Capitolo 6
Occhi d'Iridio
"Che per quanto bello, è non naturale l'impossibile della sua pelle di carta velina, fine di neve e roseti ubriachi di purezza. Negli occhi di perdizione ritrovata, in giochi di metalli fusi che tra mani di angeli agguantano canoni perduti, mai saputi"
[...]
È che Eren se l'era cucita addosso come un filo sottile, con l'aiuto d'ago di fuoco che non lascia macchie e affonda dentro, sino alle vene. Se l'era cucita addosso quella nobile abilità del mentire e non è che non lo sapesse, anzi ne era pienamente consapevole, come lo era che, nonostante i suoi occhi non parlassero mai, la ragazza apprezzava le sue dita a giocare con quella ciocca sottile e forse... erano tutti loro a fingere di vedere ciò che in realtà non c'era.
Forse era il resto del mondo che gli orbitava intorno ad essersi adattato alla barberia del suo sguardo, avvezzo alla normalità di un comportamento dettato dai sentimenti.
Non sapeva quanti ce ne fossero come lui, con quel pertugio nel petto all'altezza del cuore arido e secco, che non parlavano fingendosi addolorati o per cercare pietà ma cercavano di non pesare come assurdamente cattivi alle spalle di chi li amava seriamente.
Non era l'unico ma neanche così normale. Era raro, sicuramente raro.
Cos'era l'umano senza emozione?
Di libri di testo, di canzoni, di poesie e film, tutto era pregno di emozioni o non sarebbe sembrato sensato o vero, non sarebbe sembrato in qualche modo umano o meno spregevole, come quel senso di colpa dopo un'azione terribile o il piacere che affonda nelle viscere.
Non sapeva quanti ce ne fossero come lui che non sentiva nulla per chi lo circondava. Non lo sapeva se anche loro fingevano che non gli importasse d'essere così poco umani, prima di chiedersi come sarebbe provare il dolore di una perdita, l'affetto di un'amicizia o l'amore per i parenti e poi tornare con il pensiero a quanto stupido fosse, provare amarezza per ciò che non c'era mai stato.
Cos'era l'umano senza emozione?
A questo non avrebbe mai saputo rispondere, era solo un umano: Ossa, sangue, organi, pelle. Aveva tutto al suo posto e ben funzionante, quindi non sapeva carpire completamente cosa lo rendesse così differente dagli altri, per quanto comprendesse sottilmente la grande differenza tra lui e loro.
In quel bacio tra quei due studenti all'angolo del corridoio.
In quelle risate di quel gruppo che gli passava accanto.
Persino in quella studentessa che parlava alla sua piantina, pazza e affettiva.
Lui le emozioni le provava, ma le provava solo nelle sue sculture, per quanto la loro freddezza e durezza gli ricordassero la sua poca normalità e il suo oblio eterno che non gli permetteva di vedere oltre la sua sala, le amava.
Amava le sue statute e le sue creazioni.
Il cuore che batte, gli occhi lucidi, la rabbia in uno sbaglio, tutto quel tungulto di emozioni a bruciapelo che lo spezzavano.
Lui le emozioni le provava, anche se solo per esseri del tutto inanimati e privi di qualsiasi umanità e forse era questo, loro erano in grado di capirlo, di comprenderlo, di farlo sentire parte di qualcosa per quelle ore che passava con loro. Lo abbracciavano con le iridi incolore e le braccia protese nell'eternità
Ma poi li guardava a quei volti dalle bianche sopracciglia aggrottate e nelle bocche contorte e non potevano davvero avere la sua stessa spietatezza nel dolore che gli dipingeva in faccia, nell'ardore delle loro dita e nella codardia di quelle vesti leggere, impresse nella pietra che si sfaldavano in piedistalli che le incatenavano a lui.
E quindi si impietosiva per l'essere che Dio aveva creato in lui. Si impietosiva per ciò che non poteva toccare e allora impastava ancora nell'argilla.
Con fervore ardore la rigirava e si sporcava, voglioso di provare ancora. Si sporcava, la grattava, la lavorava e ancora volti emozionati che potevano rappresentare ciò che lui non avrebbe mai rappresentato.
E perché mai Dio avrebbe dovuto fare nascere un'anima trasparente?
Non bianca d'innocenza, non nera di peccato, non rossa di lussuria ma trasparente. Trasparente come il nulla, più trasparente del vetro e dell'acqua pulita. Trasparente senza consistenza, più dell'aria.
Nulla
Cos'è questo? Nulla, nulla, nulla
Una parola senza significato se ripetuta troppo. Nulla, come non lo era il bianco o una mente spenta dal tormento. Nulla, come non lo era il non sapere o il non avere.
