Capitolo 7
Oltre il paradisiaco
"Perfezione catastrofica nelle menti umane, indenni alla percezione di un misfatto o un dettaglio deturpato"
[...]
«Non credo di potercela fare... Mi sembra di morire, di essere strappato a metà da due fili che tirano e tirano nel modo più doloroso possibile... sino all'inevitabile morte del mio essere»
Erano quelle le parole che avevano rattristito lo sguardo dalla donna dagli occhiali spessi. La parvenza di serietà sulla sua maschera di ferro si era rotta per un attimo dalla pena, prima di tornare alla sua originale glacialità. Ella accavallò le gambe mentre sedeva su un masso e alzò lo sguardo per vedere il giovane seduto su un ramo, a metri d'altezza. Anche da là la sua bellezza deturpata e dannata traeva in inganno. La pelle splendeva sotto al sole rischiando di bruciarsi, nonostante non sarebbe mai stato possibile nella sua vera forma, mentre osservava il profilo degli alberi.
«Mio signore, il fatto che abbiate tenenuto duro sino ad oggi mi fa ancora una volta capire quanto forte siate. Nessuno di noi sarebbe riuscito a mantenere la calma, anzi, sono sicura che nessuno ci abbia mai provato... non ha senso rinnegare la nostra natura» la donna si alzò in piedi nei suoi pesanti stivali di pelle che, lunghi sino al ginocchio, graffiavano i polpacci e alzò le braccia, lasciando che l'altro cadesse tra esse per aiutarlo a mettersi in piedi in una nube di tessuti preziosi. Non lo guardò negli occhi, per rispetto si soffermò sulla fronte frastagliata dai capelli e tirò su lo spettro di un sorriso di incoraggiamento; era così poco abituata a farne che sembrò quasi un ghigno spento, a ritrarre il suo vero luogo di nascita. «Voglio solo che sappiate che se doveste cedere, nessuno potrebbe farvene una colpa, siete stato già molto forte, odio vedervi in pena»
«Non puoi davvero capire» la figura maschile gli dette le spalle e la sentì cadere in ginocchio; i capelli legati regalarono uno strappo nell'aria pregna di risentimento. «Ora siamo questo, non possiamo rovinare ciò che siamo riusciti a creare»
«Mi dispiace, mio signore, non era mia intenzione offendervi» il pugno premuto sul cuore pareva volerla infilzare, gli occhi fissavano la terra, dove una formica camminava indisturbata da loro. Attenta com'era colse quel sospiro e le dita si strinsero maggiormente, quasi incidendo la casacca pesante che le cingeva il busto, stretta dai diversi lacci in cuoio. I pantaloni larghi, costruiti su più strati, parvervo pungerle la pelle quando notò i piedi nudi del giovane girarsi per osservarla con la coda dell'occhio buono.
Il suo signore non disse altro, semplicemente si allontanò per rifugiarsi nel silenzio degli alberi.
«Puoi alzarti, se n'è andato» borbottò la terza persona, vestita esattamente come quella ancora in ginocchio. L'uomo di grande stazza e dai capelli biondo lunare, talmente corti da non smuoversi neanche con l'aria, smise di intagliare un pezzo di legno e se lo portò davanti agli occhi piccoli, dopo aver posato il coltellino nella terza cinghia. La sagoma di un Turten splendette sotto alle ombre degli alberi; lo passò alla donna che lo strinse e gli sedette accanto, rilasciando un po' della sua ansia « Siamo solo le sue guardie, non dovremmo intrometterci in affari così personali»
« È che...» ella passò un dito sulle curve dei denti affilati del Turten, poi sul corpo squamoso, reso ad arte da chi lo aveva intagliato in meno di un'ora: «Non l'ho mai visto così addolorato, nenanche tra le fauci del Turten»
L'uomo sbuffò una risata ironica, poi si accese una sigaretta, girando il filtro tra le dita della mano sinistra che si era abituato ad usare quando il pollice e l'indice di quella destra, erano stati tagliati via; il moncone coperto dalle garze sembrò bruciare richiamandolo al ricordo. Stettero in silenzio, ad ascoltare i passi del loro signore fermarsi davanti allo srosciare dell'acqua. Per quanto temibile quella sofferenza fosse, per quanto impattava sulla loro pelle come schiocchi di frusta, non potevano fare alcunché, essere al suo fianco era già più di ciò che potevano immaginare.
