Capitolo 1
Lo scultore perso nel suo vortice
“Polvere di pietra tra i frammenti d'umano che di umanità non sa.
L'unica freddezza di una lastra di granito tra le membra della mente."
[...]
Polvere sottile come di terra raffinata, volava nella stanza rendendola quasi irrespirabile, unica nuvola palpabile che s'aggrappava a ciglia e sopracciglia, facendo suoi anche i vestiti.
Quel largo raggio solare l'accompagnava nella sua danza priva di passi simbolici, finché essa si poggiava sul pavimento ora di marmo opaco, dove non vi erano più visibili le venature rosa che lo caratterizzavano con cura artistica.
Il verde cinabro, carismatico guizzò tra i tessuti lievi di pietra lavorata, ne saggiò la consistenza dalle iridi rarefatte e se le ignettò direttamente nella corteccia cerebrale che ne fece della sua ninfa vitale, o almeno, ci provò. Cercando la morbidezza della seta nella durezza della pietra.
Trasse una piccola calcatura che lo portò a raddrizzarsi dalla postura china che gli fece scrocchiare la schiena. Lo scalpello dall'estremità tondeggiante, venne stretto saldamente e la punta venne poggiata su ciò che lo aveva fatto contorcere internamente in quella che era insoddisfazione personale. Avvicinò il viso al colore bianco gessato quasi accecante, che rendeva impossibile notare l'imperfezione ad occhi non suoi.
La mazzetta venne portata a una moderata e studiata lontananza e con gesti estremamente accurati si poggiò con precisione sul fondo dello scalpello. Il rumore dei battiti partì ancora, riempiendo il silenzio con ritmo cadenziato che gli colava nelle orecchie, rendendo caldo il condotto uditivo come avrebbero potuto fare solo dei gemiti d'eccitazione, sussurrati a quella estremità. Era pateticamente inutile dire che essi, si univano alla velocità in cui il sangue gli veniva pompato nel cuore. Quando staccò la mazzetta per uno degli ultimi colpi che avrebbe cambiato l'andata della sua opera, la grossa e pesante porta si aprì alle sue spalle, cigolando e facendolo balzare via dal suo stato di perdizione completa.
Le sue mani in quel momento maledette, non furono abbastanza veloci per predire la botta che la mazzetta diede ad un'angolazione diversa dagli ottanta gradi fatidici. Il danno fu inevitabile e lo scalpello ruppe di troppo il pezzo di pietra, creando una crepa profonda di appena cinque centimetri in lunghezza che aveva reso la quarta piega delle vesti, aperta, come uno spacco vagamente provocatorio. Le mani tremanti di rabbia e disapprovazione si aprirono e gli attrezzi caddero rumorosamente a terra, come tintinnati campane che dovettero allertare la persona appena entrata dello sgarro fatto.
«Eren...» la voce era balda, nonostante l'errore commesso e la consapevolezza del falso passo. «Sei chiuso qua da ormai nove ore, vieni a mangiare qualcosa con noi? È ora di pranzo» proruppe, frastagliando l'aria con quelle vibrazioni che lo scultore non voleva assolutamente percepire un secondo di più.
Non si voltò a guardare colui che ora era diventato estremamente terrificante, consapevole che fosse Jean, uno dei suoi conoscenti. Egli fece vagare lo sguardo di un nocciola asettico sugli attrezzi a terra e senza lasciare la presa dal battente rifinito, batté il piede destro sul pavimento. La scarpa senza personalità, fece rimbombare il rumore a terra che si disperse come un'onda, battendo tra le sculture mezze terminante, mezze no e alcune abbandonate. La stanza grande e ariosa, era ricoperta di polvere sottile per via delle sei finestre ancora sigillate. Eren aveva chiuso tre tende azzurre, rendendone in penombra la metà e aveva riservato la completa luce solare alla scultura che aveva davanti, cosicché fosse illuminata ad almeno trecento venti gradi. Questo si sedette senza cura di sbattere le natiche davanti ad essa, senza spostarsi di una virgola dall'angolo in cui poggiava, incurante dei pantaloni in tela già macchiati che ora gli scoprivano anche le caviglie.
Non lo avrebbe ascoltato, la consapevolezza non fu grande da digerire, abituato, anzi, abituati ad essere ignorati ogni qualvolta in cui Eren si decideva di entrare in quel mondo, solo e unicamente suo.
Erano lui, i suoi attrezzi, la creta e i materiali da lavorare. Non contava nulla, oltre ciò che doveva creare.
L'accademia artistica che frequentavano era consapevole del prodigio che quello studente del quarto anno era.
