Capitolo 2

Senso di vuoto drastico

"Per quale bestia possa essere l'apatia.
Nel timore degli altri
Per gli occhi tuoi vuoti"

[...]

Pacamente le labbra si strinsero intorno al filtro e con un respiro profondo si inquinò i polmoni di quella piacevole aria calda. Ripose la mano contro la gamba come se tutto il tempo del mondo gli fosse dovuto e forse lo stava pensando davvero, tra la nebbia che il fumo gli aveva creato nel cervello. L'arto inferiore sinistro penzolò pigro nel vuoto mentre poggiava la testa contro al muro e lasciava che i capelli cresciuti troppo cadessero oltre le spalle. Seduto sul davanzale della prima finestra della sua sala, sentiva come se niente potesse intoccarlo. Rappresentazione scarna di una bolla di serenità atipica.

Le ciglia in salice facevano da tettoia a quel sole debole del pomeriggio primaverile. Un altro tiro e la cortina di fumo pungente gli torreggiò sulla vista per una manciata di secondi, prima di dissipare nel vento leggero. Non era solito farsi le canne, ma il nervoso nel non risucire a fare ciò che voleva lo aveva spinto ad accettarla come un'offerta allettante da Armin e Connie, l'amico del primo e svalutare così le sue solite sigarette che riposavano in tasca. La roba era abbastanza buona da aver assorbito la rabbia che accumulava da tre giorni, esattamente da quando prendeva lo scalpello in mano e rimaneva a fissare i blocchi senza alcuno stimolo. Non ne aveva neanche per piccoli progetti in terra cotta.
Ad un tratto si sentiva completamente svuotato da dentro, come se neanche gli organi bastassero più a riempirlo. Viveva di scultura da quando ne aveva memoria.
Amava, soffriva, gioiva, sperava con la scultura. Quindi, non averla, significava essere diventato un automa senza fili conduttori. Un umano senza cuore. La terra senza il sole.

E se non sarebbe mai più tornato?

Cosa, non sapeva neanche lui come descriverlo, ma a farla in parole povere... e se il suo dono gli era stato strappato improvvisamente via?
Per quanto quel pensiero fosse da pazzi, in quanto non poteva esserci alcun dono se non le sue mani stesse, non poteva che pensare che non sapesse fare nient'altro. Senza scultura non poteva essere Eren Jaeger e solo a metà del primo giorno di vuoto, si era reso conto di quanto fosse davvero inutile senza scolpire.

Come avrebbe detto al mondo che non sapeva più farlo?
Come avrebbe detto a se stesso che doveva vivere lo stesso, anche senza di essa?

Un brivido di estremo panico lo convolse dalle dita dei piedi sino alla punta dei capelli, portandolo a stringere la canna sino a quasi spezzarla. L'amarezza nella bocca non poteva essere assopita, la stessa che gli raggiungeva lo sguardo verde, sembrando quasi malaticcio e perso. Era dipendente dalla scultura come un drogato dalla droga, per quanto quel rapporto potesse essere nocivo, senza, non sarebbe sopravvissuto, ne era consapevole, anche se puzzava di autolesionismo.
Doveva uscire di più, stringere amicizia con il suo gruppo, divertirsi e fare altro, oltre che stare in quella sala, chiuso fuori dal mondo che poi, più di tanto non gli importava.
Cosa ne sapeva il mondo di ciò che era?
Alla fine, era ciò che la gente si aspettava e ciò che lui desiderava.

Quando chiuse gli occhi e li riaprì, una figura colse la sua attenzione. Fece un altro tiro e si sporse di poco, puntando il piede sul davanzale, come se quello lo avrebbe avvicinato a quel punto indistinguibile tra gli alberi, per i metri di altezza e lontanezza che li dividevano. Per quanto potesse essere fatto, era sicuro che non potesse essere pazzo e non era neanche chissà quanto sbandato, in caso contrario si sarebbe già trovato spiaccicato a terra. Scese dal davanzale e camminò nei suoi stivaletti scamosciati fuori dalla sala; si guardò le dita e tornò indietro solo per spegnere lo spinello contro ad una maceria poco distante da lui.

Il silenzio glaciale sembrava rimbombare sul pavimento a scacchi tirato a lucido, più dei suoi stessi passi che battevano ora sulle scale a chiocciola. I corridoi vuoti parlavano di come tutti fossero a lezione, le stesse che si sarebbe dovuto recuperare in poco tempo, dato che, quanto fosse privilegiato, non poteva permettersi di rimanere indietro con le materie e specialmente, non ci teneva.
Non era un caso dunque, che fosse uno dei migliori della sua sezione e tutti credevano impossibile che avesse tempo di studiare quando passava la maggior parte del suo tempo a scolpire. E anche lui stesso faceva fatica a crederci e spesso, effettivamente a riuscirci, le parole le inziava a vedere doppie la notte, come se ballassero a braccetto. Dopo una lunga giornata a stretto contatto con leggerissimi dettagli, neanche gli occhiali riuscivano a migliorare la situazione e doveva arrendersi nel silenzio della casa dove viveva da solo, in quanto i genitori alloggiavano nella città vicina.
Si era trasferito per frequentare l'accademia e i due erano subito stati pronti a dar man forte alla sua indipendenza, che alla fine contava solo il cucinare quando aveva tempo e il riordinare ciò che di poco sporcava. Non era un mistero che passasse poco tempo tra quelle mura, strepitosamente sfarzose nonostante fosse solo un attico e non una casa a sé.