Nulla. Vuoto. Apatia.
E non capitava quasi mai che ci si fermasse su questi pensieri ma quando succedeva, allora doveva mentire. E la mano ancora girava quella ciocca che corse sotto al suo naso, respirando l'odore di mentolo di quella sigaretta del cazzo che tanto odiava. E non capiva quanto fossero sbagliate quelle gaunce rosse che Mikasa gli mostrava, incastrata dal suo corpo e il muro. E non poteva improtargli di quanto male le facesse ogni volta che mentiva e poi tornava il solito Eren. Il solito nulla.
Che quelle lacrime d'amore non corrisposto che gettava sulla spalla di Jean non le sentiva, non lo smuovevano, non lo cambiavano.
Che tanto si sarebbe fatta ancora illudere da quell'Eren di vetro che la faceva arrossire sotto azioni improvvise.
«Eren, dovresti smetterla adesso» e la voce di Armin aveva affermato quelle parole mentre stava vicino a loro, impegnato con il suo telefono. Quell'anello sul labbro scintillò quando se lo morse annoiato. «Sei una testa di cazzo quando fai così »
E parlava, che tanto sapeva quanto Eren fosse poco partecipe a ciò che pensava o dicesse. Eren era così, lo sapevano.
Sorrideva per evenienza, parlava per compiacere e si muoveva calcolato. Eren era come programmato da sé stesso nella sua bellezza e perfezione da scultura immobile nel tempo e senza luce negli occhi sprecati, così come forse era tutto lui e ciò che era.
E lo sapeva lui, lo sapeva Jean, lo sapeva quel fattone di Connie, chiunque passasse più di un'ora con lui dopo esserne rimasto ammaliato, lo sapeva persino la sua famiglia e anche quella stupida di Mikasa lo sapeva.
Lei che lo conosceva dalle medie lo sapeva com'era ma cadeva sempre in quei momenti di dolcezza gelata e poi andava a deprimersi da Jean che povero dannato, s'era innamorato di lei e di quel dolore che non superava.
Non l'avrebbe mai guardato a quell'idiota dalla bella faccia.
Quante volte doveva dirglielo Armin?
Era uno schifissimo circolo vizioso: Eren perso per la scultura, Mikasa innamorata di lui che piangeva da Jean e Jean che si lamentava con lui di ciò che non avrebbe mai avuto e cosa rimaneva da fare ad Armin?
Nulla, scocciato da quella situazione si passava la mano nei capelli corti e si accendeva una canna e poi tutto fatto andava a prendersi quella biondina dagli occhi ambra, che era a tanto così dal fidanzarsela.
«Non sto facendo nulla, Min. Mi piacciono i suoi capelli» Eren bruciò il volto pallido della ragazza, respirandogli addosso. Poi qualcuno lo tirò via e sentì lievemente freddo dove prima vi era quel corpo caldo e formoso. La vedette a Mikasa prendere respiri profondi, mordersi il labbro lucido e guardare in basso.
«Non è legale scopare nei corridoi. Pervertito del cazzo» Paul, un suo compagno della classe di storia dell'arte lo guardava vagamente irritato, negli occhi blu notte e i capelli castani che portava all'indietro. Non era particolarmente bello secondo Eren, ma aveva un bel viso. Paffuto e morbido, quasi femmineo, stessa rotondità che riprendevano le curve, nonostante gli arrivasse al naso come altezza «Dobbiamo andare, la ricerca, ricordi?»
E Eren intendeva quello con "partire in quarta per levarseli ditorno" quindi annuì.
«Ci vediamo a pranzo» salutò così i due che prima che arrivasse si stavano godendo la pausa della mattina, parlando animatamente.
La biblioteca su due piani, è uno degli spazi più grandi dell'accademia. Si trovava alla sua sinistra e la si poteva anche raggiungere con il ponte che collegava le due strutture, non molto alto da terra. Il silenzio era sovrano sotto allo sgranocchiare di cibo, qualche sporadico mormorio e battiti sulle tastiera di computer. L'odore di fogli vecchi era quasi soffocante, ma non fastidioso, era piuttosto accettabile in realtà, così come quegli alti e molteplici scaffali che parevano schiacciarti per la loro altezza. In tutti e quattro gli angoli del posto c'erano punti di ritrovo per le combriccole di studio e tra gli scaffali c'era persino qualche poltrona per godersi la lettura, in pace dagli schiamazzi degli studenti.
Eran si abbassò alla ricerca di qualche manuale nelle mensole incastonate in una delle colonne di legno.
«Ciao, Levi»
«Ciao, Paul»
Era stata quella voce sottile ma mai debole a farlo sporgere leggermente e intravedere il suo compagno di ricerca, aiutare Ackerman a raccogliere un libro posizionato troppo in alto per la sua ridicola altezza che non gli permetteva di raggiungerlo neanche in punta di piedi.