Il liceo aveva solo fatto passa parola, dopo che aveva tirato su una scultura che sembrava fosse stata creata da mani d'angelo a soli quindici anni e con un minimo di esperienza dietro alle sue giovani spalle.
La prestigiosa scuola quindi, non aveva perso tempo ad ammetterlo e a dargli di conseguenza una grande sala in dotazione, dove poter sviluppare la sua unica e ammaliante arte. La sua stanza personale; la stessa che ergeva all'ultimo dei cinque piani, lontano dalle calssi che avrebbero potuto distrarlo e che pagava una miseria, giusto per non disappuntare ulteriormente gli altri studenti.
La sua bravura era già uscita e resa nota ai locali e si attendeva solo che iniziasse a farsi nota e a vendere. Era raro che permettesse di fotografare ciò che creava, per motivi a tutti ignoti.
Eren, agli occhi di tutti, era solo un prodigio che bisognava sfruttare e non perdere per le sue doti che si trovavano una volta su mille e forse milioni, ma non agli occhi dei suoi amici che cercavano di non farlo completamente perdere in quel vortice autolesivo che si creava intorno, con mille lamette che non lo facevano uscire fino alla soddisfazione completa, cosa che purtroppo, non saggiava sempre.
L'artista udì distintamente la porta chiudersi, consapevole che Jean avesse perso le speranze dopo altre parole che non sentì. Si portò una mano chiusa a pugno alla bocca e se la morse con forza, mentre le pupille tremavano indistinte sopra alla crepa che non aveva smesso di guardare.
Desiderava bruciarla, cancellarla, disintegrarla ma nella scultura non si tornava mai indietro e il cervello comandate, batteva prepotente nel ricordarglielo dolorosamente. Era come se la stessa crepa gli si fosse aperta all'altezza dello stomaco contratto. La delusione sostituì la rabbia, irradiandogli il volto in un velo sottile mentre si alzava in piedi. Le dita tartassate dalla fatica degli anni, accarezzarono il mezzo busto creato, lodando la bellezza della curva delle spalle e l'incavo del collo.
Più si figurava ciò che avrebbe potuto terminare, più sentiva la punta d'amarezza perforarlo da parte a parte, incidendolo a fuoco. Le mani afferrarono le spalle fredde e con forza spinsero su un lato, facendo rovinare a terra il creato. La macerie già raggruppate attuirono il rumore di poco, mentre altre si sparpagliavano su di loro. Schegge volarono lungo il pavimento, fermandosi senza un ordine in un vortice di rovina.
Sbatterono anche sul piedistallo posizionato più in là.
Ora non poteva più vederla quella miseria.
Piegò la testa per far riprendere il collo e cercando di controllare la nausea che lo stava assalendo, guardò fuori dal grande finestrone che aveva davanti a lui; Il sole si era spostato da dov'era quella mattina e ora illuminava le cime degli alberi del bosco che cingeva il retro dell'Università, a pochi metri da distanza. Bastarono sei battiti di cuore senza scalpello e intercettò l'aria rarefatta in cui cedeva.
Scavalcò alla meglio le macerie e si fece avanti, impugnando le due maniglie in ottone; le girò e spalancò i vetri lordi, consapevole che il giorno dopo avrebbe trovato tutto pulito. Il suo ricco padre pagava apposta un inserviente scelto da lui stesso, affinché ripulisse senza infliggere danni, com'era giusto che fosse.
Quando poggiò i palmi contro al davanzale largo, si sporse in avanti e trasse un profondo respiro dell'aria rigenerante. Undici giorni di lavoro erano state appena infrante al suolo. Non poteva relegare la sua rabbia solo su Jean, consapevole che esistesse già da prima, esattamente da quando aveva smesso di rimirare soddisfatto ciò che creava. Era un misto di cattive sensazione, ciò che si raggruppavano nelle sue vene attecchendo al sangue quando, terminata la scultura, storceva il naso insoddisfatto.
Mancava qualcosa, mancava assolutamente qualcosa, si ripeteva come un pazzo ad alta voce.
Era come se le sue mani volanti, non riuscissero più a cogliere la luce nella pietra, nonostante i progetti in terra cotta, fossero assolutamente come voleva. Sapeva che molti avrebbero riso, chiamandolo stress e continuando a dire quanto il suo lavoro fosse lodevole. Ma stress o meno, per lui non era più lo stesso di prima. Si grattò nervosamente uno dei cerotti che gli cingevano le dita, portati dai tagli nei momenti di poca attenzione. L'urlo che trasse fuori dai polmoni ruppe la quiete del bosco, inglobandolo in sé, promettendo così di non dire nulla ad orecchie indiscrete. Di non far notare a nessuno la perfidia contro se stesso.
