Capitolo 10: Error

Dondolavo i piedi un po' per passare il tempo, un po' per scaricare l'ansia, con le scarpe che sfioravano il pavimento scivoloso e blu. L'odore  del disinfettante si insinuò nelle mie narici, facendomi arricciare il naso, vagai con lo sguardo per la sala, osservando i miei amici. Quando entrammo in ospedale passammo dalla sala di attesa del pronto soccorso e mi vennero i brividi, era piena, per lo più da ragazzi ubriachi, non potei dimenticare la donna che si accasciò a terra poco più in là da noi, dopo aver saputo che il marito era deceduto. Mi si strinse il cuore, soprattutto quando si portò una mano all'altezza del grembo pronunciato, chiaro segno di una gravidanza e sussurrò qualcosa dolcemente ma tra le lacrime. Non potei non pensare a Chloe, dovevo trovarla, non poteva affrontare la gravidanza da sola, lei amava troppo mio fratello per tradirlo. Ero sicura: quel bambino era mio nipote e io avrei fatto di tutto per aiutarlo, avrei fatto di tutto per fargli sentire di meno, anche se sapevo che era impossibile, l'assenza del padre che io stessa gli avevo privato di avere. Dove ci trovavamo era una sala d'attesa al secondo piano del reparto: traumi celebrali. Cinque minuti prima che arrivassimo in ospedale, Colton, aveva perso i sensi. Mi preoccupai ancora di più, ma il paramedico mi rassicurò dicendo che il battito era regolare e così anche il respiro magari era svenuto perché era sotto stress, Aaron gli aveva già raccontato ciò che era successo e molto probabilmente volevano tenerlo una notte, se la situazione non fosse grave, in osservazione. Non c'era da dimenticare la piccolissima e innocente bugia, che Aaron mi faceva notare ogni volta che ne aveva la possibilità, che avevo detto. Infatti non solo avevo mentito dicendo che ero la sua ragazza, ma anche sul suo cognome. Un infermiere prima che portassero Colton per fare la tac, mi aveva chiesto una serie di dati, io dicendo che ci frequentavamo da poco, avevo ammesso che sapevo solo il cognome, in poche parole era diventato il fratello di Noah, per i medici era Colton White, non che sapessi il suo vero nome però. Anche se, dovevo ammetterlo, l'infermiere ci aveva guardati in modo strano.

In quella sala, c'eravamo solo io e i miei amici tranne Krystal che, pochi minuti fa, era dovuta tornare a casa per un'emergenza femminile, praticamente aveva avuto la bellissima idea di mettersi i jeans bianchi e quando si tolse il cappotto, dato che faceva molto caldo, tutti vedemmo che all'altezza del sedere i suoi jeans erano scarlatti, ovviamente nessuno esitò a farglielo notare, Noah aveva anche detto, divertito, che si sarebbe fatto dare la parte della registrazione in cui si vede chiaramente la faccia di Krystal tingersi di rosso per l'imbarazzo,  quasi quasi ebbi difficoltà a distinguere quale parte del corpo subisse le fuoriuscite con cui Madre natura ci puniva per un errore che, tra l'altro, non avevamo commesso noi. Noah, non volendo lasciare la sua ragazza sola, andò con lei. Era pericoloso a quest'ora e con loro andò anche Chanel, dato che solo Kendall sarebbe rimasta a dormire da me, ora era rimasto un problema: era venuti con la macchina di Noah, quindi non sapevamo come tornare a casa.

«Sono tre ore che aspettiamo, cosa stanno facendo?» Sbuffò Aaron, per l'ennesima volta in... 20 minuti. Era seduto sulla sedia dalla parte opposta alla mia.

«Tu hai una strana concezione del tempo. » affermai, convinta, erano passati venti minuti da quando eravamo qui e, tra l'altro, lui era quello che dopo neanche cinque minuti era venuto a interrompere la conversazione tra me e Colton.

«Sai, cos'è? È che odio aspettare qualcuno che non sopporto.» Disse, indifferente, scrollando le spalle.

«Ma cosa ti ha fatto?» Chiesi, confusa. L'aveva visto solo due volte, anzi la prima volta l'aveva visto da una finestra, tra l'altro.

«Hai visto come ti guarda? Oppure come ti ha chiamata? Diamante?»Rise.
«Se vuole i diamanti che vada in gioielleria.» Alzai gli occhi al soffitto. Ecco Aaron il geloso in azione.

«Sei geloso.» Non era una domanda, Brandon rideva sotto i baffi, io sbuffai esasperata.

