Capitolo 17: It's the moment

Riemersi dall'acqua prendendo un respiro talmente profondo che arrivai a chiedermi quanto tempo fossi rimasta là sotto, ma la verità era che non lo sapevo neanch'io. Lasciai che il mio corpo prendesse tutto l'ossigeno necessario affinché il mio petto iniziasse ad alzarsi e abbassarsi regolarmente e tutto ciò accadde pochi minuti dopo, così  lasciai che il mio corpo si immergesse nuovamente nell'acqua fino al collo, appoggiando la schiena sullo schienale scivoloso di ceramica della vasca e le braccia ai bordi. Guardando il muro davanti a me, sorrisi, sorrisi perché finalmente quella mattina a colazione c'era stata un'aria felice, io e papà avevamo scherzato tutto il tempo mentre preparavamo la colazione, ovvero dei semplici pancake, non sapevo se mia madre era stata svegliata dalle nostre risate oppure dall'odore dei dolci che lentamente si era insinuato in ogni angolo della casa, tuttavia sapevo che quando era entrata e aveva visto la farina sparsa sul pavimento, sulla mia testa e su quella di mio padre, i fornelli sporchi di impasto, dei pancake sul tavolo e i volti mortificati ma divertiti di me e mio padre, non sapeva se mettersi le mani tra i capelli oppure sorridere felice vendendo la complicità tra me e papà, ovviamente da madre che vuole sempre e solo il bene della propria famiglia, si avvicinò e ci coinvolse in un abbraccio talmente forte che pensavo che le sue braccia fossero delle corde, non le importava della farina che avevamo sui pigiami, lei era felice che avevamo chiarito e questo mi aveva resa come lei, poi quel momento magico fu interrotto da Aaron e Brandon, che entrarono in cucina, continuando una gara di erutti, cosa che aveva fatto dipingere un'espressione disgustata sul volto di mia madre, ma un'espressione divertita su quello di mio padre, tant'era che si avvicinò ai miei fratelli e gli spiegò come fare erutti più forti. Io ero davvero divertita dalla scena, ma soprattutto dall'espressione disperata di mia madre. Era il giorno di Natale e, nonostante, James non fosse fisicamente con noi sapevo che c'era, ero convinta che anche lui avrebbe voluto prendere parte a quella gara che era finita a causa di mia madre che aveva lanciato delle pezze ad ognuno dei uomini, facendo aumentare il divertimento. Sussultai quando sentii dei pugni sbattere delicatamente sulla porta, intuii dal delicato tocco che si trattava di mia madre, ne ebbi conferma quando parlò.

«Tesoro, appena esci dobbiamo parlare.» Ed ecco che sbuffai sonoramente, sentendo l'ansia crescere lentamente, la mia mente navigò tra una serie di motivi per cui mia madre poteva parlarmi:  1) scappatella notturna, 2) le mie avventure sul tetto, 3) il fatto che ero scappata con Colton. Pensando a quest'ultimo il mio sorriso si spense, questa sera avrei dovuto incontrarlo per organizzarci tuttavia mi sentivo tremendamente in colpa per ciò che avrei fatto due giorni dopo, volevo parlarne con qualcuno ma sapevo che se lo avessi fatto, non sarei potuta partire più, quindi preferivo rimanere in silenzio, organizzare ciò senza farmi scoprire. Sarebbero state solo due settimane, avrei telefonato i miei genitori una volta arrivata, o forse avrei inviato un solo messaggio e poi spento il cellulare per non essere rintracciata. Mi sentivo una criminale e sapevo che dopo questo, oltre la delusione dei miei genitori, oltre la verità su Chloe, oltre la prima punizione a cui sarei andata incontro, sarei cambiata, perché sentivo che quel viaggio sarebbe stato un elemento determinante nella mia vita, negativo o positivo, ma sarebbe stato determinate. Ancora non riuscivo a credere a ciò che stavo per fare, perché stavo per farlo con qualcuno che conoscevo da solo un giorno e che mi era stato detto di stargli lontano, purtroppo ero molto testarda, quando mi impedivano di fare qualcosa iniziavano a prudermi le mani talmente tanto che mi facevano innervosire e tutto ciò non terminava se non quando facevo l'opposto.