«Non avvicinatevi» il sussurro arrivò chiaro alle loro orecchie quando si misero in piedi dopo aver sentito passi sconosciuti tra l'erba morbida. Strinsero i denti: per quanto potessero essere guardie, il loro signore non era uno sprovveduto ed era un nobile combattente o non sarebbe stato ancora vivo. Decisero di allontanarsi di poco, dandogli la loro fiducia.
Il giovane si trovò prepotentemente schiacciato da una forza gravitazionale che lo spingeva a premere i piedi a terra, quasi sprofondandoli, attecchendo completamente. Gli occhi lacrimarono e le orecchie si scaldarono, allungando il loro rossore sulle gote, conferendogli un'aria che ultimamente teneva su spesso. Spine di roveto gli si conficcarono nel petto, intrecciandosi sino al ventre e gettandosi giù, lacerando le gambe sino alle caviglie. Rimase piantato con la schiena contro un albero, incatenato dalle spalle da grossi e spessi chiodi immaginari. L'epidermide si coprì di pelle d'oca che aveva la potenza di un flusso incandescente, si sentì fluttuare per quanto pesante e la gola si seccò, chiudendosi e accartocciandosi.
Era lui. Era lui. Quell'odore inconfondibile, quelle sensazioni che lo facevano essere vulnerabile, potevano essere portate da un solo e unico essere. Quelle catene che fredde lo cingevano, soffocandolo, erano portate da un solo paio di mani invisibili, le stesse che le trainavano a loro piacere con dita lunghe e spesse.
Eren ci era entrato, alla fine aveva deciso di entrare in quel bosco che per quattro anni lo aveva solo accompagnato nelle sue opere con il suo blando e impeccabile silenzio. Sprovveduto di qualsiasi cosa si era avventurato, incurante di potersi perdere. Aveva seguito quel silenzio interrotto da qualche passo leggero, segno d'animali, nulla di pericoloso però; in quella zona non c'erano gli orsi e il lupi erano nel ventre della boscaglia, di certo non a qualche metro del confine.
Era febbraio, il sole era quindi presente ma non prepotente, accarezzava la pelle senza bruciare o far sudare eppure, in quel momento, mentre scavalcò un ammasso di pietre, le gocce salate correvano giù dalla schiena appiccicando la camicia e i capelli lasciati liberi contro le tempie. Era prepotente, come se sotto i piedi vi fosse un vulcano in eruzione e non dell'erba fresca, appena accarezzata dalla brezza che avrebbe dovuto asciugarlo da quel grondante sudore ma che invece contribuiva a farglielo scorrere anche sulle labbra improvvisamente secche. Se le leccò ma la saliva inesistente contribuì ad appiccicarle tra di loro.
Fece qualche altro passo in avanti dopo aver slacciato i primi bottoni, e gli sembrò di entrare in una cellula di caldo che gli bruciò invisibilmente la pelle. Era come toccarla, con i palmi aperti rivolti davanti a lui, ansimò, rendendosi conto che più andava avanti, più era come camminare impantanato nel catrame vischioso; i piedi come zolle di cemento pesante e le ginocchia deboli come gelatina.
«Che diamime?» completamente accaldato in volto e lungo il collo, le gambe cedettero facendolo trovare in ginocchio sulla terra che gli sporcò le braghe. Le mani ancora davanti a lui, come ad arpigliarsi a quell'aria pesante incastrata tra gli alberi; si sentiva gli occhi lucidi dal bruciore, mezzi stretti dalle palpebre, mentre la camicia s'era appiccicata come una seconda pelle e un senso di tale stordimento lo avvolse, facendogli sembrare di star sognando, come a guardarsi fuori dal suo stesso corpo.