«Sono solamente protettivo, lo è anche Brandon ma lui riesce a tenere la bocca chiusa.» Disse Aaron, guardando di sbieco Brandon.

«Se sapessi come, Charlotte, ha conosciuto Colton, terresti la bocca chiusa anche tu.» Disse Brandon guardando Aaron, diedi una gomitata al cretino accanto a me, intimandolo a non continuare, ma Aaron si sporse in avanti e socchiuse le palpebre in attesa di sapere di più. Nonostante, spesso e volentieri, non sopportassi i medici da quando non erano riusciti a salvare mio fratello, anche se non era questo il team medico che non era riuscito a rianimarlo,  fui grata al dottore sulla quarantina d'anni, biondo, occhi azzurri, un filo di barba, che indossava la tipica divisa da infermiere ma il camice da dottore, che aveva un cartella in mano e si avvicinò lentamente verso di me.

«Come sta?» Chiesi, alzandomi. Quando eravamo entrati questo dottori si era preso il caso di Colton tra le mani.

«Posso dare informazioni solo ai familiari.» Precisò serio, il suo sguardo era stanco, come tutti i medici e infermieri di un ospedale qualsiasi, tuttavia avevo sempre ammirato il loro lavoro, tra l'altro, James voleva diventare uno di loro.

«Sono la sua ragazza.» Mentii di nuovo, mi chiesi, tra me e me, perché per un ragazzo che conoscevo appena dovevo mentire

«Signorina, le informazioni da lei rilasciate sono false, tra l'altro, il ragazzo ha ammesso che non vi conosce, aggiungendo che preferirebbe che andaste via.» Se avessi visto Colton gli avrei dato un pugno, in quel momento. Però se aveva parlato, significava che stava bene, speravo.  «Non prenderò provvedimenti nonostante abbiate lasciato false informazioni, ma è meglio che andiate. Non possono vedere il paziente né parenti e né amici, voi, tra l'altro, siete sconosciuti che l'hanno aiutato in un momento di bisogno, quindi meglio se tornate a casa.» Fece per girarsi.

«Almeno sta bene? Non mi deve dire nient'altro solo questo, per favore. Abbiamo aspettato qui tanto tempo solo per sapere se stesse bene o meno, questo può anche dircelo.» Avevo bisogno di certezze.

«Sta bene.» Disse il dottore, infine girò i tacchi e si avviò nel corridoio, i suoi passi echeggiarono nel corridoio diventando sempre più lontani fino a quando non sentii più niente.

«Possiamo andare?» Sentii la felicità nella voce di Aaron che era già in piedi, mi girai lentamente e lo guardai.

«Come?» Chiesi, se aveva così tanta voglia di tornare a casa poteva portarmi in braccio.

«Con i superpoteri sai, ma che domand-» ad interrompere Aaron ci pensò una voce alle mie spalle, arrabbiata, quando mi girai volevo alzare gli occhi al cielo ma sapevo che avrei peggiorato la situazione.

«Che cosa ci fate qui?» La donna davanti a noi si mise le mani sui fianchi, enfatizzando la sua espressione nervosa e il suo tono di voce: arrabbiato.

Nessuna risposta. Mi sentivo come una bambina che era stata colta con le mani dentro un sacchetto di caramelle, che le era stato proibito di toccare. Cosa potevo dire? Qualcuno doveva averla chiamata, ma chi? Optai per l'infermiere dai lineamenti asiatici, il quale aveva preso informazioni da me per Colton, ma scacciai questa idea perché mai avrebbe chiamato mia madre? Poi mi ricordai che mia madre aveva lavorato qua dentro, quindi probabilmente l'aveva chiamata qualcuno che lavorava qui e ci conosceva. Era stata una dottoressa prima poi si era dedicata al campo della moda, non per niente abitavamo a New York, ci eravamo trasferiti qui dieci anni fa, perché mia madre era stata trasferita in questo ospedale per lavorare, mentre prima stavamo in una città della Florida.

«Andiamo.» Disse mia madre, con lo stesso tono di prima, anche se stavolta sentii l'accenno del sollievo, i suoi capelli erano raccolti in una severa e alta coda ed era struccata, indossava una tuta grigia e un cappotto nero, che aveva lasciato aperto, lasciava vedere la felpa anche essa grigia, ai piedi delle semplici scarpe da ginnastica. Era sicuramente uscita di casa in fretta e furia, mi sentii in colpa. Si girò e iniziò a camminare verso le scale, io, la mia migliore amica e i miei fratelli la seguimmo a testa bassa.