«Okay.» Urlai, uscendo dalla vasca facendo attenzione a non scivolare. Presi l'accappatoio bianco e lo avvolsi attorno al mio corpo, mi misi davanti lo specchio e presi la spazzola accanto il lavabo così da iniziare a pettinarmi i capelli, dopo ciò presi un asciugamano bianco e avvolsi i miei capelli scoppiando a ridere come sempre, perché i miei capelli avvolti in quel tessuto formavano come un vortice sopra la mia testa ma che io, stupidamente, paragonavo al corno di un unicorno e ciò mi faceva ridere, ci mancava solo che colorassi l'asciugamano, mi portai un dito sulle labbra con fare pensiero, non era una cattiva idea dipingere l'asciugamano però. Scossi la testa e, dopo aver acceso lo scaldino, presi l'intimo e lo indossai, seguito dall'accappatoio dato che preferivo vestirmi in camera. Prima di uscire dal bagno, passai un altro asciugamano a terra per asciugare il pantano che avevo fatto uscendo dalla vasca, la quale avevo svuotato immediatamente, attraversai velocemente il corridoio e la camera dei miei, andando verso la mia stanza la mi soffermai quando sentii mio padre nominare il nome di mia zia Katherine, mi accostai vicino la porta abbracciando il mio corpo.

«Katherine, ritornerò se serve, ma ci ho pensato a lungo e penso che potrei perdonare tuo marito, ma non perdonerò mai tutta la famiglia mi chiedi troppo.» Sentii dire a mio padre, curiosa più che mai, appoggiai l'orecchio sulla superficie della porta ma mi allontanai di scatto quando sentii una mano picchiettarmi sulla spalla, mi girai e vidi mia madre che mi guardava con le sopracciglia aggrottate, feci per andarmene ma mia madre mi fermò dal braccio e mi fece segno di stare in silenzio, mentre appoggiava l'orecchio sulla superficie della porta. Era sbagliato, lo sapeva, ma quello che stava accendendo dall'altra parte della porta era un miracolo. Mio padre stava davvero parlando con mia zia?

«Non è vero.» Sbottò mio padre e, da lì a poco, sentimmo un rumore talmente forte che fece sussultare entrambe, intuii che mio padre avesse sbattuto una mano sulla scrivania. «Non posso, ciò mi hanno portato via era troppo importante. Non sto ripetendo lo stesso errore, non sto diventando come mamma e papà, smettila di dire così.» Urlò e immaginai la vena del suo collo pulsare. «Mio figlio è morto, ricordalo, quello era tuo nipote. Non sei venuta al suo funerale ma l'ho capito, non sei mai venuta a casa mia per vedere i tuoi nipoti perché sei invidiosa, invidiosa di ciò che ho costruito e l'invidia non è una caratteristica degli Hernandez sono stati quei pezzenti a trasformarti e a portarmi via ciò che mi è più caro, per questo non voglio perdonarli perché non lo meritano. Invece di capire solo loro, inizia a capire anche me.» Detto questo, non sentimmo più nulla, se non dei passi, ma non facemmo in tempo a darcela a gambe che si spalancò la porta.

«Quindi ora ti do questa crema per il viso, te lo rende liscissimo.» Fortunatamente mia madre aveva sempre qualcosa in mente, mio padre ci guardò con le sopracciglia aggrottate. «Tutto bene?» Chiese mia madre a mio padre, come se si fosse accorta della sua presenza solo ora. Io girai i tacchi e camminai velocemente verso camera mia, prima di tutto perché sentivo freddo poi perché mi scocciava stare in piedi. Entrai in camera mia e chiusi la finestra abbassando la serranda, fino a rimanere completamente al buio in camera, così accessi la luce. Entrai nel mia cabina armadio e pensai a cosa mettermi, sapevo perfettamente che saremmo rimasti a casa dato che quest'anno i miei nonni materni e paterni avevano deciso di andare in vacanza ai Caraibi tutti insieme, saremmo stati solo noi. Presi una felpa bordeaux larga e dei jeans neri strappati all'altezza del ginocchio, mi tolsi l'accappatoio e l'asciugamano che aveva asciugato parzialmente i capelli e lo misi sopra il bancone, mi vestii velocemente, così dopo essermi truccata con un filo di matita e aver applicato il mascara, asciugai i capelli ed essendo diventati una massa indescrivibile ma io troppo stanca per passare la piastra, decidi di legarli in una crocchia che feci di tutto per farla risultare decente. Quando presi un libro, che dovevo iniziare a leggere tre mesi prima, e mi distesi sul letto entrò mia madre senza nemmeno preoccuparsi di bussare.

«Dovevamo parlare.» Disse, facendomi sbattere una mano sulla fronte, mi misi a sedere e le feci segno di sedersi accanto a me.

«L'avevo dimenticato.» Mi giustificai, ed era vero avevo pensato a cosa fare dopo aver asciugato i capelli. Notai solo quando si sedette accanto a me che aveva le mani dietro la schiena perché nascondeva qualcosa.