Eren si asciugò le lacrime di pura frustrazione e rientró. Cercò di non guardare il macello mentre raggiungeva la borsa a tracolla e la sciarpa verdognola che si legò malamente al collo, prima di affrettarsi all'uscita della stanza improvvisamente angusta e soffocante. La chiuse gettando due mandate alla serratura e si allontanò come se potesse inseguirlo, scendendo le scale dal taglio elegante, senza degnare di attenzione tutti quegli studenti dalle divise perfette, in confronto alla sua camicia e ai suoi pantaloni comodi. Non gli importava molto di chi lo circondava, per quanto potesse sembrare superiore, Eren non traeva soddisfazione nel dialogare con quei ragazzi che non gli donavano nulla di particolarmente accettabile.
Lo chiamavano il prodigio egocentrico, per quanto non avesse mai guardato nessuno con superiorità o cattiveria. Solo estrema indifferenza. Parlavano di lui di tanto in tanto nella norma di ciò che l'accademia consentiva, chi invidioso dei suoi trattamenti, chi venerandolo per le sue mani abili e chi completamente assuefatto dalla sua presenza slanciata e fiera. La stessa che lo portavano ad avere molteplici pretendenti che non aveva neanche il bisogno di allontanare, visto il timore che giacevano nei suoi confronti, senza dare loro modo di avvicinarsi. Eren, d'altronde, non era mai stato visto con nessuno, oltre alle rate volte con i suoi amici regolari, con cui viaggiava da lezione a lezione, quando era fuori dai due giorni che gli erano stati assegnati per poter esentarsi e occuparsi delle opere. Nessuno conosceva molto sul suo conto, se non che il padre fosse un importante avvocato e la madre un medico dai guanti d'oro. Dunque era benestante sino al midollo.
Per quanti difetti potesse avere internamente, la natura non lo aveva privato di nulla, secondo loro. La bellezza, i soldi e quel dono che lo faceva quasi elevare dal suolo.
Cosa poteva volere di più?
Non sapevano però che da un grande dono, derivavano grandi responsabilità e soprattutto, grandi conseguenze.
Non parlava mai di come padroneggiare quell'arte lo avesse allontanato dall'umanità totale, non in grado di provare se non con lo scalpello e la pietra da incidere. Ma d'altronde, era solito che parlasse veramente di rado.
Nero ossido rese in ombra la sua visuale, Mikasa, nelle sue vesti del viso orientale e mortalmente modellato alla perfezione, fece muovere gli scuri capelli lunghi sottili sino alla schiena, a destra e a sinistra, negando qualcosa che gli era stato detto da Armin; un ragazzo di seconda che aveva il sole dorato in testa e le punte dei ghiacciai dentro gli occhi. Un contrasto che accalorava senza però sciogliere. Egli aveva le fattezze delicate, impossibile distinguere la mascolinità dal retro della schiena minuta, nonostante i lineamenti del volto più marcati di quand'era infante.
Il gloss della giovane brillò alla luce del sole quando aprì la porta d'entrata, lasciando uscire prima l'amico, poi però si bloccò quando trafelato arrivò Jean nella sua altezza e le spalle spesse che si muovevano sotto respiri pesanti. La zazzera di capelli castani era sconvolta dalla corsetta che era arrivata verso l'ala destra, dove l'aula d'arte lo aveva ospitato fino a dopo il suono della campanella. Era strano che non fosse stato ammonito per la mancata educazione, forse era stato solo un mancamento di vista dei supervisori.
Eren non poté non pensare che una sgridata sarebbe stato il minimo per rimediare al grande disastro che gli aveva rotto l'equilibrio, prima che si staccasse dal corrimano e uscisse dopo di loro, trovando la giusta aria per raccogliere la forza di scendere gli ultimi gradini, mentre ancora gli studenti lo sorpassavano, senza correre o andargli addosso, nell'ordine che solo una scuola privata poteva avere.
«Andiamo a mangiare?»
Raccolse così l'attenzione dei tre che lo guardarono da sopra le spalle. Attesero pazienti che fosse al loro fianco prima di scendere i gradoni grigi e ben puliti.
«Ti sei deciso a farti vedere, Dio scalpello?» lo ammonì Armin, rilegando una risatina ironica a Mikasa.
Il discorso avaporò sotto una sua alzata di spalle, che di voglia di parlare ne aveva proprio per nulla e Jean per buona decisione, decise la strada del silenzio mentre camminavano verso il bar più vicino. Sotto le chiacchiere sui corsi che seguivano.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top