Il parcheggio era vuoto, c'erano solo qualche macchina qua e là, ma non c'era neve, ovviamente le strade ormai erano pulite. Andammo verso la macchina, mia madre camminava davanti a noi con un passo svelto. La macchina era davanti a noi, le si illuminarono i fari segno che mia madre aveva aperto da un pulsante che c'è sulla chiave, infatti tendeva la mano, con cui teneva l'oggetto sopracitato, verso la macchina. Entrò e così  facemmo anche noi, io mi misi nel sedile accanto mia madre. Ci allacciamo le cinture ma mia madre non aveva intenzione di partire. C'era freddo fuori e in macchina la temperatura era anche fredda, forse per questo la mamma  accese i riscaldamenti, inizialmente uscì aria fredda, poi iniziò a riscaldarsi.

«Cosa stavate facendo? Stavolta esigo una risposta.» Disse mia madre girandosi verso di noi. Non potevo mentite a lei, l'avrebbe capito.

«Mamma, noi...» Aaron provò a parlare ma fu interrotto, di nuovo, dalla mamma.

«Pensavate di trovare Chloe, per caso?»Chiese spazientita.
«Sentite io e papà non vi abbiamo detto nulla, perché sapevamo avreste reagito così, sapevamo che avreste sbagliato, soprattutto tu Charlotte che reagisci senza pensare. Credete di essere Sherlock Homes per caso? No, non lo siete. Non potete risolvere misteri più grandi di voi, sono stata chiara? Ci pensata mai che avete solo diciassette anni? Ci pensate che se Chloe  è scappata,  l'ha fatto per non essere trovata? Non provate a tirare fuori la storia dell'essere pessimisti perché non si chiama pessimismo, semplicemente realismo. Mi sono spiegata?» Non era cosi arrabbiata... ma chi volevo prendere in giro? Era furiosa.

Decisi di rimanere in silenzio, volevo prima comporre un discorso in maniera che lo capisse e che trasmettessi ciò che pensavo in modo chiaro, lento e calmo.

«Mamma, proprio non capisci. Ci avete tenuto all'oscuro per sei mesi, se non l'avessi scoperto io molto probabilmente non l'avremo mai scoperto. Sei sicura che Chloe non vuole essere trovata? Sei sicura che Chloe sia scappata? Te l'ha detto lei? No, non mi pare, però non mi stupirei se dicessi che l'avete incontrata date tutte le bugie che ci avete raccontato, anzi neanche quello avete fatto; ci avete tenuti direttamente all'oscuro senza mai prendere l'argomento. » disse Brandon e gli diedi il mio appoggio morale con lo sguardo.

«Credi che se avessi incontrato Chloe l'avrei lasciata andare?» Chiese mia madre e la sua voce si inclinò. «Credi che avrei lasciato ancora l'unica persona che ha in grembo qualcuno che mi leghi a mio figlio: mio nipote? È l'ultima persona che mi lega a lui.» Nessuna risposta, non risposi non perché non sapessi cosa dire ma perché non c'era niente da dire. Brandon si sentì  tirare uno schiaffo con quelle parole, notai i suoi occhi che passarono dall'essere arrabbiati all'essere feriti. «Allora siete voi che non capite.» Disse, infine mia madre, girando la chiave e lasciando il parcheggio e l'ospedale alle spalle. Noi capivamo ma come facevamo a dirlo? Tanto per quanto provassimo a spiegare le nostre teorie, dire le nostre opinioni non sarebbe servito a nulla: non ci avrebbero ascoltati, per loro se parlavamo noi non aveva importanza, rimanevano solo "bambini". Non mi girai, guardai semplicemente dallo specchietto l'ospedale diventare sempre più piccolo, fino a scomparire dalla visuale.

«Kendall dorme da noi.» Disse Aaron dopo pochi minuti.

Mia madre guardò dallo specchietto retrovisore alzando un po' il collo e notai la sorpresa nei suoi occhi, come se si fosse accorta della presenza di Kendall solo in quel momento. Volevo scoppiare a ridere ma non ne avevo il coraggio, o forse semplicemente la forza

«Kendall, mi dispiace tantissimo per quello che hai assistito, non volevo, al dire il vero non sapevo che fossi con noi. Sei sicura che vuoi venire a casa nostra? La mamma lo sa?» Disse mia madre. Quest'ultima e la madre di Kendall, Jenna, erano amiche da quando lo eravamo io e Kendall, insieme erano molto divertenti. Ma solo insieme.

