo rispetto quello di casa nostra, ma abbastanza grande da giocare a basket. Essendo a Los Angeles, non c'era la stessa temperatura fredda che c'era a New York, l'erba era curata e verde, simile a quello che c'era durante l'estate a New York. La casa era protetta da un recinto di legno, dove al centro e in fondo c'era un canestro nero e rosso. Aaron corse a prendere la palla da basket accanto il canestro e senza dare il tempo di dire «via» prese lo slancio e lanciò la palla facendo canestro. Fortuna, solo fortuna.
«Come iniziare bene la giornata». Disse prendendo nuovamente la palla, sorrise girandola tra la mani. Il suo cellulare iniziò a squillare, Aaron mise una mano in tasca ed estrasse la salvezza di tutti gli adolescenti. Sorrise leggendo qualcosa sullo schermo, pensai fosse Kendall, la sua ragazza e nonché la mia migliore amica.
«Piccola». Rispose portandosi il telefono all'orecchio, ebbi conferma della mia teoria.
«Scusa ma ero in aereo...Calmati... Aspetta, no... Ma cosa dici?». Aaron lanciò la palla a terra e si allontanò, per poco non urlava, capii che stavano litigando.
«Te lo faccio dire da Charlotte, allora». Si avvicinò a me e mi passò il cellulare, che portai all'orecchio.
«Pronto?». Risposi titubante, se mio fratello mi aveva passato Kendall al cellulare, allora era grave. Ero pronta ai suoi urli isterici.
«Charlotte, dimmi immediatamente perché quello stronzo di tuo fratello non ha risposto alle mie ultime quattro chiamate!». Allontanai di poco il cellulare, come previsto stava urlando. Alzai gli occhi al cielo prima di avvicinare nuovamente il cellulare.
«L'importante è che ha risposto alla quinta, no?». Chiesi, ero la sua migliore amica, avevo il diritto di farla innervosire di più.
«Non sei tu quella che dice che non si risponde con una domanda ad un'altra?». Urlò istericamente, mi ricordai quando non trovò la taglia del vestito che amava tanto, per poco non svenne.
«Io? Non so di cosa tu stia parlando». Alzai le spalle con nonchalance ma mentii, Brandon scosse la testa ridendo mentre Aaron incrociò la braccia al petto portandosi una mano sotto il mento sussurrando «non sei d'aiuto.»
«Charlotte!». Urlò, stanca di sentirla urlare, chiusi la chiamata. Passai il cellulare ad Aaron. «Senti, sono cazzi tuoi».
Aaron sbuffò e prese il cellulare. «Grazie dell'aiuto sorellina, ora penserà che dato che non le hai risposto alla domanda, che io non ho risposto prima appositamente alle sue chiamate». Forse Aaron era l'unico che poteva sopportarla, la sopportava nei "suoi giorni no", la sopportava quando piagnucolava perché non aveva trovato le scarpe che tanto desiderava, forse la amava. Ogni volta che litigavano stavano male entrambi, ed io e mio fratello Brandon ci ritrovavamo a lavorare in un call center tra tutte le chiamate che faceva Kendall.
«Uffa e dammi qua». Presi il cellulare di Aaron e composi il numero di Kendall, rispose subito iniziando a sbraitare, la fermai e le raccontai la verità. Mi credette, così le passai nuovamente Aaron.
Litigavano spesso, ma continuavano a stare insieme. La gelosia di Kendall, spesso e volentieri, si trasformava in possesso, le avevo fatto notare più volte questo cambiamento, ma lei si giustificava dando la colpa al passato, cioè quando sua madre occupata a controllare la gelosia era stata tradita da suo marito con la sua migliore amica. Kendall era semplicemente spaventata, aveva paura di perdere Aaron. Tuttavia pensavo che i conflitti erano un componente importante in una coppia e non necessariamente negativo, a volte l'assenza di conflitti non significava che c'era armonia. Ma, molto contraddittoriamente pensavo che i conflitti non fossero un'occasione per crescere o per avere chiarimenti, poiché ero convinta che tutto dipendeva da come iniziava un conflitto e molto spesso non iniziavano in maniera adeguata, molti intervistavano sulle tensioni e incomprensioni in maniere inadeguata.
«Che ne dici di andare a farci un giro?». Propose Brandon, alzai le spalle con nonchalance e poi guardai Aaron che sorrideva parlando al telefono.
«Il gps lo metti tu, eh». Lo avvertii, annuì e chiamò Aaron. Io e Brandon non eravamo così bravi ad orientarci, Be' io mi perdevo spesso.
«Bro', stiamo andando a fare un giro, vuoi venire?». Chiese Brandon, Aaron allontano il cellulare dall'orecchio e mise una mano sopra lo schermo.
