Capitolo 15: Scars
Piccole gocce d'acqua si scontravano violentemente contro il finestrino della macchina, distraendomi dall'osservare il profilo perfetto di Colton e dalla musica trasmessa dalla radio, ma soprattutto, dagli innumerevoli ricordi dolorosi. Niente aiutava in quel momento, le occhiate che ogni tanto Colton mi lanciava, le lacrime che stavo trattenendo, le gambe che tremavano, le mani che lisciavano il vestito come se volessi togliermi di dosso quelle parole che si erano attaccate come ventose su di me, tuttavia non c'era modo per reprimerle e cacciarle in un angolo remoto della mia testa, poiché risuonavano ancora e ancora, prima lievi poi più potenti, come un tuono che squarciava il cielo durante una tempesta, sovrastava tutti i suoni ed era questo l'effetto che avevano su di me quella parole, solo che non erano attaccate fisicamente a me, ma erano nel mio cuore. Quei sensi di colpa scavavano dentro l'organo, rendendolo debole, aprendo ferite che pensavo ormai fossero cicatrici, chiuse per sempre, ma non era così. Da quando James era morto, ne avevo sentire di tutti i colori, alcuni sussurravano che ero io la responsabile, altri provavano compassione nei miei confronti, altri mi guardavano con disprezzo, altri ancora indifferenti, tuttavia quelli che mi facevano più paura erano i sussurri dei compassionevoli poiché proprio tra loro c'era il signor DiLaurentis e avevo avuto conferma che più le persone sembravano capirmi, più raccoglievano informazioni per ferirmi. James era una ferita da cui sgorgava di tutto ed ero consapevole che quella ferita non sarebbe mai diventata una cicatrice, perché era troppo profonda, troppo matura, era troppo e basta. Ma soprattutto era la ferita che mi ricordava James, il mio fratellone, la mia ancora, che era affondata negli abissi, poiché la mia tempesta l'aveva travolto, l'aveva ucciso e lui era affondato.
«Non ti interessa sapere dove stiamo andando?» Chiese il ragazzo, confuso, lentamente mi girai a guardarlo constatando che nonostante non conoscessi Colton, nonostante le regole rigide dei miei genitori di non andare in macchina con sconosciuti, nonostante il mio rifiuto nel fidarmi delle persone e nonostante il mio essere antipatica in ogni momento della mia giornata, mi ero resa incoerente andando con lui, permettendogli di vedere quanto potessero, delle semplici parole, rendermi debole, anche se, a causa del mio orgoglio, non feci solcare le mie guance da nessuna lacrima, lui l'aveva capito che stavo cercando di trattenermi.
«Al dire il vero, no.» Risposi, abbozzando un sorriso che di sincero non aveva nulla, era un sorriso forzato uno di quelli che ero abituata a mostrare, come una maschera che copriva le crepe presenti sul mio viso. Colton abbozzò un sorriso divertito.
«Quindi non ti interessa neanche se ti porto in una casa e ti mostro il mio passato da serial killer, ma subito dopo mi pento e ti uccido?» chiese, fermandosi al semaforo essendo rosso, così si girò a guardarmi, le sue labbra erano strette in una linea sottile e le sue guance erano gonfie segno delle risate che stava trattenendo.
«Sottovaluti che sono una donna, che so difendermi e che so che non faresti mai una cosa simile. Tra l'altro, tu hai paura di mio fratello Aaron e credimi se non vuoi vederlo in versione Samara, lascia perdere. Se tu mi uccidessi, lui ucciderebbe te ma non subito, ti torturerebbe sei giorni, facendomi passare le pene dell'inferno, ti taglierebbe il cosino che hai dentro i pantaloni e infine il settimo giorno ti ucciderebbe.» Dissi, con un timbro di voce serio e basso, per enfatizzare l'orrore e c'ero quasi riuscita dato che Colton aveva assunto un'espressione seria e terrorizzata, almeno se non fossi scoppiata a ridere, seguita da Colton e una serie di clacson dietro di noi, dato che era scattato il verde. Colton mise il piede sull'acceleratore e partì, facendo il medio attraverso lo specchietto retrovisore a quelli dietro.