«Non preoccuparti, capitano. Ah e tranquilla, lo sa tra l'altro lavora tutta la notte quindi è contenta che non stia sola. Anzi ti fa gli auguri.» Disse Kendall, che mi fece ricordare nuovamente che era la vigilia di Natale. Ormai Kendall era di casa, faceva parte della famiglia, dava del tu ai miei genitori da tanto tempo. Soprattutto da quando stava insieme ad Aaron. La mamma di Kendall era un'infermiera, lavorava tanto per non far mancare niente a sua figlia che, tra l'altro, era figlia unica. Da quando suo padre era andato via, Jenna, si era data da fare anche molto e forse troppo. L'ammirazione nei suoi confronti non aveva limiti.

«Ricambia.» Mia madre si rabbuiò per un secondo, poi tutto il dolore dai suoi occhi scomparve come un click. Come faceva a nascondere così bene ciò che provava?

La macchina sfrecciava nell'oscurità, tra il viale silenzioso, in cui ai lati c'erano parcheggiate auto di tutti i tipi, la strada era illuminata dalla luce dei lampioni e mi persi ad ammirare la neve, che scorreva veloce sotto di noi così come il resto del paesaggio. Per qualche strano motivo, viaggiare di notte, mi piaceva da impazzire, forse perché solo di notte la città mi sembrava più bella o forse semplicemente perché la notte, in sé, mi aveva sempre affascinata. In auto echeggiava un silenzio, interrotto ogni tanto da alcuni sussurri provenienti da dietro, una conversazione che riguardano i pinguini e i koala tra Aaron e Kendall. Tanto si sapeva che tra koala e pinguini avrebbero vinto i panda o gli unicorni, però evitai di dire la mia. Brandon aveva lo sguardo perso fuori il finestrino, la sua mente viaggiava per i fatti suoi così come la mia. Decisi di parlare annullando la conversazione, che di solito avevamo io e le mie migliori amiche, dietro.

«Io non capisco, hai ragione.» Mia madre distolse, per guardarmi, solo per un millesimo di secondo lo sguardo dalla strada ma tornò immediatamente a guardarla e rimase in silenzio, incoraggiandomi a continuare data la sua espressione interrogativa. «Non capisco perché voi genitori insegnate che non dobbiamo perdere mai la speranza ma quando si tratta dei fatti, voi siete i primi a prendere la scusa del realismo e non provare minimamente a cercare qualcosa o qualcuno che potrebbe far ritornare la speranza che voi avete perso. Non capisco soprattutto perché non ascoltate qualcuno, indipendente dall'età, come se non fosse una persona che stia parlando con voi. Non capisco perché dovete sempre giudicare un'azione tanto velocemente. Vuoi sapere perché eravamo in ospedale? Abbiamo aiutato un ragazzo...» mentre procedevo con la mia esposizione, la collera aumentava e di conseguenza il tono di voce, mi fermai quando vidi che eravamo già arrivati a casa mia e stava svoltando per entrare lungo il sentiero e parcheggiare la casa davanti il garage. Aveva lo sguardo fisso sulla porta basculante, la luce dei fari la illuminava in parte.

«Non ho perso la speranza.» Disse mia madre spegnando la macchina, mentre il buio avvolgeva la casa, ma nessuno accennava a scendere.

«Si, infatti. L'hai nascosta.» Dissi, sganciando la cintura. «L'hai nascosta perché non vuoi ammettere che Chloe è nascosta perché ha paura, paura di affrontare tutto questo. L'hai nascosta perché credi che così potrai far vincere papà un'altra volta. Sai, vuoi sapere perché eravamo fuori? Perché abbiamo fatto qualcosa che tu e papà non avete mai avuto il coraggio di fare: siamo andati a trovare James, perché in noi, rispetto in voi,» indicai mia madre e la casa alludendo mio padre. «la speranza regna. Ci aiuta a non abbandonare tutto.» Dissi, aprendo lo sportello. Mia madre non mi guardò negli occhi neanche un secondo, neanche quando parlò mentre stavo scendendo.

«Papà sta dormendo, fate silenzio.» Per il mio bene, decisi di fare tutto silenziosamente. Non feci caso neanche al freddo che mi travolse quando scesi dalla macchina, sentivo un formicolio nella mani che fecero aumentare il tremolio della gamba destra. Io e compagnia aspettammo mia madre davanti la porta di casa, dato che non avevamo le chiavi con noi, arrivò pochi secondi dopo. Infilò la chiave nella toppa e la girò nella serratura, non le diedi il tempo di togliere la chiave dalla serratura che aprii la porta ed entrai, sperai mentalmente che non mi arrivasse una manata nel retro del collo, da parte di mia madre per i miei modi sgarbati. In parte, la meritavo.

