Capitolo 9 - Paura
[- ATTENZIONE: Il capitolo potrebbe risultare forte se sei facilmente impressionabile. Il mio modo di scrivere è molto delicato, ma è giusto avvisarti.
Il video che vedi all'inizio è il Sound Track iniziale, da cambiare quando leggerai la frase "Alcune gocce di pioggia...". Di seguito il secondo Sound Track. Buona lettura. -] -Mâg-
https://youtu.be/8Zc4S1shXas
PAURA
Quando il treno arrivò Sabrina liberò un fiume di lacrime addolorata dalla partenza di Melany, considerata come una seconda figlia, mentre Rebecca la pregava di darsi un contegno, imbarazzata dagli sguardi dei passanti. Le due ragazze avevano passato tutta la sera a chiacchierare, soffermandosi sui loro problemi di cuore, e finendo per cadere nel sonno a notte fonda. Il tempo era trascorso troppo in fretta e Melany, a malincuore, doveva rientrare a casa, quella nuova.
La stazione era gremita di gente e il convoglio, previsto per le quindici, sopraggiunse in perfetto orario.
«È così bello averti a casa. Non andartene... Non ci lasciare!» piagnucolò Sabrina, abbracciando energicamente la ragazza.
«Mamma, non sta morendo! E devo ricordarti che tua figlia sono io?» sbottò Becca, a disagio per il suo comportamento esagerato.
«Grazie davvero per l'ospitalità, Saby. Ci rivedremo presto, te lo prometto» disse Melany battendo pacche sulla spalla della donna, che non accennava a lasciare la presa su di lei.
Mentre cercava di consolare la madre della sua migliore amica, sempre troppo emotiva, scorse un anziano signore seduto sulla panchina lì vicino che, pur vestendo abiti eleganti, indossava un paio di scarpe da ginnastica rosso, verde e bianco. Lo spirito sportivo era molto radicato nel suo paese e quelle erano le scarpe ufficiali della squadra di calcio giovanile, raffiguranti i colori dello stemma: una volpe rossa, su sfondo bianco e cornice di alloro verde. Guardandosi intorno si accorse di altre persone che indossavano indumenti della squadra, cosa che lei aveva sempre considerato terribilmente trash. Non si era mai interessata alle consuetudini paesane e trovava eccessive tutte quelle attenzioni riservate a una squadra vincitrice di un solo campionato regionale; tuttavia, in quel momento, nacque in lei il desiderio di possedere qualcosa che potesse ricordargliela e si promise di acquistare almeno un souvenir, la prossima volta.
«Allora ci sentiamo per messaggio» disse Rebecca, salutando dalla banchina.
«Tranquilla, ti scrivo appena arrivo» rispose Melany, posizionando gli zaini sopra la poltrona che contrassegnava il suo posto. Continuò ad agitare la mano verso Becca e Sabrina finché poté ancora vederle dal finestrino, poi lo chiuse e si sedette, rassegnata al rientro a casa. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa allo schienale, sospirando.
Non ebbe il tempo di rilassarsi un solo minuto perché subito distratta dalla suoneria del suo cellulare, che intonava la melodia di uno dei suoi Anime preferito.
«Sono partita in questo momento» dichiarò Melany seccamente, rispondendo.
«Bene. Volevo dirti che faccio io la spesa, però non ci sarò per cena» affermò sua madre.
«Tranquilla, non c'è problema» mormorò, già sapendo cosa le avrebbe detto.
«Se vuoi ti lascio qualcosa di pronto!»
«No! Basta la spesa, grazie...» sbottò sottovoce, irritata.
«Ok, ok. Ci vediamo alla stazione. Arriverò in taxi. A dopo, tesoro» disse Claudia prima di chiudere la chiamata.
Non aveva alcuna voglia di tornare in quella fredda e frenetica città e, inaspettatamente, l'anonimo panorama del suo paese natio le sembrò tanto bello da farle desiderare di poterlo interamente esplorare, senza tralasciare neanche un vicoletto. Tuttavia, al tempo stesso, l'ansia e l'emozione di rivedere Ren, adesso che aveva ammesso a se stessa i suoi sentimenti, le bruciavano nel petto come fiamme ardenti bisognose di ossigeno. Quasi inconsciamente, prese il telefono dalla tasca del giubbotto per ricontrollare l'elenco delle chat, così da rendersi conto, per l'ennesima volta, che non si era immaginata tutto. Fra un sorriso ebete e l'altro, le cadde lo sguardo su un uomo seduto poco più in là di lei, di cui vedeva sono la scarpa sinistra sporgere nel corridoio del vagone. "Eccone un altro con quelle scarpe" pensò e, appoggiando nuovamente la testa allo schienale, guardò nostalgica fuori dal finestrino.