Al termine di quel corridoio estremamente prolisso, dovette spiegare al supervisore che avesse bisogno di una boccata d'aria perché questo lo lasciasse finalmente uscire. L'accademia imponente si estendeva per diversi ettari, quindi dovette camminare a lungo prima di risucire a raggirarla e imporsi sulla grande distesa di terra e prato curato davanti a lui, dove il profilo del bosco si stagliava distante di poco.
Non lo raggiunse davvero, si delineò una metà vicina e stette in piedi a scandagliare gli alberi che fin da subito si facevano fitti.
Non c'era niente.
Non provò nulla davanti a quella evidenza. Forse l'erba gli aveva giocato qualche scherzo, ma ringraziò che l'avesse fatto, perché, l'aria che gli colpiva la pelle bronzea in ondate affabili, fu in grado di rianimarlo un minimo.
Decise di sdraiarsi sul tappeto morbido e a braccia sotto la testa si mise a fissare il cielo, giocando annoiato con le nuvole.
Si sentiva senza responsabilità in quel momento, come se le paure lo avessero momentaneamente liberato. Fu un'emozione nuova e gli piacque a tal punto che perse la cognizione del tempo.

«Eren!»

Non sapeva da quanto si fosse addormentato, non si era accorto neanche di averlo fatto, ma l'urlo lo aveva ridestato senza alcuna delicatezza. Rivoltò il capo e da una delle finestre della sua sala, vi trovò Mikasa, che con i capelli di piume di corvo al vento, si sbracciava verso la sua direzione.

«Stai bene?» gli chiese la voce squillante ma piacevole. Alzò solo un braccio ma quello bastò per calmare la ragazza che forse eaveva creduto che fosse morto, là, sotto al cielo azzurro e con ai piedi il bosco.
«Eren, ti raggiungo»

E per quanto potesse infastidirlo, si limitò a sospirare e a contare i minuti che intercorsero prima che gli si sedette accanto, con uno sbuffo della divisa blu scuro che terminava sulle sue ginocchia in una gonna a pieghe. La rendeva graziosa, persino la cravatta rossa contribuiva alla sua bellezza e su quello, Eren non poteva controbattere.

«Che ti succede ultimamente? Sei più strano del solito» la ragazza si portò le ginocchia al petto e le legò con le braccia. Guardò il profilo del giovane uomo che ancora non si era voltato, lui infatti non era toccato da quel tono di preoccupazione. Avrebbe solo voluto che Mikasa non fosse là, in un pensiero cinico, lui non sapeva cosa fosse davvero amicizia o voler bene e forse, era un patto che prima di nascere aveva dovuto fare.

"Con il dono non imparerai ad amare." Doveva aver detto così Dio o chiunque ne fosse di dovere alla sua anima, prima di spedirlo nel corpo umano e lui doveva essere stato davvero una tronzo egoista a scegliere, rifletté. La sua apatia doveva essere evidente a livelli estremi, forse i suoi genitori avevano anche pensato ad un probabile disturbo quando da bambino, una ragazza gli era stata investita davanti a lui non aveva mostrato alcuna ombra. Era stato portato dallo psicologo per paura di eventuali problemi post traumatici e in qualche modo, era stato più scioccante scoprire che non stesse provato nulla di particolarmente doloroso. Sua madre, per quanto lo amasse, lo aveva sempre guardato con quella punta di inquietudine negli occhi simili ai suoi, sapeva che dubitava persino sull'affetto che provava nei suoi confronti e che ahimè, si fermava a una semplice accettazione dei ruoli che li incatenavano. Il padre non aveva però voluto indagare, troppo pauroso che il nome Jaeger potesse essere sporcato dal suo inumanismo, come puntale gli ricordava: non era normale.
La rabbia però la sentiva, la stessa che lo pungeva quando l'uomo lo puniva per suscitargli qualcosa di diverso ed era sicuro che anche lui nascondesse l'inquietudine nel guardarlo negli occhi, solo che lo faceva peggio della moglie.

Ma come potevano screditarlo quando riusciva a maneggiare l'arte? A loro bastava sapere che sarebbe diventato importante, che poi fosse apatico era di poco conto.
Dubitava che e nessuno lo sapesse, per quanto cercasse di non mostrarlo, certe volte saltava fuori prepotentente, rendono privo di nulla il suo volto.
Era terribile pensare a occhi tanto belli, danneggiati dal vuoto senza neanche un motivo, era quello il pensiero di chi ci annaspava dentro.