«Neanche danno il tempo, oh.» Disse Colton, divertito, smisi di ridere ma sulle mie labbra rimase un sorriso. Mi sentii terribilmente imbarazzata, perché io stessa quando scattava il verde e quelli davanti a me non partivano mi attaccavo al clacson, anche se quando qualcuno suonavano a me, la mia reazione era identica a quella di Colton con la sola differenza che uscivo direttamente la mano dal finestrino, mettendo il medio a bella vista. «Scommetto che era una donna, non avete mai pazienza voi.» Disse Colton, divertito. Gli lancia un'occhiataccia e trattenendo le risate.
«Perché noi, donne, sopportiamo già troppe cose e poi lo facciamo perché voi uomini siete stupidi, quindi potreste non capire quando dovete partire.» Dissi, divertita, Colton mi scroccò un'occhiata confusa, così aggrottai le sopracciglia.
«Il signor Pappa Lentis, non ci ha fermati.» Disse pensieroso, facendomi ridere dato il nomignolo che aveva affidato al padre di Jackson.
«Te ne sei accorto ora?» Chiesi, divertita, tuttavia ero davvero dispiaciuta per aver lasciato la festa così, i miei fratelli saranno preoccupati.
«Non è proprio questo che intendo, ci ha visto andare via, ma non è rimasto impassibile il suo volto, se ci hai fatto caso, aveva un'espressione soddisfatta come se il suo scopo era quella di mettere disguidi tra noi, l'hai notata l'espressione che aveva quando siamo entrati nella stanza? Era simile a: ora inizia il divertimento, oppure quando mio padre ha provato a provocare tuo padre? Era soddisfatto di ciò che stava per accadere e si è arrabbiato quando mia madre ha messo fine a quello scambio di battute. Era tutto un piano, altrimenti non si spiega perché non ci abbia fermati. Definiscimi un ragazzo che arriva a conclusioni affrettate se vuoi, ma persone come lui ne ho conosciute tante e non servono a niente.» Mi fece notare, nella mia mente ci furono una serie di flashback riguardo la serata, ricordavo vagamente le sue espressioni: un po' per non averci fatto caso, ma anche perché lui era stato a ferirmi e, purtroppo o fortunatamente, quando qualcuno mi feriva, iniziavo involontariamente a cancellare la sua immagine dalla mia memoria, perché una volta che qualcuno mi feriva puntando ad una delle mie debolezze, per me non esisteva più. La mia unica debolezza era James, la mia unica debolezza che mi aveva aiutata a costruire una fortezza attorno a me, l'unica ferita per cui avrei sofferto per sempre, da cui sarebbero sgorgati ricordi che non riuscivo a reprimere, l'unica ferita che non si sarebbe mai mostrata, l'unica ferita che non sarebbe mai stata una cicatrice.
«È una persona sadica.» Dissi, stringendomi l'orlo del vestito, guardando davanti a me le macchina che sfrecciavano accanto, il paesaggio che diventava privo di palazzi, ma abitato da grandi latifondi non coltivati e ricoperti di neve, la pioggia che si scontrava sul parabrezza ma era subito spazzata via dai tergicristalli, anche se lasciava una lunga scia d'acqua segno del suo passaggio, la nebbia rendeva la strada tenebrosa, tant'era che abbracciai il corpo in segno di sicurezza.
«Esattamente, hai freddo?» Chiese, guardandomi di sbieco, accennai un sorriso e scossi la testa.
«Dove stiamo andando?» Chiesi, la città ormai era alle spalle ed ero davvero curiosa di sapere dove mi stava portando. Eppure non mi preoccupai, forse ero ingenua o troppo stanca per preoccuparmi, però mi sentivo al sicuro. Non avevo nessun tipo di paura.