«Solo perché capisco il motivo per cui siete usciti si notte, non voglio parlarne più, tranne il fatto che io e papà vogliamo togliere la corda che legata al ramo così che tu non cade in tentazione e salga là sopra, non voglio neanche parlare del fatto che tu sia andata con Colton, bensì voglio regalarti una cosa, in realtà è un regalo di tuo fratello che avrebbe dovuto darti prima, ho ripulito camera sua e ho trovato questo scatolina.» Disse, mostrandomi le mani con le quali teneva una scatolina lunga bordeaux e il filo di raso che formava un fiocco nero, spalancai leggermente la bocca e con le mani tremanti presi la scatolina, stringendola al petto e chiudendo le palpebre. Mia madre mi accarezzò la guancia e sentii che uscì dalla stanza, lasciandomi sola. Aprii nuovamente le palpebre e guardai ciò che stringevo tra le mani, lentamente sciolsi il fiocco e aprii la scatolina trovandoci dentro una collana d'argento la quale aveva un ciondolo rotondo che mi faceva ricordare le onde, era lucido e mi permetteva di specchiarmi tuttavia notai che attorno la circonferenza c'erano delle onde e ciò mi fece sorridere, mentre passavo una mano sul ciondolo notai che il era spesso e che c'era un piccolissimo pulsante di lato, lo premetti e si aprì lentamente come un album da disegno rivelando una piccolissima foto, la stessa che c'era nel salone: il giorno in cui sono nata. Commossa, strinsi il ciondolo al mio petto talmente forte che temetti di averla rotta, invece quando la guardai era ancora sana e solo in quel momento notai che dall'altra parte della foto c'erano incisi delle lettere: bluster.
Il nomignolo che mi aveva affidato quando eravamo molto piccoli e da allora non aveva smesso di chiamarmi in quel modo. Guardando la collana constatai che era troppo preziosa affinché la indossassi io, non meritavo quel regalo, l'avrei distrutta ed era l'ultimo regalo di James non potevo permettere accadesse, per questo motivo la rimisi a posto e chiusi la scatolina, mettendola sopra il comodino, solo quando mi guardai allo specchio notai il mio sguardo vuoto e distrutto, così tanto che neanche il trucco era riuscito a celarlo. Chiusi gli occhi e quando li riaprii, mi alzai e mi avvicinai allo specchio, guardai il mio riflesso e fu come guardare un'altra persona, non ero io, non mi sentivo me stessa e forse non c'era sensazione più brutta.

Mi sentivo in dovere di ringraziare mia madre, forse per questo motivo uscii di corsa dalla stanza e scesi le scale, entrando in cucina mi precipitai tra le braccia di mia madre, la quale mi accolse amorevolmente dandomi un bacio sulla testa.

«Grazie mamma.» Dissi, con la testa nell'incavo del suo collo, profumava di rose e amavo quel profumo.

«Di nulla amore mio.» Mi diede un bacio sulla testa e quel momento fu interrotto da Aaron.

«Ma oggi è la giornata degli abbracci? O Charlotte sta cercando di arruffianare i nostri genitori?» Esclamò, io e mia madre ci staccammo e vedemmo Aaron in tutta la sua bellezza con una camicia bianca e i jeans blu mentre accanto a lui c'era Brandon con una semplice maglietta nera che tracciava i lineamenti dei suoi muscoli e i jeans anche essi neri.

«Oggi è Natale, maiale.» Disse Brandon, dandogli un ceffone sulla nuca, scoppiai a ridere e notai mia madre scuotere la testa.

«Furetto, auguri.» Disse Aaron venendo verso di me, con le braccia aperte, gli alzai il medio ricevendo un leggero ceffone sul braccio da parte di mia madre.

Dovevo assolutamente ricordarmelo: trovare un soprannome a loro.

«Non sono un furetto.» Esclamai, incrociando le braccia al petto, mettendo il broncio, in quel momento Brandon sorpassò Aaron e si avvicinò a me stritolandomi le guance.

«È uno scricciolo.» Sbuffai sonoramente e tolsi le sue mani dal mio viso, alzando gli occhi al cielo.

«E sapete cosa siete voi due? L'essere peggiore al mondo, è orribile esserlo, proprio orribile orribile, sapete come viene definito?» Chiesi, cercando di trattenere le risate.

«No, come viene definito?» Chiese Aaron abbassando le braccia, nel frattempo suonò il campanello.