«No, dove andate?». Aggrottò la fronte, facendo formare una ruga.
«In un posto lontano dalle urla di quella isterica». Feci un cenno verso il cellulare, Aaron strinse le palpebre.
«Divertente...» Fece un sorriso finto. «...Crik Crok». Alzò un sopracciglio.
«Non chiamarmi Crik Crok, non sono una patatina». Dovevo trovare un nomignolo per entrambi i miei fratelli, ogni due per tre, trovavano un nomignolo da affidarmi.
«Avviso la mamma, andate». Tagliò corto Aaron e si girò, riportandosi il cellulare all'orecchio.
«Allora, dove vuoi andare?». Chiese Brandon, non entrammo in casa, andammo dritto finché non uscimmo dal terreno.
«In una pasticceria, ho fame». Annunciai toccandomi la pancia.
«Possiamo andare in un bar, se vuoi fare colazione». disse, prendendo il cellulare.
«No, voglio qualcosa di dolce, in una pasticceria c'è più scelta». Misi le mani in tasca, avevo voglia di qualcosa di dolce e quando avevo voglia di qualcosa nessuno poteva opporsi. Ma non era colpa mia, ma di mia madre che quando aspettava me i miei fratelli si ingozzava di dolce, ancora però non riuscivo ad immaginarla mentre si ingozzava di dolci, era una donna che metteva l'aspettavo fisico a primo posto, ma si sa la gravidanza cambia le donne, tuttavia ero sicura che se fosse stata qui mi avrebbe lanciato occhiatacce per dirmi no.
«Eh andiamo, allora c'è una pasticceria qui vicino, sei fortunata». Disse iniziando a camminare, sbuffai ma lo seguii.
«Ho sonno». Mi lamentai, sbuffando.
«Ho fame. Perché dobbiamo camminare?». Chiesi, mio fratello scoppiò a ridere e si fermò.
«Salta su, bambina capricciosa». Si abbassò e indicò la sua schiena. Salii subito e mi aggrappai come un koala. Circondai la sua vita con le mie gambe e il suo collo con le braccia.
«Non chiamarmi bambina capricciosa e non farmi cadere, okay?». Mi appoggiai la testa sulla sua spalle, Brandon rise.
«Tieniti bene e non cadrai, scricciolo». Gli volevo un gran bene, ma faceva venire il nervoso. Inalai il suo dolce profumo, pizzicava leggermente le narici ma piano piano mi abituavo a quella fragranza.
Los Angeles era bella, le strade erano simili a quelle di New York, anche se meno trafficate. I palazzi erano altissimi, c'era tanto verde, era tutto bellissimo ovunque guardassi restavo meravigliata.
«Dobbiamo sfruttare questi giorni al meglio, dobbiamo visitare il Getty Center, Griffith Park...». Brandon non nascose il suo entusiasmo, e io che pensavo di rimanere in hotel e dormire.
«Nessun essere umano fa così». Dissi, annoiata.
«Be' io si».
«Ho detto nessun essere umano infatti, ma sai qual è l'albergo in un cui alloggeremo?». Chiesi, non vedevo l'ora di andare in hotel, già immaginavo di vedere il letto davanti a me.
«No, so quanto te». Rispose. «Ma pensi sempre a dormire?».
«Bene, quindi non sappiamo neanche come ci chiamiamo» dissi sarcasticamente, sentii Brandon ridere per poi abbassare la testa. «Comunque, penso anche a leggere, studiare e mangiare quindi penso ad altre cose».
«Questa dovrebbe essere la pasticceria...». Alzò lo sguardo e indicò il palazzo davanti a noi, ma non c'era nessuna insegna o qualcosa che faceva intendere di essere una pasticceria.
«Scusa ma come si chiama?». Chiesi scendendo dalla sua schiena, non mi sembrava giusto approfittarne.
«Valery's Bakery». rispose, presi il cellulare e cercai questa pasticceria ed ovviamente la sfortuna era sempre dalla nostra parte.
«Ha chiuso due settimane fa». alzai scocciata lo sguardo dal cellulare, guardando male Brandon.
«Hey, ma io che che posso farci?!».!Alzò le mani in segno di resa. Guardai altrove e vidi una libreria dall'altra parte della strada.
«Andiamo lì, per favore». Mi aggrappai al braccio di Brandon e indicai la libreria di fronte.
«Cosa devi andare a fare lì?». Chiese scocciato.
«Vado a contare quanti commessi lavorano lì, sai così mi passo il tempo». Ironizzai, annuendo.
«Charlotte, possiamo parlare prima?». Chiese prendendo la mia mano.