L'apatia aveva il sapore di nulla.

Eren aveva sentito molte persone dire di esserlo per pura voglia di mostrare ciò che non erano, ma forse non capivano cosa davvero comportasse. Non avere legami per cui avrebbero dato tutto, non amare nessuno in particolar modo, non risucire ad affezionarsi e a entrare in empatia con le persone, era ciò che di più temibile un umano potesse intercorrere. Significava essere soli con se stessi o mentire fino alla morte, fingere sino alla perdizione.
Ma Eren era nato così, quindi non poteva trovare spiacevole non avere ciò che non aveva mai avuto. La sua unica empatia era la scultura, ne era certo, tutto ciò che gli traeva emozioni su emozioni.
Solo, si chiedeva come ciò che definiva conoscenti o comunemente amici, potessero mostrare interesse nei suoi confronti, infondo i genitori erano costretti ad amarlo o mostrare un minimo di interesse.
Ma loro? Non lo vedevano quanto lui provasse nulla nei loro confronti?
Non aveva mai fatto niente di speciale per nessuno del gruppo, eppure si ostinavano a invitarlo ovunque, a parlarci e a integrarlo.

Guardò per poco il volto femmineo e le guance tenere si scaldarono. Tornò alle sue nuvole e a quel colore azzurro che non aveva nessuna particolare tonalità.
Era questo il punto? Il suo aspetto?

«Non riesco a scolpire» e confessò a bomba l'inconfessabile, che tanto lo sapeva che da là non sarebbe mai uscito nulla. Mikasa era troppo dolce per sparlare e sparlare e forse, l'ammirava la sua dote nel farsi gli affari suoi.

Gli occhi allungati leggermente e scuri come cenere, si spalancarono un po' e il gloss alla pesca le lasciò l'aroma sulla lingua quando si leccò le labbra. Era qualcosa di strano da sentire; Eren non smetteva mai di fare.
«Pensi che possa essere per lo stress?» chiese pensosa.

Intercedendo in una risposta che già si aspettava. L'artista si mise seduto e alzò le spalle, noncurante.

«Eren, questo weekend andiamo al festival dei fiori, perché non vieni anche tu? Distrarti potrebbe aiutarti»

E per quanto quell'idea potesse essere un'idiozia, si trovò ad annuire, per la prima volta accordando un'uscita con loro: «Perchè no» borbottò alzandosi e attendendo che l'altra, sconvolta per l'affermazione, facesse lo stesso, prima di avviarsi insieme nella struttura e dividersi sulle scale.

(...)

Sulle prima ore della sera, quindi verso le sei, Eren dovette raggiungere l'aula professori, dove ad attenderlo c'era "il capo vedetta", come lo chiamava lui o semplicemente, il Signor. Smith;
Un uomo alto e corpulento, piuttosto serio, il vice dei professori dell'accademia si intende. Sedeva alla scrivania che sostava in mezzo alle altre, con una penna in mano e quella libera sulla tastiera del computer, vagante tra i tasti. L'uomo lo guardò solo di sfuggita, poi inarcò le labbra sotto la barba curata e mielata, interrotta solo da qualche pelo bianco.
«Raccolga pure gli appunti, i professori li hanno poggiati qua per lei» fece cenno alla scrivania e Eren si avvicinò per raccogliere il malloppo e infilarlo in borsa.

«Ho notato che il suo rendimento è sempre alto, Jaeger. Ancora una volta i miei complimenti, è incredibile che riesca a fare tutto senza restare indietro con il programma» parlò virtuoso, non staccando gli occhi dal monitor. Il silenzio era rotto solo dal rumore dei clic del mouse e viaggiava stringendo la presa sulle spalle del più giovane.

Eren coprì egregiamente il pugno che si era stretto lungo la coscia, agganciandolo alla cinta della borsa: «La ringrazio signor Smith. Buona serata» asserì educatamente, lasciando l'ufficio che si era fatto pieno di aspettativa mal celata.

Rimase fermo sulla porta quando una figura minuta lo sorpassò quasi colpendolo, talmente veloce da non dargli il tempo di guardarne il volto e entrò nell'aula tre B, dove sapeva ci fossero dei corsi di recupero sino alle dieci. Eren vide solo qualche foglio fare la comparsa tra le sue braccia prima di sentire il battente sbattere. Si staccò con lo sguardo e dopo aver sistemato la cinghia, imboccò il corridoio per le scale.
Provò quasi pietà. Doveva essere triste sprecare il tempo per colpa della propria stupidità, cercare di apprendere senza risucirci... Un'agonia secondo il suo modesto parere.
Ultizzava già troppe ore per la scuola, non poteva immaginare come potesse essere, ucciderne ulteriormente per ciò che il suo cervello non gli permetteva di comprendere.

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