«Uomo.» Risposi, superandoli per dirigermi alla porta, lasciando alle spalle la risata di mia madre, aprii la porta e il freddo pungente che mi investii immediatamente su subito sostituito da un corpo che si buttò su di me facendomi perdere l'equilibrio e cadere con il sedere per terra, riconobbi dall'odore di vaniglia che si trattava di Kendall, ne ebbi conferma quando vidi la chioma rossa e infine incontrai i suoi occhi.

«Buon Nataleee!» Urlò euforicamente, come se fosse a quattro km di distanza da me, se prima non sentivo bene, ora dovevo urgentemente fare una visita, il mio timpano era sicuramente danneggiato.

«Era buono prima che arrivassi tu.» Dissi divertita, anche se la abbracciai, mi diede una manata sullo stesso braccio su cui l'avevo data mia madre e si alzò.

«Ora diventerà super meraviglioso.» Esclamò, solo quando saltò in braccio a mio fratello che era comparso alle mie spalle, notai che sulla soglia c'erano la madre di Kendall, il padre di Chanel e lei, che entrò per darmi una mano per alzarmi. Mi abbracciò più delicatamente rispetto quel rinoceronte di Kendall, mentre mi massaggiavo il sedere che mi faceva tanto male. In quel momento giunse Brandon che baciò la sua ragazza, giunsero anche i miei genitori che salutarono i nuovi arrivati e solo in quel momento scoprii che si erano organizzati. Mentre stavo per chiudere la porta, potevo giurare di aver visto un signore in un impermeabile nero e un cappello nero, che era fermo sul marciapiede dall'altra parte della strada che guardava fisso la casa, ma soprattutto mi aveva guardata negli occhi, eppure quando sbriciai dalla finestra: era scomparso, in compenso sentii la tasca dal mio cellulare vibrare, quando lessi il messaggio mi rassicurai perché era Colton:

Diamante, alle 23.30 passo a prenderti. Non posso lasciarti venire sola, è troppo pericoloso.

Quando guardai i presenti nella stanza, tutta l'allegria, l'armonia, la compagnia che c'era, avrei preferito morire anziché continuare a mentire.

****

Erano le undici e venti, gli invitati erano già andati via, mia madre era sotto la doccia, mio padre nel suo studio, Aaron e Brandon guardavano una partita trasmessa dalla televisione nel salone, io stavo dormendo, o almeno così tutti credevano. Invece avevo messo un cappotto nero e una sciarpa nera, e stavo ripetendo la stessa identica cosa che avevo fatto la scorsa volta. Avevo chiuso la stanza a chiave e avevo messo la chiave nella tasca del giubbotto e silenziosamente stavo scendendo le scale, ero consapevole che nessuno sarebbe venuto a disturbarmi soprattutto perché avevo mentito dicendo che mi sentivo poco bene, lo avevo detto a Kendall che l'aveva riferito agli altri, se l'avessi detto a mia madre non mi avrebbe mai creduto, mi stavo dirigendo verso le porta della lavanderia/ garage quando sentii dei passi sulle scale, aprii lentamente la porta, che ringraziai per non aver cigolato e la chiusi con la stessa velocità alle spalle, lasciai un sospiro che non mi ero accorta di trattenere e velocemente andai verso la porta per uscire, avevo detto a Colton di non mettersi vicino casa mia, anzi di accostarmi due case prime alla mia. Per sicurezza, quando uscii dalla porta fui davvero felice che mio padre avesse dimenticato ancora una volta di mettere l'allarme, come sempre d'altronde, mi strinsi nel mio cappotto e uscii velocemente dal viale di casa mia, girando a sinistra e iniziando a correre verso la macchina nera di Colton, quando fui vicina notai l'espressione divertita, entrai in auto e lo salutai con un bacio sulla guancia.

«Hey, ma da chi scappi?» Chiese divertito, mentre mi allacciavo la cintura, lo guardai per un attimo mentre accendeva la macchina.

Scappavo dai segreti.

«Dalla mia famiglia.» Risposi, altrettanto divertita, lui partì e mi disse che mi avrebbe portata in un luogo tranquillo dove avremmo potuto organizzarci. Passammo il viaggio cantando alcune canzoni che c'erano nella radio, lui cantava, io urlavo. Avevo abbassato il finestrino e mentre lui correva lungo le strade di New York, superando il ponte di Brooklyn, avevo uscito la testa e urlato, urlato così forte da sentire i miei polmoni chiedere ossigeno e fare ridere Colton, eppure dopo aver urlato mi sentii libera, avevo sempre pensato che per essere liberi dovevamo scappare, scappare dalla gabbia di familiarità, essere padroni della propria vita, ma in quel momento capii che potevamo essere liberi anche nei piccoli gesti, nei piccoli sfoghi. Una volta superato il ponte, Colton intraprese una stradina che portava al fiume, che passava sotto il ponte, arrivammo davanti una serie di erbacce che ci privavano della vista del fiume, così scendemmo e camminammo sulla stradina che non doveva essere mai stata ristrutturata.