«Hai mai visto qualcosa che ti ha mozzato il fiato? Oltre me, ovviamente.» Chiese, ignorando la mia domanda ma accennando un sorriso.
«Poco modesto il ragazzo.» Risi, trascinandolo con me.
«Seriamente, hai mai visto un panorama mozzafiato?» Panorami mozzafiato... ad essere sincera ne avevo visti parecchi quando ero andata a Miami, le spiagge, le strade, le case là tutto era mozzafiato. «Intendo a New York.» Si precipitò a dire.
«Be' si.» Tutto era bello a New York anche l'angolo della strada o i cassonetti della spazzatura.
«Sono sicuro che quello che vedrai ti lascerà proprio senza fiato.» disse, mi girai a guardarlo con le palpebre socchiuse.
«Vuoi davvero uccidermi?» Chiesi divertita, accennò un sorriso per poi farmi un cenno verso il parabrezza, poco dopo vidi che la macchina era giunta ai piedi di una montagna, la strada era pulita dalla neve, i lati ne erano sommersi invece, il resto mi era proibito, dalla nebbia, vederlo. Colton ingranò la marcia e dopo una serie di manovre riuscì a salire, mi aggrappai al sedile sentendo la macchina traballare.
«La strada fa pena, però credimi ciò che c'è lassù è qualcosa di unico.» Disse, annuii e poco dopo iniziai a intravedere qualcosa, come i contorni di un albero, misi a fuoco la vista ma ricordai a me stessa che era la nebbia a crearmi problemi e che non stavo iniziando ad avere difficoltà a vedere bene a diciassette anni. Arrivammo in cima, la macchina si fermò su una pianura piena zeppa di neve e, triste da vedere, c'era un albero nudo vicino l'estremità della montagna. Feci per slanciarmi la cintura, ma Colton mi prese il polso, facendomi rabbrividire.
«Sta piovendo.» Mi ricordò, facendo un cenno verso il parabrezza alludendo al cielo. Non pensai al fatto che mi sarei potuta bagnare, perché se c'era una cosa che amavo fare era stare sotto la pioggia ma capivo che poi sarei dovuta rientrare e di bagnare quei meravigliosi sedili di pelle, non mi andava proprio.
«Mmh già.» Dissi, togliendo la mano dalla cintura e, di conseguenza, togliere la mano di Colton attorno al mio polso.
«Guarda davanti a te.» Disse dolcemente, guardai di fronte a me: c'era l'albero e nello sfondo c'era solamente la nebbia, nient'altro. Riuscivo a distinguere alcuni contorni di grattacieli, riuscivo anche a intravedere alcuni puntini gialli, un giallo sbiadito e non acceso, era lo stesso colore che vedevo io della mia lampada, una volta accesa, quando avevo la vista offuscata dalle lacrime, quindi dedussi che erano proprio luci proveniente da appartamenti. Il panorama era davvero meraviglioso: la nebbia che copriva come una coperta la città, l'albero solitario coperto in alcune parti da neve, poteva sembrare un panorama triste, perché in parte lo era, ma io lo trovavo semplicemente meraviglioso. A rendere perfetto quel momento era la tempesta, infatti quando un tuono squarcio quel velo di nebbia e si abbatté sulla città, non potei che continuare ad ammirare tutto ciò.
«È incantevole.» Sussurrai, incapace di distogliere lo sguardo. «Come hai scoperto questa montagna?» Chiesi, curiosa, abitavo da diciassette anni a New York, ma non avevo mai sentito parlare di una montagna appena fuori la città o almeno questa in particolare.