Era strano, quelle sensazioni unite e apparse dal nulla non facevano male, ma lo intorpidivano completamente, facendolo sentire sensibile persino allo sfregamento dei ciuffi d'erba; non poteva muoversi quasi come se... Delle catene d'improvviso gli avessero avvolto il petto, imprigionandolo là, quasi drogato da quel liquido che lo aveva avvolto, avvelenando l'aria. E sentì un dardo colpirlo nel basso ventre, portandolo ad alzare il volto con un gemito di sofferenza, mai provata prima. Sentiva come se la vena sul collo potesse esplodere da un momento all'altro per la prepotenza che stava cercando di avere nel non accasciarsi completamente a terra.
E poi vide qualcosa, nella cortina di lacrime acide trattenute, nebbiamente intravide balzi di chiffon sui toni dell'argento, balzare come onde sospese nell'aria appena sollevate da terra, fu come un guizzo di aria fresca che gli colò sulle guance, donandogli una tiepidezza sconcertante.
Cos'era? Cosa stava succedendo? Cos'era tutto quello?
Gli tremò la bocca e non risucì a parlare, e quando cercò di muoversi per mettersi in piedi, attratto come una calamita da quel tessuto che ancora poteva intravedere, venne bloccato da una voce camuffata.
«Fermati» fece l'ansito, colandogli nelle orecchie come il gemito di Levi aveva fatto appena il giorno prima. Una parola, sette lettere, ma così pregne di dolore che furono in grado di scavargli un buco nel petto, estorcendogli l'anima sino a stringerla e a renderla sua.
Eren, che la sua anima corrotta l'aveva scambiata per il dono della scultura, si sentì pieno di così tanto che non poteva davvero capirlo.
Deglutì. «Chi sei?» chiese, sentendo nelle narici un sentore speciale impregnarli i polmoni, sollevando l'asticella di quel calore che sviscerava il basso ventre in una morsa lentamente dolorosa.
«Non dovresti essere qua»
Eren sentì una pugnalata sconcertante quando lo chiffon scomparve, nascondendosi dietro quello spesso tronco che gli copriva la visuale. «Lo senti anche tu, vero? Cos'è tutto questo?»
«Cosa... Cosa riesci a sentire?»
Le due voci si accavallavano con quei tono addolorati, di chi si stava mortalmente trattenendo, combattevano con spade tratte, le uniche che coprivano la distanza.
«Io... Fatti vedere» la voce del ragazzo in ginocchio pareva una supplica protratta in una necessità, lentamente abbassò le mani e le strinse contro le ginocchia «Sento di averne bisogno» proruppe, febbricitante.
L'altezza dietro al tronco sentì i polmoni graffiarsi alla ricerca di aria che non fosse soffocante, i muscoli tiravano, pregando di andargli incontro, di farsi toccare, di farsi guardare e per quanto cercasse di trattenersi, per quanto cercasse di non interrompere l'equilibrio che aveva trovato in quegli anni, non poteva sperare di essere invincibile e le convinzioni vacillarono pericolosamente quando mosse i piedi, impossibilitato dal non eseguire quella richiesta. Uscì allo scoperto solo in parte, non si sarebbe fatto toccare e guardare completamente, altrimenti avrebbe capito e sarebbe stato devastante l'urto di ciò che sarebbe accaduto.
A Eren parve bastare per far si chè il mondo gli si aprisse sotto, risucchiandolo e masticandolo.
Chiffon, Chiffon, Chiffon, Seta e pelle.
Era sempre stato vuoto e per la prima volta, si sentì come se qualcosa lo stesse riempiendo lentamente, colandogli come cascate di rame fuso e bollendogli nelle vene, dove il sangue sembrava addensarsi. Annaspò, cercò aria, respirò frastagliato e gli occhi lo mangiarono.
Il profilo di quei piedi nudi, bianchi come gesso affondati nell'erba che li faceva brillare, il tessuto increspato delicatamente, in un gioco di vedo e non vedo, grigio varley che scuriva sulla fine in un grigio carbone simile al cielo lustre intorno al buco nero, giocava intrecciato a delle gambe lunghe, snelle, dritte, contratte dai muscoli forgiati. Lo chiffon si sovrapponeva poi, a quella che sembrava seta nera e brillante che copriva il bacino, infittendosi intorno alle cosce sopra alle ginocchia, due punti perfettamente sporgenti, da mordere e mordere sino a farle divenire rosse, e si riuniva in uno spesso strato crespo appena sopra al ventre, percorrendogli l'addome e aprendosi con altra seta preziosa che gli avvolgeva lo sterno, abbracciandogli la schiena.
