Capitolo 3 - L'inizio

Melany rientrò a casa combattuta fra la voglia di dormire e la fame impellente ma, per sua sfortuna, non poté fare nessuna delle due cose. La cucina era ancora imbrattata dagli esperimenti falliti di quella mattina fatti da sua madre, la quale, ovviamente, non aveva per nulla considerato la richiesta di pulire. Scansando macchie di cibo qua e là, decise di dedicarsi prima ai desideri del proprio stomaco e poi di sistemare quel casino, ma aprendo il frigorifero trovò solo un paio di carote e della maionese.

Buttò a terra lo zaino, prese un respiro profondo ed espirò tutta l'aria con calma, sperando che quel gesto le facesse passare la voglia di urlare e rompere qualcosa. Chiuse con stizza il frigorifero e si diresse verso una zuccheriera in ceramica in cui Claudia era solita riporre il denaro, ricevuto non si sa come né da chi, e neanche ci teneva a saperlo. Si avvicinò al tavolo posto al centro del cucinino per accartocciare il fogliettino informativo lasciatole dalla genitrice, lo buttò nel cestino e uscì di casa sbattendo la porta.

Con le mani in tasca, procedendo a passo svelto per le strade rumorose, Melany rimuginava su quanto fosse sconsiderata sua madre. Non c'era da stupirsi se suo padre, Alfred Rose, insegnante di lingua inglese, avesse deciso di lasciarla. All'inizio, Melany aveva vissuto un periodo di conflitto con Claudia, addolorata dalla sua perdita, e, soprattutto, delusa di dover rimanere con la madre. Adorava il papà, sempre tanto attento alla sua piccolina: ogni sera le narrava favole sul suo letto, la portava spesso a giocare al parco o in qualunque posto le piacesse e la domenica, nel pomeriggio, costruivano spesso insieme i modellini 3D delle varie opere architettoniche di tutto il mondo. Era un uomo buono, amabile, e ancora si chiedeva perché, uno come lui, avesse preso la terrificante decisione di abbandonare la sua famiglia. Pur non volendo, continuava a incolpare Claudia, ma anche se stessa: più volte si era chiesta se fosse stata una bambina troppo esigente, troppo vivace, troppo insistente... Scosse la testa per liberarsi da quei pensieri deleteri. Ormai pensava di rado ad Alfred, tuttavia, a causa del trasloco, i ricordi continuavano a riaffiorare da soli, spesso di notte quando le sue difese erano deboli e le lacrime libere di sgorgare.

Decise di tornare a concentrarsi sul problema principale: sua madre. "Adesso spendo tutti i soldi che ho preso e quando mi chiederà che fine hanno fatto le risponderò che è solo colpa sua!" sbottò nella sua mente, fermandosi davanti al menù espositivo di un ristorante su cui posò gli occhi. All'improvviso il panico la travolse: si era fiondata fuori casa senza prestare attenzione a dove stesse andando, troppo presa dai pensieri, in una città che non conosceva e, per di più, aveva lasciato il cellulare nello zaino della scuola. Provò a ripercorrere i suoi passi, ma era stata troppo distratta e non ricordava nulla.

Un inaspettato colpo di fortuna le si palesò davanti agli occhi.

«Ehi! Ehi!» gridò Melany agitando la mano, avvicinandosi di fretta alla sua salvezza. «Ciao. Ti ricordi di me? La compagna nuova di questa mattina» continuò sfoggiando un sorriso smagliante.

«Sì... certo» rispose atona la ragazza in nero.

«Ecco, senti... non conosco bene la città e...» provò a spiegarle la situazione, molto imbarazzata. Gran bella figura le era toccata fare, ma non vedeva alternative se non chiederle aiuto.

«Non mi dirai che ti sei persa?» ridacchiò lei, incredula.

«No!» esclamò Melany in difficoltà, tuttavia, sapeva bene quanto fosse inutile mentire. «Cioè... sì, mi sono persa... Per favore, mi aiuteresti a trovare la strada per tornare a casa? Mi sono trasferita da poco e non conosco il posto» aggiunse sconfitta.