«Non lo stiamo facendo?». Chiesi sarcasticamente, ma con tanta ansia dentro di me.
«Seriamente». Aggiunse, annuii, così mi feci guidare da Brandon. Andammo verso un bar, non ebbi il tempo di guardare il nome del bar che entrammo.
Nel momento in cui varcai la soglia della porta, fui investita dal forte odore di caffè e cornetti appena sfornati. Era sulle tonalità del marrone dal più scuro al più chiaro, accanto la porta c'erano delle vetrate che fungevano da pareti per la parte destra, accanto ad esse c'erano dei tavolini disposti verticalmente, e delle poltroncine come sedie. Un bancone padroneggiava l'ambiente, dietro di esso c'era un barista che si dava da fare per accontentare i clienti seduti che aspettavano l'ordinazione.
«Cosa preferisci?». Chiese Brandon, quando ci avvicinammo al bancone in cui sopra c'erano dei vassoio con alcuni alimenti per la colazione. Tuttavia l'ansia, ebbe la meglio, sovrastò la fame quindi optai per una semplice cioccolata calda, mentre Brandon prese un caffè.
«Cosa devi dirmi? Be' è raro che noi affrontiamo discorsi seri quindi...». Dissi sedendomi con la tazza in cui c'era la cioccolata. Io e i miei fratelli passavamo il tempo a parlare di stupidaggini, anche se quando c'era James, era tutto diverso, scherzavamo di più, parlavamo di più, eravamo più uniti. Un senso di angoscia mi oppresse il petto, abbassai lo sguardo fino a guardare le mie gambe. Meritavo questo senso di angoscia, meritavo questa punizione.
«Stai pensando a lui, vero?». La sua voce interruppe i miei pensieri, alzai lo sguardo e notai i suoi occhi tristi.
«È inevitabile non pensarlo». Dolore, altro dolore.
«Devo parlarti di lui». Un brivido percorse la mia schiena, le mie gambe iniziarono a tremare.
«Per favore, parla». Mi aggrappai con entrambe le mani al bordo del tavolo per tenermi, per avere un appoggio.
«Non se quello che hanno fatto sia stato giusto o no, ma l'importante è che l'abbia scoperto. Hai notato pure tu che papà era strano, no? Agitato, confuso quasi disorientato in questi ultimi giorni e non era per la partenza o per la rappacificazione con la zia, ma per ben altro. Ricordi che quando successe l'incendio, ci dissero che solo tre persone persero la vita tra cui nostro fratello e dispersa Chloe, dato che il corpo di quest'ultima non fu mai trovato. Non so cosa spinse papà ad indagare ma nel suo ufficio c'è un fascicolo, con allegata un sola targhetta con scritto "Chloe". Charlotte, io ho aperto quella cartella e ci sono foto di Chloe scattate da poco, quindi sta a significare che Chloe non è morta, capisci?». Spalancai la bocca e sentii gli occhi pizzicarmi, Chloe era la fidanzata di mio fratello. Era quasi una sorella. Era la mia rossa preferita.
«Ma perché papà non ci ha detto niente?». Chiesi, presa da un senso di rabbia improvvisa.
«Perché quando ci va di mezzo la sua fama tende a camuffare la verità». Rispose mettendo entrambe le braccia sopra il tavolino.
«Cosa vuoi dire?». Mi avvicinai con il busto come se fosse un segreto, e forse in parte lo era.
«Chloe non è scomparsa, è scappata. Charlotte, Chloe è incinta, aspetta un bambino, il bambino di James». Sbattei il pugno sopra il tavolino. Papà non poteva nascondermi una cosa simile. Me ne fregavo delle occhiate spaventate o curiose degli altri clienti, me ne fregavo dalla cioccolata che non ero riuscita a bere.
«Bene, ora papà mi sentirà». Mi stava privando di una gioia immensa, diventare zia, avere un ultimo ricordi di James concreto.
«Ferma». Urlò Brandon ma ero già fuori il bar, i miei piedi si muovevano velocemente uno davanti l'altro in un movimento meccanico. La rabbia offuscò la mia mente, i miei occhi, i movimenti, l'udito.
Non guardai il semaforo.
«Attenta». Urlò Brandon, ma era tardi. L'auto era diretta verso di me a tutta velocità, mi bloccai, mille brividi si impossessarono del mio corpo, la paura mi bloccò. Ero pronta all'impatto, quando due braccia mi circondarono la vita e mi portarono via, sbattei contro qualcosa di duro, forse il marciapiede, riuscii a vedere uno sguardo duro e misterioso prima di chiudere gli occhi ed essere inghiottita da qualcosa, che comunemente definivano oblio.
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