Pensare che ci fossero le scale scorrevoli proprio accanto a lui lo fece sbuffare un sospiro, tornando ai manuali, cogliendo appena il suo ringraziamento e le quattro chiacchiere prima di salutarsi ancora e lasciare andare la conversazione frivola e più stupida della sua mancanza.
Ricordava ancora come lo avesse lasciato nel bel mezzo dell'aula vuota, così come ricordava il rossore delle sue guance mentre gli porgeva quelle domande.
Era un rosso più carino e caloroso di quello di Mikasa sempre prepotente; gli tingeva appena appena le gote e la punta del naso, rendendolo quasi carino nonostante i lineamenti ben delineati del volto mascolino.
Erano passati cinque giorni da quel mercoledì, quindi ancora doveva esserci la lezione che avevano in comune, non era sicuro se avrebbe continuato a fissarlo anche se dubitava che l'avrebbe fatta davvero finita. La pelle bianca non era male, gli ricordava la pietra che lavorava e aveva smesso di fargli male agli occhi, semplicemente la guardava e si chiedeva se fosse davvero liscia come sembrava. Assurdo come non sembrasse presentare imperfezione, quasi impossibile.
Non si erano mai sfiorati, neanche con le dita in gesti involontari. Eren era sicuro che Ackerman evitasse volenteroso e in maniera accurata il suo tocco e lo aveva notato da come aveva scostato le dita appena aveva preso la penna, quasi come se toccarlo avrebbe potuto ammazzarlo.
Levi. Era Levi il suo nome.
Quattro lettere, molto semplici e concise ma abbastanza dure se unite, effettivamente gli si abbinava, quel tono duro, sciolto in una parola semimorbida se detta a voce.
Distrattamente annuì a Paul che lo informava che sarebbe andato alle macchinette, posizionate appena fuori da là. Tirò fuori dalla tasca la lista dei manuali che cercavano e svogliatamente si spostò dal punto, percorrendo il corridoio centrale coperto da quell'orribile moquette verde. Poi svoltò e salì le scale sull'ala destra, ignorando i quattro studenti che studiavano nei tavoli sottostanti. Raggiunse il secondo piano con una veloce occhiata oltre alla ringhiera in legno massiccio e dettagliato, imbrattando con una veloce linea la lista, per cancellare uno dei titoli che aveva lasciato in mano a Paul.
In quel piano non ci andava quasi mai nessuno se non gli amanti della lettura. C'era solo uno scaffale con i manuali, il resto erano solo romanzi, racconti e novelle di qualsiasi genere. Eren dubitava che tra gli studenti perfezionisti ci fosse qualcuno dedito alla lettura.
Chi poteva perdere tempo così?
Tutti fissati con i voti non trovavano tempo libero per potersi perdere tra quelle inutili pagine.
Eppure dovette ricredersi, quando, superato il quarto corridoio, nello spiraglio tra le pareti di legno e in mezzo agli scaffali, vide Levi seduto sulla poltrona in velluto rosso.
Era scomposta la sua seduta, consapevole che nessuno l'avrebbe visto, s'era levato le scarpe lucide e rimanendo in quei calzini con i rombi aveva gettato le gambe oltre un bracciolo, con la schiena poggiata sul gemello. Sembrava comodo, la sua figura esile non aveva problemi a regalargli realax in uno spazio tanto piccolo e angusto, rilassato nelle mani ben aperte sulla copertina del libro, attente a non farlo chiudere mentre gli poggiava tentennate sul petto.
Mezzo nascosto dalla libreria di novelle di vecchi tempi, guardò i piedi troppo piccoli per essere maschili, chiusi in quel bruttissimo tessuto che i pantaloni kaki scoprivano anche sulle caviglie sottili, come due rilievi nodosi e sicuramente bianchi, quasi trasparenti per la pelle sottile in quel punto. Seguì i polpacci e le cosce pronunciate per essere poggiate al bracciolo, l'avvallamento tra i pantaloni, sollevato per la posizione e l'inizio della camicia bianca che scompariva nel bordo di essi, scoperta dal gilet azzurrognolo che gli era salito sino alla pancia, mostrando quello che poteva immaginarsi un ventre bello piatto, forse anche delineato.
La camicia bianca usciva con il colletto ben ordinato e piegato dal collo del gilet e gli abbracciava il collo bianco, candido, dove il pomo d'Adamo sorgeva attento. Capì di poterlo vedere perché Levi aveva abbassato il libro e ora lo fissava da sotto le corte e scure ciglia, con l'opaco degli occhi appena umidi, come vetrificati in orbita di porcellana sotto le lenti degli occhiali e le mani strette sul tomo, ora chiuso sulla sua pancia.