«Quando sono arrivato qui, mi sono perso, ho sbagliato strada e sono finito alle pendici di questa montagna. Il mio cellulare non aveva campo, così decisi di puntare più in alto. Così iniziai a salire questa strada, che si vede chiaramente che non è curata, come se dato che la strada è così rovinata nessuno preferisce prenderla. Quando arrivai in cima, non c'era né la nebbia e né la tempesta, eppure rimasi incantato lo stesso, mi sedetti vicino quell'albero e credimi non mi sono mai sentito così tanto vicino alla tranquillità. Credevo di essere lì da solo cinque minuti, ma in realtà erano passate due ore, pensa che mia madre stava per avere un infarto, dato che sarei dovuto arrivare ore prima. Questo posto mi ha fatto perdere la cognizione del tempo, mi ha fatto sentire spensierato, in pace con me stesso, mi ha fatto stare bene. Ti ho portata qui perché quando ti ho vista uscire di casa, ho letto nei tuoi occhi una sofferenza che non avevo mai visto in nessuno, se non a me. Ho pensato che portandomi qui, avresti percepito le mie stesse sensazioni e che ti saresti stata bene, anche per cinque secondi.» Disse, distolsi lo sguardo dal panorama per guardarlo. Non c'erano parole per ringraziarlo, aveva fatto tutto quello per me. Mi aveva portato in un luogo in cui sperava sarei stata bene, non potevo che essergli grata. Nessuno aveva mai fatto caso al mio stato d'animo, ognuno pensava alla propria sofferenza.
«Perché?» Chiesi, con un misto di emozioni che non riuscivo a captarne il significato. Non sapevo se essere felice per questo gesto, se essere arrabbiata con me stessa per aver permesso che uno come lui riuscisse a decifrare il mio sguardo, ero triste perché non volevo si avvicinasse a me, ed ero triste perché lui sarebbe partito e sapevo che non l'avrei rivisto più. Sentii addirittura bruciare i miei occhi, emozionata da quel gesto, così deglutii e continuai a guardare il ragazzo davanti a me con un sorriso da ebete.
«Non lo so.» Distolse lo sguardo, mettendo le mani sul volante e poggiando la testa tra essa. «Non lo so perché l'ho fatto.» sussurrò. «Me lo sento che tutto ciò che sto facendo è fottutamente sbagliato perché in te scorre sangue Hernandez e in me Sanchez, so che sto sbagliando, però... l'ho fatto. Ho sbagliato ugualmente.» Le sue parole mi turbarono, si stava davvero basando su quello? Stava perdendo punti.
«Tu sai perché tra le nostre famiglia scorre brutto sangue?» Chiesi a quel punto, non si poteva stare lontani da una persona solo perché le famiglie si odiavano.
«Non so neanche questo. Però so che non ho intenzione di ascoltare i miei genitori, non ho intenzione di stare lontano da te solo perché le nostre famiglie hanno litigato tanto tempo fa e tanto meno mi farò comandare a bacchetta da mio padre. Ormai ho diciotto anni, in Italia risulto già maggiorenne, quindi potrei trasferirmi lì e fregarmene di tutto il resto.» Rispose alzando la testa e guardandomi negli occhi.
«Infondo tra tre giorni andrai a Miami, quindi non dovrai dare troppo peso a questo problema.» Dissi, sospirando, ma subito dopo le mie labbra si piegarono in un piccolo sorriso.
«Non ho intenzione di stare lontano da te.»
Per una volta, la mia mente mi ricordava parole che mi avevano stampato un sorriso felice.
«Almeno che tu non voglia venire con me.» Disse, sorridendo, strabuzzai gli occhi sentendo quelle parole.
Ma è impazzito?
«Stai scherzando? Non ci conosciamo! Poi come tornerai qua? Tra due settimane inizia la scuola e insomma non posso andare lì...» troppi ricordi tristi e malinconici mi porta quella città, ma le parole mi morirono in gola. Come potevo dirgli che era quella la città in cui era morto mio fratello senza scoppiare a piangere?
«In realtà, starei via quasi due settimane poi dovrei ritornare qua. Mio padre deve stare a New York per cinque o sei mesi, io starò qui con la mia famiglia in questo lasso di tempo, per evitare di rimanere a casa solo...» avevo la sensazione che non mi stava dicendo tutta la verità, come se si stesse aggrappando ad una banale scusa per evitare quella vera. Eppure annuii.