«A presto, paese mio» sussurrò.
Erano ormai le otto di sera quando il treno arrivò a destinazione e, fuori dalla stazione, sporadici fulgenti lampi di luce attraversavano il cielo tetro e minaccioso, annunciando il temporale in arrivo. Melany si guardò intorno alla ricerca di sua madre, ma non vedendola arrivare posò i bagagli su una panchina e le telefonò.
«Ma dove sei?!» sbraitò quando, dopo tanti squilli, finalmente le rispose.
«Scusami, tesoro, ho avuto un contrattempo. Puoi tornare a casa da sola?» disse con tono mesto. La rabbia impiegò un solo secondo a invaderle il petto.
«Come?! E non potevi dirmelo prima?! Ci vorrà quasi un'ora a piedi...» ribatté spazientita, passeggiando nervosamente con una mano fra i capelli.
«Lo so, mi dispiace. Però, a te piace camminare, vero?»
«Sì, ma che cavolo cent... Vabbè, ho capito. Ciao!» tentò di controbattere, ma alla fine chiuse la telefonata perché non desiderava gridare in luogo pubblico e rispose il cellulare nella tasca superiore dello zaino.
Possibile che dovesse essere sempre così? Non che avesse timore di passeggiare a quell'ora, ma dopo quasi cinque ore di viaggio era stanca e voleva solo buttarsi sul letto. Mandò un breve messaggio a Becca per informarla del suo arrivo, prese le cose che aveva poggiato e si avviò verso casa a passo svelto.
Nell'aria, il vento freddo portava con sé il profumo della pioggia; le strade erano affollate, gremite di gente frettolosa, alla ricerca di un riparo per l'imminente acquazzone. Per Melany, abituata al suo piccolo paese, tutta quella frenesia era eccessiva, frastornante, soprattutto perché non si sentiva dell'umore giusto per incrociare nessuno. Infastidita, decise d'imboccare una stradina un po' più intima, scovata grazie a Google Maps sul suo cellulare, in cui sembrava non esserci anima viva. Inizialmente titubante, si convinse riflettendo sul fatto che, passando per quella via, sarebbe giunta vicino casa di Ren. "Se vado di qui allungo un po', ma potrei essere fortunata e incontrarlo" pensò, procedendo a passo svelto e impaziente. La sua voglia di rivederlo pareva aumentare ogni minuto e sapeva che, ormai, non le sarebbero più bastate le chiacchiere di circostanza dopo la scuola. Tuttavia, cosa fare? Non aveva idea di come si sarebbe dovuta comportare con lui, da quel momento in poi.
All'improvviso un dolce profumo arrivò sotto il suo naso. In quel piccolo vicolo dimorava un panificio ancora aperto, dal quale proveniva un incantevole aroma. Stava morendo di fame perché non aveva portato nulla con sé da sgranocchiare durante il viaggio, e le sarebbe andato più che bene un semplice tozzo di pane. Si fermò di fronte alla vetrina per scegliere cosa comprare, ma presto tornò in sé ricordandosi di non avere un soldo. Melany liberò un profondo sospiro carico di delusione e riprese il suo cammino mantenendo lo sguardo basso, cosa che le permise di notare qualcuno indossare le scarpe tipiche del suo paese. "Ma dai... Anche qui? Se ripenso che poche ore fa ero con Becca..." rimuginò, poi scosse la testa concentrandosi sulla sua reale meta: casa di Ren.
Alcune gocce di pioggia le caddero fredde sulla testa, spingendola ad affrettare il passo, ma, dal momento che non aveva prestato particolare attenzione alla strada percorsa, si fermò improvvisamente, convinta di aver sbagliato direzione, scontrandosi con un uomo che non si era accorto della sua frenata e che, per questo, le sbatté contro.
«Ahi! Mi scusi! Mi sono fermata di bot...» disse Melany mortificata, ma qualcosa attirò la sua attenzione, interrompendola.
«Tranquilla, tranquilla. Andiamo dalla stessa parte» le disse l'uomo, con un lungo impermeabile nero, sorridendole. Lo sconosciuto era molto più alto di lei, con la pelle abbronzata e i capelli castani. Fisionomia che la ragazza ricordava molto bene.
«Ma tu... Alex? Cosa ci fai qui?» domandò spalancando gli occhi dallo stupore.