Dopo un primo momento d'incertezza, la compagna di banco, spinta dalla pietà nei confronti del suo disagio, decise di indicarle la via; le disse di abitare in quel quartiere da quando era nata e che conosceva  tutte le strade alla perfezione.

«Ehm, non è che sapresti indicarmi anche un supermercato da queste parti?» incalzò Melany, consapevole di star abusando troppo della sua improvvisa cortesia. Tuttavia, contro ogni aspettativa non vi furono alcune occhiatacce o risposte sgarbate.

«Vieni con me. Stavo andando lì». La stupì facendole cenno di seguirla.

Passeggiarono senza parlare, in completo silenzio, attraversando vicoli e stradine per accorciare il tragitto, e, alla fine, entrarono in un piccolo alimentari.

«Non c'è molta roba qui, ma trovi l'essenziale» disse la ragazza, prendendo un sacchetto di Pop-Corn dallo scaffale di fronte a sé.

«Oh, non c'è problema. Tanto cercavo solo alcune verdure semplici» rispose Melany esaminando il banco frigo. Aveva voglia di qualcosa di veloce, magari un'insalata, ma anche una zuppa di legumi già pronta le sarebbe andata bene, se l'avesse trovata.

«Ahh, sei una di quelle che fanno la dieta per piacere ai ragazzi» replicò sarcastica la compagna, aggiungendo al suo cestino una bibita gassata.

«No, semplicemente sono vegetariana» dichiarò lei prendendo un paio di confezioni d'Iceberg già pulita e lavata, poi s'incamminò verso la cassa.

«Ah... beh, problemi tuoi» sentenziò la giovane mentre pagava il suo conto. Melany alzò gli occhi al cielo. Detestava essere soppesata per le sue scelte. La gente era sempre pronta a puntare il dito contro ciò che non condivideva, perché trovava necessario, quasi vitale, definire diverso quel qualcosa che non riusciva a comprendere, o che si distaccava dal concetto di normalità. La loro normalità.

Uscite dal negozio la ragazza dai lunghi capelli corvini spiegò a Melany la strada da intraprendere per rientrare a casa con molta precisione, cosicché non si sarebbe potuta sbagliare.

«Ti ringrazio. Sai, non mi era mai successo di perdermi. È colpa di mia madre che...» cercò di dirle Melany, nel tentativo di socializzare come ricompensa per la sua gentilezza, ma venne subito interrotta.

«Ehi. Non sono interessata a conoscere i fatti tuoi» esclamò la giovane, seccata. Subito si volse nella direzione opposta a quella indicata alla ragazza e, con un lieve cenno di saluto, si allontanò a passo svelto, quasi fosse in ritardo per qualcosa o desiderasse allontanarsi di lì il prima possibile.

Giunta in quel detestabile appartamento, Melany aveva ormai perso lo stimolo della fame, nervosa, infastidita, agitata... non sapeva bene neanche lei quante fossero le emozioni negative che albergavano nel suo cuore. E ancor meno aveva voglia di trasformarsi in Cenerentola per risolvere un disastro non suo, lei che si sentiva più come La bella addormentata, in attesa che qualcuno la destasse dal suo incubo quotidiano.

Si buttò sul divano e si addormentò.    

La mattina dopo, Melany si svegliò prima del solito orario in cui Claudia la chiamava. Il giorno prima aveva dormito così tanto sul divano da trovare difficoltà a prendere sonno la notte. Anche se avrebbe voluto crogiolarsi un altro po' nel letto, doveva ancora sistemare la baraonda in cucina, se non voleva ritrovarsi la casa invasa da formiche e insetti vari - cosa che le riportò alla mente uno spiacevole ricordo di qualche anno prima.

Così, fra una strofinata e l'altra, perse di vista l'orario rischiando di far tardi a scuola. Arrivò di corsa in classe e si accomodò senza pensare accanto alla ragazza singolare, già seduta al suo posto e intenta a scrivere poesie, racconti o quello che era.

«Quel posto è occupato» ribadì la giovane ancora fasciata dal giubbotto di pelle.

«Lo so, lo so. Ma da chi?» le chiese Melany, cercando di sviare il discorso. Che senso aveva lasciare un posto libero se il proprietario continuava ad assentarsi? E poi, non c'era di certo il suo nome inciso sopra. "Chi tardi arriva male alloggia" pensò fra sé e sé, decisa.