Salii le scale, anche se al buio, conoscevo casa mia era normale sapere in cui si metteva i piedi. Arrivai davanti la porta della mia stanza e provai ad abbassare la maniglia ma non si apriva, ricordai di avere la chiave della porta in una tasca del giubbotto. Misi le mani in entrambe le tasche e quando toccai qualcosa di freddo con la destra, la tirai fuori e la infilai nella serratura, girai a destra e la aprii, entrai e chiusi immediatamente la porta, o meglio provai, dato che qualcosa ci sbatté. Accesi la luce.

Sentii un gemito di dolore, mi girai strabuzzando gli occhi e aprii la porta, davanti a me c'era una Kendall con la mano sul naso e la testa all'indietro.

«Oddio scusa.» Mi portai una mano accostata alla bocca.

«Cavolo, ma le porte piano si devono chiudere.» Si lamentò entrando nella mia stanza, mi preoccupai ad aprire il più possibile la porta e farla sedere sul letto.

«Ti fa male?» Chiesi, aiutandola a sedersi sul bordo del letto, stette con la testa all'indietro e la mano sul naso, provai a toccarle il naso e trasalì.

«Si, per mille balene.» Nonostante cercasse di non dire parole, imprecò sottovoce. Alzai gli occhi al soffitto. «Prima eviti che mi schianti contro un palo e poi mi sbatti la porta in faccia, che migliore amica sei?» Si lamentò, distendendosi sul letto e allargando le braccia. «Tranquilla sta passando, sai è stato il duro colpo.» disse e scoppiammo a ridere dopo la sua affermazione.

«Vuoi che vada a prendere del ghiaccio?» Avevo paura che le gonfiasse.

«No, prendimi il pigiama. L'ho messo nel cassetto in cui ci sono i tuoi pigiami.» Ordinò chiudendo le palpebre. Non era la prima volta che veniva a casa mia per dormire, lei aveva lasciato qui un pigiama mentre io da lei uno dei miei, così anche all'improvviso potevamo organizzarmi e dormire dall'altra. Per sdebitarmi, andai a prendere il suo pigiama mentre il mio era sopra il termosifone: caldo caldo. Una volta cambiate, mettemmo i vestiti in un angolo della stanza e ci buttammo sul letto. Il pigiama di Kendall era in flanella, aveva i pantaloni rosa Tiffany e la maglietta bianca con un cuore rosa al centro. Semplice e teneva pure caldo.

«Vado a dare la buonanotte al mio amore, magari ancora si sta cambiando.» Si alzò dal letto e alzò ripetutamente le sopracciglia, infine come una spia uscì dalla stanza in punte di piedi. I miei genitori avevano sempre detto che se doveva dormire in questa casa doveva dormire nella mia stanza: ragazzi con ragazzi e ragazze con ragazze. Anche se, alle volte, Kendall sgattaiolava da Aaron. Come biasimarla. Scossi la testa, divertita per poi alzarmi e spostare le coperte, mi infilai dentro e mi distesi sulla schiena, ricordarmi che dovevo spegnere la luce, sbuffai ma pochi minuti dopo rientrò Kendall in camera.

«Spegni la luce e chiudi la porta.» Ordinai, prima che si buttasse nel letto. Fece come avevo detto e infine si distese accanto a me.

«Aaron stava dormendo.» Annunciò, infelice come se gliel'avessi chiesto. «Vuoi parlare o hai sonno?»

«Parliamo domani? Ora non mi va.» Chiesi girando la testa verso di lei, che mi guardava.

«Okay, ma ricordarti che per qualsiasi cosa io ci sono, buonanotte.» Si girò dal lato sinistro, dandomi le spalle. Sapevo perché Kendall voleva sempre stare girata sul fianco sinistro: voleva sempre stare dalla parte esterna, non le piaceva stare girata verso l'interno. Anche a me non piaceva, lei perché era del parere che se usciva qualcosa dal letto l'avrebbe visto, io a differenza sua perché guardavo fuori la finestra e in un certo senso attraverso quel piccolo frammetto dell'esterno, riuscivo a viaggiare con la mente.

«Buonanotte.» Mi girai dal lato opposto, e guardai la finestra, la notte incombeva e rendeva tutto meraviglioso. «Comunque sia tra pinguini e koala vincono gli unicorni.» Mi ricordai, divertita. Scoppiammo a ridere, ma io smisi pochi secondi dopo. Con il suono della risata di Kendall che echeggiava nella mie orecchie e nella mia mente: mi addormentai con il sorriso sulle labbra.

Alla fine, non c'era sensazione più bella di rendere felici le persone che volevo bene. Non c'era azione più bella di sentirsi felici anche quando mille problemi si addossavano sulle proprie spalle.

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