«Allora è qui che vivete...» commentò l'uomo, soddisfatto, guardandosi intorno.
Melany avvertì subito la tensione crescerle nel petto; si sentiva a disagio e abbassò lo sguardo, confusa e imbarazzata per quella situazione, tuttavia, un attimo dopo ogni emozione venne spazzata via da un'unica prepotente e infima sensazione: paura.
«Le tue scarpe... in treno... e al panificio...» mormorò come se stesse formulando un pensiero ad alta voce, poi alzò lo sguardo. «M-Mi stai seguendo...?» bisbigliò con terrore, tremando, forse più per quanto appena realizzato che per il freddo portato dalla pioggia.
Alex le rivolse un sorriso arcigno, gelido e compiaciuto.
«Merito dei chiarimenti, Melany. Non ti pare?» replicò con arroganza, estraendo le mani dalle tasche, sollevando la visiera del cappello e imprimendo i suoi abissali occhi di tenebra nel gelido mare notturno che abitava in quell'istante le iridi della ragazza.
Alessandro era sempre stato un tipo apparentemente calmo, sempre disponibile, tuttavia, quando sua madre rientrava a casa insieme a lui, non riusciva a capire come lei non notasse gli sguardi viscidi e languidi che le riservava.
L'angoscia si fece strada nel cuore di Melany, trasformandosi in prepotente esigenza di scappar via.
«M-Mia madre ti ha già spiegato il motivo delle sue azioni» mormorò, muovendo un passo indietro per creare più distanza fra loro, e guardandosi intorno alla ricerca di un passante.
«E tu credi che mi possa bastare un dannatissimo post-it?!» inveì rabbioso, vomitando con odio le parole. All'improvviso le afferrò un braccio, avvicinandola bruscamente a sé. «Io le ho dato tutto... Vi ho dato tutto. E voi mi ripagate così?!» aggiunse, mostrando i segni del rancore sul volto e stringendo con forza la presa sulla ragazza. I suoi occhi, neri come la pece, non sembravano umani, ma simili a quelli di una bestia che aveva appena afferrato la sua vittima.
«Ti prego, Alex, lasciami! Mi stai facendo male!» lamentò Melany impaurita, nel tentativo di liberarsi dalla sua morsa.
«E no, mia cara. Cosa credi che sia venuto a fare qui? È giunto il momento che mi prenda la mia ricompensa» affermò con voce roca, graffiante e carica d'impuri propositi.
Melany si dimenò, lasciando cadere i bagagli per terra, ma non riuscì a liberarsi. Alex, del tutto immune alle sue proteste, la trascinò dove la luce del lampione non riusciva ad arrivare. Brividi di terrore scavavano nella sua pelle mentre l'uomo la spingeva contro la parete di mattoni.
«C-Che cosa vuoi da me? S-Se mi lasci prendere lo zaino p-posso chiamare mia madre e cerchiamo di risolvere...» biascicò le prime parole comparse nella sua mente. Se fosse riuscita a raggiungere la borsa per prendere il cellulare forse avrebbe potuto chiamare aiuto. Ma chi? Chi sarebbe corsa a salvarla? Non conosceva nessuno in quella città.
«Oh, ma io ho già la soluzione. Non agitarti e cerca di essere collaborativa, se non vuoi farti male» sibilò attirandola a sé per poterla baciare.
Melany, terrorizzata, si agitò più che poté, riuscendo a evitare quel contatto intimo che voleva rubarle con brutalità; un attimo dopo, provò a gridare, nella speranza che la sua paura venisse ascoltata da qualcuno, ma Alex la spinse subito con forza contro il muro e lei, inerme nelle sue mani, batté violentemente la nuca, avvertendo una prepotente fitta alla testa che la rese confusa e senza forze.
Quando Melany si accasciò a terra a causa del forte dolore, Alex ne approfittò per spingerla con la schiena contro il pavimento, salire su di lei e tentare di slacciarle i pantaloni. Per un secondo, tutto si fermò. Il rumore della pioggia, il vento sferzante, le sue mani su di lei, le lacrime appena partorite dalla paura. E il tempo si riavvolse: il forno, la stazione, casa di Becca, la sua stanza, l'appartamento di Ren. Se lei non fosse fuggita dai suoi sentimenti forse non si sarebbe ritrovata in quella situazione. Se fosse stata meno codarda non avrebbe mai permesso che lui le trovasse.
In quella terribile notte in cui il cielo turgido piangeva lacrime amare, nessuno passò di lì, nessuno seppe salvarla dal buio delle tenebre. Era sola, indifesa, vittima della furia di un uomo che di umano aveva perso ogni cosa.