E che in quel momento fosse dannato, la pelle dei fianchi era lasciata alla luce e gli bruciò la vista, facendogliela divenire di fuoco. Bianca di perla, vellutata come la seta delle vesti, tirata appena sopra al costato che scompariva sotto ad esse e gli bruciò addosso la voglia di sfiorarla con le dita che sentiva fremere e tremare. Si piantò le unghie nelle ginocchia mentre il desiderio carnale gli scuriva gli occhi verdi, prepotente, unico. Il collo di ceramica delicata spiccava sulle vesti scure che terminavano con un grosso anello grigio fumo a circondarlo in quel punto, gli sembrò così delicato che la saliva gli salì in bocca, vogliosa di assaggiarlo, di spostare quel gioiello brillante e annussare l'incavo morbido.
Arte. Angelo dannato. Creatura perfetta. Essere divino.
Eren si ubriacò come mai aveva fatto, della sua unica presenza, baciandolo in ogni particolare che scorgeva in quell'imperiale abito fuori dal mondo e che lo faceva sembrare superiore agli umani. E davvero, non aveva dubbi, non era umano, non poteva esserlo.
Qualcosa di così prettamente eccelso non poteva essere neanche lontanamente umano. E non era un angelo, non con quel colore grigio luminoso e quella pelle di vetro, nei capelli neri in avorio pesante.
Non era un angelo puro, era qualcosa oltre il paradisiaco.
Non poté scorgerlo in volto, perché un braccio delineato da muscoli disegnati si sollevò, facendogli notare lo stesso anello del collo intorno al polso che congiungeva la veste a mo' di manica semi trasparente. Lo chiffon cadde davanti, all'altezza del ponte del naso come una cortina impenetrabile sino alle ginocchia.
Eren notò appena come là, il tessuto fosse impreziosito da spruzzi di carbone che sembravano nuvole in procinto di un diluvio, solo perché il muro delicato e innalzato, gli aveva strappato una cinghia nel petto, frustrandolo senza ripensamenti.
Non poterlo vedere nella sua completa e assurda maestosità oltre natura, gli fece male al cuore sino a farlo sanguinare
La schiena tremò, facendolo piegare in avanti, dove le mani caddero aperte contro al prato. Tra i capelli di corteccia e appiccati, capì che lo stava guardando attraverso la cortina di pece che gli cadeva sulla fronte e sulle sopracciglia. Il sudore iniziò a scendere di nuovo, sotto la costrizione di quell'occhio di un colore che poteva ricondurre a un solo e unico sguardo.
Occhi d'Iridio, odore di galassia.
E quando voltò di poco il viso, anche l'altro occhio parve guardarlo, ma questo era patinato, bianco sporco, nulla di simile al suo gemello; pareva ceco da quell'occhio sottile e affilato come lama di coltello. Quella che sembrava una cicatrice vecchia, lo crepava nel centro, scorrendo e scomparendo oltre i capelli e il tessuto che ancora lo nascondeva.
Poi la creatura si voltò come scottata e sui passi che parevano fragili battiti d'ali, si allontanò con la schiena rigida e meticolosamente perfetta, scoperta nel centro dal tessuto che ricadeva sul fondo della schiena, dandogli mostra dei glutei solidi che ciondolavano nella seta. Eren però parve non accorgersene con il dovuto rispetto che avrebbe dovuto dare anche là, bloccato in quello sguardo pragmatico e in quella cicatrice che gli aveva bruciato lo stesso punto che copriva nel suo volto.
Non andartene
Così, silenzioso in quel pensiero tornò a respirare lentamente, la pressione parve non scomparire del tutto ma gli dette modo di riprendere consapevolezza. Sfiancato si lasciò cadere all'indietro, sedendosi, nell'odore del suo stesso sudore.
Percezione della perfezione in vesti di nobiltà. Cos'è questo? Quando posso abbeverarmi ancora di te?
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