«Un ragazzo...» le rispose con un filo di voce, alzando lo sguardo dal quaderno. «L'anno scorso è stato ricoverato in ospedale e stiamo aspettando che torni, anche se non sappiamo quando». Quella rivelazione la fece sentire meschina nei confronti del pensiero appena avuto. Stava rubando il posto a un malato! Si ripromise che, nonostante detestasse l'idea di risedersi lì dove era stata destinata, gli avrebbe restituito il banco al suo ritorno o non si sarebbe sentita in pace con se stessa.

«Capisco...» sussurrò Melany osservando la compagna. Aveva risposto subito alla domanda su quel ragazzo e la sua voce le era parsa molto dolce, delicata, del tutto differente dal tono che le aveva riservato finora.

Che ci fosse un legame fra i due? Possibile che stessero insieme? Dunque, era quello il motivo per cui non voleva che occupasse il suo posto? Se fosse stata quella la verità avrebbe potuto comprendere meglio il suo strano atteggiamento.

«Beh, è un ragazzo simpatico a tutti e... Ah! Una volta...» iniziò a raccontare.

«Ehi! Non sono interessata a conoscere i fatti tuoi!» esclamò Melany interrompendola, rimarcando la stessa frase che la ragazza aveva riservato a lei il pomeriggio precedente. Tuttavia, si sentì subito in colpa osservando la sua espressione ferita. «Dai, sto scherzando! Volevo solo rispondere come fai sempre tu, con simpatia». Cercò di difendersi, ma la compagna di banco sembrò non accettare le sue scuse e non le rivolse più la parola.

La campanella d'inizio ricreazione echeggiò nell'istituto e Melany si alzò in piedi pronta a comprare i tarallini presi il giorno prima, nella speranza di riuscire a mangiarli con più calma. Mosse qualche passo verso l'ingresso, ma un attimo dopo si sentì picchiettare sulla spalla. Osservò la ragazza dai capelli corvini affiancarla e rivolgerle un cenno con la testa. «Andiamo, vieni con me» disse e, senza curarsi di essere seguita, superò l'uscio.

Melany rimase immobile, sconcertata: per un attimo si immaginò nel bagno femminile, circondata da ragazze dall'aura oscura decise a vessarla a causa del suo comportamento sgarbato nei confronti di un loro membro. Tuttavia, facendosi coraggio, decise di seguirla. Scesero di fretta fin giù al piano terra, precisamente nell'aula in cui si riunivano i bidelli e dove trovarono molti studenti in fila.

«Prima, quando mi hai interrotto mi sono incazzata, devo dirtelo. Poi, però, ho capito quanto ieri sera sono stata stronza e mi dispiace» le disse d'improvviso la compagna, in prossimità della soglia. «Così ho deciso di farmi perdonare. Durante la ricreazione i bidelli preparano dei panini e puoi chiedere di farcirlo come preferisci. Oggi il tuo lo offro io» aggiunse entrando.

Melany rimase sorpresa a fissarla. Caspita, che cambiamento! Se l'avesse saputo prima non avrebbe esitato a farle notare il suo atteggiamento scortese già dal giorno prima.

«Ah, grazie... Non me l'aspettavo» confessò superando l'uscio.

«In ogni caso io sono Clarissa, ma puoi chiamarmi Risa» le disse con un sorriso stentato e anche un po' inquietante, poi si rivolse alla bidella oltre i banchi. «Anna, per me il solito con mortadella e mozzarella e uno anche per questa qui» proseguì, indicando la ragazza con un movimento della mano.

«Questa qui sarebbe Melany e sono vegetariana. Niente roba morta per me, grazie» ribadì con decisione, per nulla intimorita dall'esser ancora giudicata.

«Ah, già...» mormorò, incapace di comprendere la sua scelta. «E uno con roba verde dentro per questa qui, anzi per Melany» corresse l'ordinazione, e anche l'appellativo.

Poco distanti, nel corridoio, erano state sistemate delle sedie vicino al muro dove le ragazze si sedettero a mangiare, senza proferire parola. Risa fu molto veloce nel consumare il suo spuntino, divorato in pochi morsi, e senza aspettare la compagna si drizzò in piedi pronta a rientrare in classe.