"Colpiscilo!" gridò la sua coscienza.
"Non ho le forze..." rispose lei.
Il tempo riprese a scorrere: la pioggia ricadde violenta, il freddo gelava le ossa e le sue dita avevano abbassato la zip dei jeans. Melany voltò il capo, come ultimo tentativo di ricercare aiuto, e un luccichio arrivò in suo soccorso: una bottiglia di birra vuota giaceva a un palmo dalla sua mano. Non ci pensò due volte, subito la prese e la ruppe con forza sulla testa di Alex, il quale, dopo aver lanciato un urlo di dolore, si accasciò a terra, accanto a lei. Con le ultime forze rimaste in corpo, si alzò barcollante e corse via, via dal mostro, lontano da quell'incubo.
"Aiuto... aiutatemi" tentava di pronunciare ma non riuscì a emettere alcun suono. Correva sotto la pioggia insistente, senza preoccuparsi di dove stesse andando. Era fradicia, bagnata dalla testa ai piedi e per quello nessuno notò il suo volto rigato dalle lacrime e stravolto dallo sgomento. Continuò a correre, più veloce che poté, finché non andò a sbattere. Di fronte a lei una felpa rossa e un giubbotto da militare.
«Melany?» sussurrò una voce maschile.
«Lasciami! Lasciami andare!!» gridò lei, dimenandosi dalla presa sulle sue spalle. Nessuno doveva avvicinarsi. Nessuno doveva mai più toccarla! Alzò lo sguardo sul nuovo assalitore e subito i suoi occhi si riempirono del riflesso della luna. «Ren...» mormorò esausta.
Il volto di Ren fu immediatamente sconvolto dall'immagine di Melany pervasa dal terrore. Lei, che lo aveva sempre guardato con i suoi splendidi occhi di giada pieni di vita, aveva smarrito ogni traccia di luce, sovrastata dalle tenebre più oscure. Senza pensare la strinse forte a sé, sentendo il suo fragile corpo tremare senza controllo.
«Ti prego! Portami via! Nascondimi! Ti supplico...» lo implorò, ricambiando il suo gesto in un abbraccio disperato.
Lui, che indossava una giacca impermeabile, si tolse l'abito e la coprì per ripararla dalla pioggia. Rimasero così. Senza dirsi più nulla. Avvolti da un'intenso silenzio.
Melany restò in silenzio per tutto il tragitto che i due ragazzi, mano nella mano, fecero insieme. Ren non le chiese niente nonostante desiderasse conoscere tutto, apprendere la ragione del suo terrore e fare qualcosa per lei. Entrati nel suo appartamento, il ragazzo si diresse subito nel bagno, mentre lei girovagava per il soggiorno, borbottando.
«Tieni, asciugati» disse Ren porgendole un asciugamano, che tuttavia lei ignorò.
«D-Devo chiamare mia madre. Sì, la d-devo avvisare. Dirle che...» mugugnò, camminando freneticamente avanti e indietro fra cucina e soggiorno. «Ma lo zaino... lo zaino mi è caduto... Devo chiamare mia madre...» continuò, aumentando la velocità dei suoi passi.
«Melany, calmati. Puoi chiamarla dal mio telefono, se vuoi» cercò di rassicurarla Ren, sperando che si fermasse, ma la ragazza non sentiva ragioni. Continuava a ripetere la stessa frase, ancora e ancora. «Melany, cos'è successo? Cosa ci facevi sotto la pioggia? E... le tue mani... Ma, cosa...?» aggiunse, spalancando gli occhi quando vide del sangue sulle sue dita.
«I-Io... io l'ho colpito... l'ho colpito con una bottiglia. Io...» tentò di raccontare, osservando con orrore i suoi palmi e strofinandoli fra loro nel tentativo di ripulirli.
Ren impietrì. Aveva intuito subito che le fosse accaduto qualcosa di terribile e le sue parole scombinate arrivarono dritte al cuore, devastandolo dal dolore. Non sapeva cosa fare, come aiutarla. Il petto si gonfiò di rabbia e di un orrendo, infimo e oscuro desiderio di vendetta.
«Dobbiamo disinfettarle» si affrettò a dire cercando di riprendere il controllo su se stesso. Il ragazzo aprì un cassetto estraendone acqua ossigenata e cotone.