Lo vide in quei capelli ordinati e lucenti sulla fronte chiara, in quegli occhi metallizzati, tinti di un tocco di grigio morbido che non lo rendevano più tanto opaco e smunto, nel naso sottile e sollevato sull'arco di Cupido, dannatamente pronunciato su ombre che si bloccavano sulla bocca, di carta ancora da inchiostrare, e lo vide nelle gote perennemente pescate e in quella posizione comoda sul corpo piccolo.
E come lo vide, quando lo vide, decise in quel momento che Levi fosse proprio bello.
Ma non di una bellezza normale ma surreale, da far star male o far sentire inferiore, da strappare da supposizioni e etichette. Era una bellezza che era sicuro di aver visto solo nelle migliori statue. Era bello, bello davvero.
Bello che la pelle chiara è di raso sottile e indistricabile, bello che quei capelli sono seta preziosa tessuta da angeli, bello che quella bocca pallida pare lo stesso una ciliegia matura. Bello davvero nelle caviglie pronunciate e nelle nocche vistose.
È bello nel metallo che si porta nello sguardo, metallo argenteo che sembra iridio, scaldato dal blu smunto degli abissi invisibili della terra. Meteorite schiantato direttamente negli occhi, che dentro sembra c'abbiano incastrato quella sostanza mortale e che li tenga socchiusi solo per non farsela scappare o vederla volatilizzarsi. Perché senza quel colore non sarebbero più stati i suoi occhi, particolarmente velenosi e liquefatti.
Ed è bello, come decise che fosse il più bello di tutti. Per quanto non avesse mai guardato corpi maschili o femminili oltre alle curve delle sue statue e i modelli. Non poteva mentire. Non gli andava di mentire quella volta, con quella fiamma che parve screpitare e fargli male allo sterno, dove dovette metterci una mano sopra per combattere un gemito di dolore.
La strana sensazione scomparve quando Levi si mise immediatamente composto, lasciando che i capelli balzassero in una nube tossica sino a scombinarglisi in testa.
Eren chiuse due secondi le palpebre e non si accorse che ciò che prima vi era dentro, era scemato lentamente sino a soccombere alla sua solita opacità. «Tranquillo, mettiti comodo, stavo cercando un manuale» proruppe, sentendosi estraneo in quella voce troppo roca.
Dov'era finita quella nota di nulla?
Aveva distolto lo sguardo ma ora era nuovamente là a fissargli le labbra che si aprirono, forse cercando qualcosa da dire.
Ma ciò che ne venne fuori, fu un gemito.
Caldo, sussurrato, lento, interrotto.
Una mano bianca si premette sulla bocca, l'altra raccolse le scarpe e Levi corse via, passando dall'altro lato del corridoio. Udì i suoi passi veloci, l'interruzione e poi altri passi ticchettanti, coperti ora dalle scarpe.
Eren sentì le gambe pesanti, come se qualcosa lo premesse da dietro la nuca per fermarlo in quella corsa inutile e frenetica. Non capiva bene.
Era assurdo come lo avesse guardato, scannerizzato in ogni parte.
Lui che non si soffermava più di cinque minuti a persona, si era reso conto che avrebbe potuto guardarlo per tanto tempo e non se ne poteva fare una colpa.
Lui le amava le opere belle e Levi era come una di quelle, a partire dalla pelle di gesso gentile.
Riuscì a fare qualche passo avanti, raccolse il libro abbandonato sulla poltrona e si sedette pesantemente, poi poggiò l'oggetto sulle ginocchia e senza guardarne il titolo, si trovò a piegarsi come uno stolto, sino a premere il naso contro alla stoffa del bracciolo, dove prima vi era la sua schiena.
Chiuse gli occhi e annussò profondamente, ignorando i pezzi di stoffa che gli grattavano le labbra, venendo invaso da uno strano sentore.
Pioggia leggera di meteore di terra, galassia nella perdizione delle stelle, completezza.
Odori strani, che non potevano avere consistenza ma che nel suo cervello, avevano formato quelle semplici frasi senza rifletterci su.
Era un gemito?
Premette la guancia sul bracciolo e fissò uno scaffale davanti a lui. Poteva esserselo immaginato, era stato lo spettro di un rumore, eppure lo aveva sentito amplificato nel condotto uditivo, come se glielo avesse gettato direttamente nell'orecchio... come se avesse voluto attrarlo da lui.
Se se lo era immaginato, perché scappare?
Paul lo trovò così, annegato in quei pensieri troppo strani e senza consistenza, scomposto e con gli occhi socchiusi.
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