«Non posso.» Dissi, come avrei spiegato a tutti questa mia scappatella a Miami? Come avrei pagato il viaggio? Okay, avevo parecchi risparmi da parte, però i miei fratelli non potevo lasciarli soli. Non in quel momento che avevo informazioni su come trovare Chloe.
«Potresti anche prenderlo come un periodo di pausa, riflettere su tutto, riprenderti dal dolore che porti dentro. Non scapperesti dai problemi, ma gli daresti una tregua per poi risolverli.» Disse, ma io scossi la testa. Per quanto l'idea di andare con lui mi entusiasmasse tantissimo e mi rendeva felice, non potevo. Non potevo abbandonare tutto. Non di nuovo. Colton provò ad aprire bocca, ma fu interrotto dallo squillo di un cellulare, capii immediatamente che non era il mio poiché l'avevo dimenticato da "Pappa Lentis", infatti Colton estrasse il suo cellulare dalla tasca della giacca, aggrottò le sopracciglia ma rispose, o almeno ci provò.
«Pron-» non riuscì a finire che inizia a sentire delle urla, capii che era Aaron, gli strappai il telefono dalle mani.
«-onzo, hai rapito mia sorella! Giuro che appena ti vedo, ti faccio fuori. Ti avevo avvertito di non toccare mia sorella, neanche con un dito ma tu che cazzo fai? Decidi di portarla fuori. Addirittura spingendola. Come cazzo ti permetti? Hai quasi aggredito il signor DiLaurentis.» Fui sopraffatta dall'ira. Aveva ragione Colton, aveva architettato tutto.
«Aaron, intanto ti calmi. Non so che cosa ti ha detto quella specie di persone che si trova lì, ma di quello che hai detto neanche una parola è vero. Sono andata io via perché quella testa di merda ha detto che se James è morto, la colpa è mia, okay? Quindi ora lo stronzo non è Colton, ma siete tutti voi che avete preferito ascoltare una sola campana per aggredire verbalmente il ragazzo al mio fianco, il quale mi ha aiutato ad andare via prima che prendessi a pugni Mr Coglions, ha fatto quello che nessuno in quella maledettissima casa avrebbe fatto, ora andate tutti a quel paese, tranne il mister Coglions altrimenti con il suo veleno annienta anche quello.» Dissi e attaccai, passando il telefono a Colton il quale aveva la bocca spalancata.
«Portami a casa.» Lo supplicai, consapevole di aver bisogno di un bel bagno caldo per placare l'ira che si era insinuata dentro di me, annebbiando i pensieri e la mia vista, facendo tremare le mie mani e le mi gambe, facendomi venire la voglia di prendere a pugni qualcuno.
«Mr Coglions, eh?»Rise Colton, girandomi e accendendo la macchina. Una risata era l'unica cosa che mi aspettavo non uscisse dalle mie labbra, eppure la risata fragorosa di Colton mi aveva contagiata a tal punto che per un paio di secondi dimenticai anche ciò che era successo.
*****
Mia madre aveva sempre avuto la fissa di mettere le chiavi di scorta sotto il tappetino della porta sul retro, convincendomi del fatto che avesse davvero in mente una scena di un'apocalisse zombi in cui doveva rifugiarsi a casa e non trovando le chiavi ne avesse già un paio davanti la porta. Una volta dentro casa, mi preoccupai di disattivare l'allarme e mi precipitai, al buio, sino in camera mia, ero così stanca che riuscii solamente a togliermi il vestito e mettermi il pigiama prima di sentire la porta d'ingresso aprirsi, dei passi e una voce tuonare nel corridoio che mi chiamava. Mio padre.
Così, consapevole che avrei ricevuto un rimprovero, feci una crocchia e scesi giù a piedi scalzi trovando solo mio padre e mia madre, la quale aveva un'espressione preoccupata, mentre l'altro era impassibile.
«Allora?» Chiesi sconciata fermandomi sulla soglia della porta, incrociando le braccia al petto.