Quando si voltò verso di lei, Melany indietreggiò, spaventata, angosciata dal pensiero che anche lui potesse farle del male. La sua agitazione non accennava a diminuire: riprese a muoversi con frenesia, senza smettere di strofinare le mani. Ren si sentì profondamente addolorato, vederla così lo sconvolse nel profondo, tuttavia non poteva lasciarla sola con il suo tormento. Si sedette sul divano e, sospirando, decise di rispondere a una sua vecchia domanda.
«La sigaretta» sussurrò con sguardo perso nel vuoto. Melany si fermò, voltando leggermente il capo verso di lui. «Hai detto che volevi sapere perché non le accendo e le butto intere. Beh...», iniziò a raccontare rigirando la boccetta di disinfettante che aveva fra le mani, «... quando ero piccolo mi ammalavo molto spesso e mia madre ha sempre pensato che fosse colpa sua perché anche lei era sempre stata cagionevole da giovane. Un giorno mi ricoverarono in ospedale e da quel momento lei iniziò a fumare per scaricare la tensione. È morta tre anni fa per un carcinoma ai polmoni. Io... in realtà, non so bene perché abbia preso questa particolare abitudine. Forse, è un modo per non dimenticare che la causa della sua morte sono io e non le sigarette» concluse con amarezza. Non aveva mai pensato seriamente al motivo del suo gesto e si ritrovò sconcertato da quella rivelazione, soprattutto per la naturalezza con cui era riuscito a parlarle. La sua vicinanza lo confondeva. Sotto i suoi occhi si sentiva esposto, senza difese.
Melany ascoltò le sue parole in silenzio. Aveva smesso di tremare, concentrata a osservare il velo di tristezza che avvolgeva gli occhi di Ren. Quel triste racconto le aveva accarezzato il cuore. Lentamente si sedette accanto a lui che le rivolse un dolce sorriso, poi mosse una mano verso di lei, palmo al cielo, sulla quale Melany posò la sua. Con il cotone imbevuto di disinfettante, delicatamente, pulì le sue ferite.
La ragazza, forse commossa dalla sua gentilezza, forse per scaricare tutta la tensione accumulata, senza rendersene conto, nascondendo gli occhi con una mano, iniziò a singhiozzare, vergognandosi di se stessa, della sua incoscienza e della sua impotenza.
Ren ascoltò la sua sofferenza in silenzio, continuando a carezzarle le mani nella speranza di consolarla, affranto dalla vista di quelle candide lacrime.
«Ci vogliono dei cerotti. Vado a chiederli a Teresa» sussurrò all'improvviso il ragazzo alzandosi dal divano, ma lei lo fermò subito, trattenendolo per un lembo della maglietta.
«Aspetta... N-Non voglio rimanere da sola... Ti prego» bisbigliò, osservando la sua immagine riflessa nello specchio d'acqua dei suoi occhi.
Ren si mise in ginocchio, le spostò delicatamente la frangetta con le dita e le diede un bacio sulla fronte. Poi, le accarezzò una guancia, immergendosi nel mare delle sue iridi.
«Non ti lascerò mai sola. Torno subito. Aspettami qui» dichiarò sorridendo, con tono rassicurante e, quando lei gli fece un cenno di assenso, uscì di casa.
Le mani tremavano per la tensione e il sangue ribolliva impetuoso nelle vene. Vedere Melany così spaventata e pervasa dal dolore lo stava facendo impazzire. Ma ciò che, più di tutto, gli dava il tormento era la sua impotenza: voleva vendicarla, riducendo a un ammasso di carne quel pezzo di merda che aveva osato metterle le mani addosso. La sua mente era totalmente pervasa da oscuri pensieri carichi d'odio.
«Ecco a te, giovanotto. Tieni pure tutta la scatola, ne ho altri» disse Teresa, porgendogli i cerotti presi dal mobiletto del soggiorno.
«Ah... sì, grazie, Teresa» rispose Ren, abbandonando momentaneamente i suoi pensieri.
«Oggi tutti feriti» aggiunse l'anziana, scuotendo la testa. Il ragazzo le rivolse uno sguardo confuso.
«Come? Tutti chi?» chiese, superando la soglia dell'appartamento.
«C'è un tizio nel vicolo qui vicino tutto insanguinato. L'ho visto mentre portavo da mangiare al gattino. Mi sono spaventata e ho chiamato l'ambulanza, anche se non mi sembrava messo così male... Ehi! Ma dove vai?» gridò Teresa per farsi sentire da Ren, che si era precipitato frettolosamente fuori dal portone.
«Mi assicurerò che l'ambulanza gli serva» sussurrò fra sé e sé.
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