«Fa' presto o ti prenderai una nota» le disse di spalle, incamminandosi.

Melany si affrettò a finire il pasto e dopo aver buttato la carta nel cestino accanto a lei sentì suonare la campanella di fine ricreazione; subito si avviò per tornare in aula, tuttavia, avvicinandosi alla rampa di scale, udì dei lamenti provenire dal corridoio vicino.

Erano ormai anni che aveva smesso di immischiarsi in faccende che non la riguardavano e non voleva essere coinvolta in qualunque cosa stesse succedendo da quelle parti. Eppure, al secondo grido disperato, si avvicinò al luogo da cui provenivano le voci: verso la metà del corridoio, scorse tre ragazzi mal vestiti, trasandati, trascinarne uno mingherlino all'interno di una classe, presumibilmente vuota. Ansiosa, il suo primo pensiero fu quello di far finta di non aver visto nulla; non le era mai capitato di affrontare bulli maschi, solo alcune ragazze arroganti, e sapeva quanto potevano essere sgradevoli. Doveva voltarsi e andar via o rischiava di prendere una nota se si fosse attardata oltre. Poi, però, contro ogni aspettativa e senza un piano ben preciso, si precipitò decisa in quell'aula.   

«E-Ehi! Che state facendo?» esclamò cercando di sembrare sicura di sé, sconcertata dalla folle decisione d'intromettersi. «Guardate che ho avvisato i bidelli!» continuò, vedendo che nessuno dei ragazzi di fronte a lei si curava della sua presenza.

Pessima, pessima idea quella di piombare lì senza pensare! Ma quella era una sua orribile abitudine, dura a morire. Avesse perlomeno chiamato davvero qualcuno...

I tre brutti ceffi erano del tutto assorti dai loro affari di estorsori ai danni del malcapitato, steso a terra; la stanza era poco illuminata, resa tale dalle persiane socchiuse, ma sul fondo riuscì a intravedere un quarto ragazzo. Seduto con i piedi sul banco, era immobile, intento ad ascoltare musica con gli auricolari che fuoriuscivano dal cappuccio sistemato sulla testa e le mani nella tasca centrale della felpa. "Ho già visto quella felpa..." pensò soffermandosi a guardarlo, ma dove? Non conosceva nessuno in quell'istituto, eppure lui...

La sua attenzione venne catturata da uno dei tre ragazzi che, dopo aver preso ciò che cercava dalla sua vittima, si drizzò in piedi avvicinandosi a lei.

«E tu chi sei, ah? Fatti i cazzi tuoi» ringhiò il giovane dai capelli e occhi bruni, a pochi centimetri dal suo viso. Era alto, robusto e molto inquietante.

Melany inghiottì a disagio. «Ho...», deglutì ancora, «... ho chiamato i bidelli e stanno arrivando. Vi conviene smetterla» mormorò, conscia che nulla li avrebbe persuasi a cessare quei maltrattamenti. Per loro era un gioco divertente, li rendeva forti, temibili, superiori. Perché mai avrebbero dovuto smettere?

Mosse d'istinto un passo indietro verso l'uscita; l'aula del personale era vicina e poteva raggiungerla in un batter d'occhio. Se solo ci avesse pensato prima...

«Ah, sì? E come mai non sono già qui? Te lo spiego io...» ribatté lui, strattonandola per un braccio così da poter chiudere la porta e spingerla contro il muro. «Perché in questo cesso di posto a nessuno frega un cazzo di quello che succede e siamo noi a comandare» continuò, marcando la ragazza contro la parete.

La situazione le era ormai sfuggita del tutto di mano. Erano in tre, anzi quattro contro una ragazza e la tensione le salì a fior di pelle. Le buone intenzioni di Melany svanirono in un lampo, facendole desiderare di scappar via a gambe levate prima che le circostanze degenerassero oltre, se pur dispiaciuta per il ragazzo aggredito. Tuttavia, rischiava di diventare lei stessa un'altra vittima, se già non lo fosse.