«Allora? Ti rendi conto della gravità della situazione? Sei andata via senza avvertirci per di più con un Sanchez.» Sbraitò mio padre, togliendosi la giacca e poggiandola sul bancone nero della cucina, passandosi una mano tra i capelli, tirati ordinatamente all'indietro con il gel, frustato, scompigliandoli un po'.
«Ti ricordi cos'ha urlato DiLaurentis riguardo me?» Chiesi, calma apparentemente ma con la collera che montava dentro di me.
«Intendi la verità? Intendi che se tu non avessi avuto quell'idea stupida James sarebbe ancora qui? Intendi che tu non hai ucciso indirettamente James? Intendi che sei sempre tu la causa di ogni distruzione?»
Fu come ricevere una serie di pugni, calci, schiaffi, fu come se due mani avessero attraversato il mio petto, avessero avvolto il mio cuore e l'avessero stretto talmente forte ma farlo morire. Fu come essere travolte da una miriade di coltelli che si piantavano nel mio corpo. Indietreggia colpita da quelle parole, semplici ma che riguardava una verità che avevo cercato di celare poi combattere e poi reprimere, ma invano. Era bastato mio padre, sangue del mio stesso sangue, a riportarla a galla per la seconda volta in un giorno. A distanza di un'ora. Disprezzata, delusa, ferita, arrabbiata, mi girai e corsi verso le scale, le lacrime iniziarono a scendere frettolosamente dagli occhi, solcando le mie guance. Le avevo trattenute abbastanza. Superai Aaron e Brandon che erano seduti sui gradini della scala, già con indosso i loro pigiami e sentii i loro passi dietro di me. Entrai nella mia stanza e non ebbi il tempo di chiudere la porta che entrarono anche loro, abbassai la testa, mortificata, vidi Brandon chiudere la porta e infine fui avvolta da quattro braccia muscolose che mi fecero sentire a casa. Scoppiai in un pianto liberatorio, con un fratello che mi accarezza la schiena mentre l'altro i capelli dolcemente. Non capii molto del resto, capii solo che avrebbero dormito con me. Mi asciugarono le lacrime e si distesero nel mio letto, sussurravano che sarei stata bene, che la colpa non era mia, che non ero la distruzione di nessuno. Ma sapevo che lo dicevano solo per consolarmi. Con i sussurri dei miei fratelli, feci spegnare i miei pensieri, feci placare la mia tempesta e mi feci abbracciare anche da Morfeo.
Durante la notte ebbi più volte la sensazione di cadere nel vuoto, tuttavia la ignorai, ma alla sesta volta sobbalzai, facendo svegliare i miei fratelli. Aaron mi spiegò che era uno spasmo ipnico, causato dal fatto che quando stavamo per addormentarci e il respiro calava, il cervello avvertiva questo segno come principio di morte, così ci lanciava un segno che ci faceva svegliare momentaneamente e improvvisamente, insomma sussultare dallo spavento, alla fine della sua spiegazione Brandon guardo stranito Aaron, di solito quest'ultimo ero lo stupido del gruppo, il quale all'occhiata di Brandon scrollò le spalle e si giustificò dicendo che l'aveva letta su Wikipedia, ma infondo Aaron era bravo, non era così stupido. I miei fratelli mi rassicurano e mi fecero distendere nuovamente tra di loro, mi abbracciarono facendo sentire in gabbia anche se protetta. Tuttavia dovetti cacciare indietro le lacrime pensando alle parole del signor DiLaurentis e di mio padre, perché in quel momento non potevo permettermi di piangere, i miei fratelli ci stavano male e non volevo far soffrire anche loro, ero già apparsa debole, ero già caduta, stavo già sopravvivendo.
Dovevo farlo per i miei fratelli e mia madre, le uniche figure familiari che mi avrebbero sostenuta in ogni momento della mia vita, indipendentemente da tutto perché loro non volevo vedermi soffrire. Volevano vedermi felice, un'emozione che forse non avrei mai provato.
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