Tutte le strade rovinate lui le conosceva.

Colton si sedette vicino la riva ed io feci lo stesso, avvicinandomi di poco a lui, poiché quel posto mi inquietava. Guardai le macchine scorrere sopra di noi e mi persi ad osservare le luci che facevano brillare il ponte.

«Perché hai cambiato idea?» Chiese, portandosi le ginocchia al petto e osservando l'acqua scura che sembrava nera.

«Ci ho pensato, devo scoprire una cosa e solo a Miami posso scoprirla ma se per te è un problema non vengo, cioè lo capirai, neanche ci conosciamo.» Dissi, portandomi le ginocchia al petto.

«No, anzi sono felicissimo che tu venga potremo conoscerci meglio. Ti avverto, non devi pensare a nessun tipo di spesa, ci penso io a tutto che sia chiaro. Non sono maschilista che sia chiaro, ma ho messo da parte tanti soldi per questo viaggio, sono così tanti che potrebbero partecipare altre sei persone, potremmo fermarci in quattordici hotel, mangiare trenta volte al McDonald's ma avrei ancora tantissimi soldi. Tutto perché questo viaggio per me, è importantissimo e voglio che tutto sia perfetto.» Disse, girandosi per guardarmi negli occhi, annuii ma non gli avrei mai lasciato tutta la spesa sulle sue spalle, avevo raccolto anch'io un bel po' di soldi.

«Anche per me lo è. Parlarmene di più, insomma a che ora partiamo, in quante ore arriviamo.» Dissi, curiosa, avvicinandomi fino a quando le nostre spalle non si sfiorarono.

«Dopodomani, alle tre di notte passerò a prenderti. Preferisco partire di notte, ma i tuoi genitori lo sanno?» Chiese, sorrisi imbarazzata e preoccupata.

Ora gli dico di no e lui mi dice che non posso andare con lui, lo so, me lo sento.

«Neanche i miei lo sanno, ma tranquilla il senso di colpa dura poco, pensa alla bugia più grande che ti abbiano detto e non proverai neanche pena nei confronti dei tuoi genitori mentre lasci la città.» Disse, come se gli avessi risposto.

«I tuoi ormai sono abituati?» Chiesi, guardandolo negli occhi.

«Sanno che non possono tenermi tra le loro grinfie e che scappo sempre, eppure non mi impediscono niente, mi lasciano fare ciò che voglio.»

«Perché?» Chiesi, curiosa come una bambina che non vede l'ora di sapere il finale di una fiaba.

«Perché, a parer mio, se provi a tenere un leone in gabbia, non lo fai crescere nella sua vera natura. I leoni nascono per essere feroci e liberi, se li tieni in gabbia crescono indifesi e privi di libertà, non crescono neanche più come leoni. Alle volte, non puoi cambiare la natura di qualcosa solo per fare spettacolo come nel caso del leone messo in gabbia solo per far guadagnare, puoi reprimere la sua vera natura ma prima o poi verrà a galla così ferocemente che non avrei il tempo di rendertene conto, io sono come un leone, i miei sanno di ciò che ho bisogno per essere me stesso quindi mi lasciano fare questo, perché, ricordarti, un leone può essere libero quanto vuole ma prima o poi torna nel luogo in cui ha lasciato la sua leonessa, io torno da loro perché ancora non ho trovato la mia vera casa, loro si appoggiano su questo.» Meravigliata dal suo racconto, lo guardai con occhi sognanti, lui fece segno di appoggiare la testa sulla sua spalle e così feci, lui la appoggio sopra la mia e in quella posizione rimanemmo per quello che parvero ore, ad osservare le acque profonde del fiume, le stesse acque che di giorno sembrano limpide e trasmettono tranquillità, mentre di notte scure e che mettono i brividi, quelle acque che celavano tutto ciò che veniva buttato là dentro, quelle acque che riflettevano le luci del ponte di Brooklyn e che rifletteva il riflesso di me e Colton, entrambi osservavamo il nostro riflesso come se ciò che vedevamo fosse solo qualcosa di finto. Mi persi a guardare lo sguardo enigmatico di Colton, in quel momento, capii che se il destino aveva deciso di farci incontrare, capii che sarebbe stata una persona importante, importante per risolvere i miei enigmi e leggere la soluzione. La soluzione al dolore. Non sapevo perché l'avevo pensato, ma l'avevo percepito e ciò che percepivo si era sempre rivelato vero.

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