«Ook... A-Allora io andrei...» mormorò la ragazza, alzando le mani parallele al petto in segno di resa. Voltò meccanicamente il capo verso la porta e, fissando gli occhi sulla maniglia, provò a muovere un passo.

«E dove vorresti andare? Resta a giocare con noi» le disse il ragazzo, afferrandole una ciocca di capelli per annusarla. «Non sei esattamente il mio tipo, non ho mai amato le bionde, ma voi femmine avete tutte un buon profumo». La guardò negli occhi con sguardo compiaciuto del suo evidente disagio. La trovava carina, ma stupida per la sua inutile azione sfacciata, ed era intenzionato a baciarla per mettere bene in chiaro chi comandasse, chi avesse il coltello dalla parte del manico, ma non appena ci provò venne bruscamente interrotto.

«Che cazzo fai?» gli gridò il ragazzo seduto in fondo alla classe, dopo aver scostato la cuffia dall'orecchio sinistro. Melany l'osservò con la coda dell'occhio, ma ancora una volta non riuscì a vedere il suo viso. Prima di quel momento non sembrava interessato a quello che stava accadendo e, anzi, si domandava cosa avesse da spartire con quei poco di buono. Perché era lì?

«Faccio amicizia con la ragazza, Capo. Vuoi unirti a noi?» gli rispose il bullo, rivolgendogli uno sguardo. Poi lo invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano.

Ecco scoperto l'arcano: il Capo! E il Capo non si sporca mai le mani. Era rimasto in disparte perché occuparsi del malcapitato non gli competeva e, forse, aspettava solo di riceve la sua parte del bottino. Che persona terribile!

«Lasciala stare e torna a fare quel che stavi facendo» ordinò, poi riprese a sentire la musica.

Melany rimase basita: che avesse, come sempre, tratto le conclusioni in modo troppo affrettato? Se fosse stato un cinico comandante perché mai avrebbe dovuto prendere le sue difese? Forse le donne non rientravano nella cerchia delle sue vittime?

Il giovane gradasso, rimasto stranito dalla risposta del Capo, guardò gli amici contare i soldi sottratti al ragazzo ormai ripulito di ogni bene, poi concentrò di nuovo la sua attenzione su Melany.

«Se devo tornare a fare quel che stavo facendo allora torno da te, carina» sussurrò con sorriso malizioso, appoggiando le mani sul muro cosicché lei non potesse scappare.

Il cuore di Melany iniziò a martellare all'impazzata. Incapace persino di controbattere o di colpirlo lì dove non batte il sole, come aveva visto in numerosi film. Si rese conto che ritrovarsi realmente vittima di un'aggressione andava oltre l'immaginazione. L'adrenalina pietrifica, l'aria pesante impedisce di respirare e ogni pensiero razionale svanisce per lasciar spazio solo alla paura. Si sentiva in gabbia. Anzi, era in gabbia. All'esterno, chiusa in quella stanza, e dentro di sé, inchiodata dalle emozioni.

Il ragazzo avvicinò il viso al suo tentando ancora una volta un approccio, tuttavia il forte rumore di un banco caduto a terra lo fece sobbalzare e voltare di scatto.

«Mi pare di averti detto di lasciarla stare, o no?» gridò seccato il ragazzo incappucciato, che con un piede aveva spinto a terra il banco di fronte a sé. Un attimo dopo si alzò in piedi per andare incontro al recidivo, e quest'ultimo, visibilmente a disagio, si allontanò subito dalla ragazza, indietreggiando.

«Ok, ok. La lascio stare» disse alzando le mani in segno di resa e si avvicinò ai suoi compagni, interessato al gruzzoletto che si stavano spartendo.

Il Boss, vestito di jeans neri e maglia rossa, andò dritto verso la porta e l'aprì, poi si rivolse alla ragazza.

«La prossima volta, metti da parte il coraggio e continua a farti i fatti tuoi, Melany». La tirò per un braccio, la spinse oltre l'uscio e richiuse la porta con forza.

Dapprima Melany restò immobile, paralizzata per qualche secondo e incredula sull'accaduto, poi mosse qualche passo indietro, si volse e corse via in silenzio.

"I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio... e come sapeva il mio nome?" pensò.

https://youtu.be/vCYHmuFftmQ

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